Tra le molte rivoluzioni del gusto che scandiscono la storia del giardino, ve n’è una che si ritroverà poi sottotraccia variamente declinata tra molteplici ritorni e divagazioni fin nell’incrocio di implicazioni etiche e estetiche, politiche e ecologiche di quello dell’oggi. È la vicenda del giardino naturale teorizzato e praticato a fine 800 dall’irlandese William Robinson in opposizione al nuovo formalismo di quello vittoriano sostenuto da Reginald Blomfield (Il giardino formale in Inghilterra, 1892) e che muove e si afferma sullo sfondo di una critica morale antiurbana, di un nostalgico ritorno alla terra – e alla natura – anche sull’onda delle idee di intellettuali come John Ruskin e William Morris, del movimento Arts and Crafts e dei preraffaelliti. Risponde anche a mutate condizioni economico sociali: con il costo sempre maggior di vetro e riscaldamento per le serre, e della manodopera nella conduzione delle grandi tenute dei giardini, per le quali è venuta meno la base di riferimento, mentre si affaccia un nuovo pubblico le cui finanze consentono piuttosto la coltivazione di piante rustiche e semi-rustiche, che non la sostituzione di specie delicate prevista a ogni stagione di un giardino ad aiuole.
Siamo nel 1870. E nel suo Il giardino naturale Morris riscopre, individua e indaga protagonisti e spazi del giardino in una combinazione per molti tratti inedita. Un libro infinite volte ristampato, anche, poi, con le meticolose illustrazioni realizzate di concerto con Robinson da Alfred Parson. Ora nuovamente per Elliot, e peccato senza che se ne circostanzi retroterra e attualità, com’è ormai purtroppo uso corrente per troppi recuperi editoriali che si presentano sprovvisti di ogni viatico (pp. 82, € 20) Letteralmente, qui si tratta di Boschetti e arbusteti resi belli dalla naturalizzazione di piante esotiche resistenti, come recita il sottotitolo dell’edizione originale, poi, per maggior chiarezza integrato in un’edizione di poco successiva (ben sette son quelle che l’autore vide e su cui rimise mano), proprio sottolineando il loro naturale associarsi. Il giardino naturale di Morris si caratterizza proprio per il propugnato diffondersi, combinarsi e naturalizzarsi di piante rustiche – sia quelle esotiche che le autoctone, e qui, anche i fiori britannici rari o da recuperare, ma di climi e habitat compatibili – da collocarsi in luoghi diversi dal giardino “tutto previsto e regolato”, in condizioni che ne favoriscano l’adattamento per la crescita.
Un naturale da non confondersi però con il selvatico, né con il pittoresco. Che vede invece l’apertura all’uso come giardino di luoghi altri. In un ampliarsi di possibilità, protagonisti, combinazioni. Tra i vari tipi di giardino naturale vengono esplorati boschetti e sentieri, fossati e stradine ombrose, muri e rovine, rive di paludi, corsi e specchi d’acqua, frutteti perfino. Dove rose selvatiche, caprifoglio, clematis siano liberi di impossessarsi di siepi noiosamente tosate e di drappeggiare alberi morti, dove tra l’erba si recuperano arbusti, erbacee perenni, bulbose, dove viti selvatiche si diramano sugli alberi come per il tronco del salice piangente avvolto dalla vite canadese e per il luppolo che inghirlanda le foglie verde scuro di un tasso.
Dove sarà meglio perciò evitare di rasare così frequentemente l’erba e vangare le aiuole degli arbusti disturbandone le radici. Dove, soprattutto, liberandosi da “inutili e sgradevoli stravaganze geometriche”, moltiplicare le possibili combinazioni dei “nostri” fiori selvatici più belli con specie simili di altri paesi (e l’esempio è della la Scilla campanulata assieme a quella nutans), profittando dell’enorme varietà di piante che possano naturalizzarsi e ,crescendo in autonomia anno dopo, diffondersi, divenendo permanenti. Riunirle e associarle seguendo ciò che la natura fa. Osservando singolarità e processi, rispettando e ispirandosi alle loro abitudini di crescita, studiando aggregazioni spontanee di fiori selvatici, il loro coesistere per colonie e raggruppamenti. Accogliendo e integrando il cambiamento continuo. In ambienti, pur regolati, votati alla creazione di comunità vegetali viventi in un contesto progettuale in divenire. Ispiratore di un gusto che privilegia l’uso della diversità della flora spontanea cosmopolita, Robinson propende insomma per un dialogo più stretto con il contesto e il paesaggio che riaddomestica natura con botanica e orticoltura in una successione graduata di nuove occasioni per il giardino. Per tanti versi così attuale.
William Morris, Il giardino naturale, illustrazioni di Alfred Parson, pp. 82, € 20, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 44 Supplemento de Il Manifesto del 10 novembre 2024
Mandarino, pomelo e cedro. Sulla base dell’analisi del genoma, sembrerebbe che oggi siano state finalmente individuate le tre specie ancestrali che avrebbero dato origine a tutti gli altri agrumi. Ma è proprio la multiforme biodiversità degli appartenenti a questo consorzio – da sempre implicati in un continuo rimescolamento di ibridi, mutazioni, varietà e manipolazioni indotte –, a costituire la costante che finisce per conformare la loro ingarbugliata, cangiante vicenda ecologica e culturale.
Protagonisti di sistemi agricoli e paesaggi percepiti gli agrumi pervadono le nostre vite nei più diversi contesti. Dalle campagne produttive alle dinamiche dei mercati, agli usi alimentari, alla valenza estetica del corredo di sensazioni, sapori e profumi in cui si incappa per via di giardini e limonaie, per ritrovarli poi evocati in sensazioni e memorie, proiettati in romanzi e poesie, riflessi in dipinti, essenze profumiere, partiture musicali.
Il carattere della rifiorenza dei limoni, e della contemporanea presenza sulla pianta di fiori e frutti, è uno dei temi ricorrenti già con Teofrasto e poi nella letteratura, da Boccaccio, Ariosto, al Tasso del giardino di Armida. Come pure la particolarità della forma perfetta dell’arancia, del suo sapore come un fuoco d’artificio, nei versi di Apollinaire (Les collines, in Calligrammi, 1918), del suo colore (Gadda la vuole “imbibita di tramonti”), così come del suo profumo: quello che avvolge e stimola alla scrittura Rousseau (“circondato dall’odore di fiori di zagara scrivevo in un ininterrotto incanto”), o il condensato di fioriture delle campagne del Gattopardo racchiuso nelle tre gocce di bergamotto versate sul fazzoletto del principe Fabrizio.
Ma se è l’asprezza il tratto comune e ragione etimologica del termine ombrello per cedri, aranci, limoni che in italiano appare nell’Economia del cittadino in villa del bolognese Vincenzo Tanara del 1644 – agrumi – al centro del volume che oggi ci introduce al loro mondo per la penna di Giuseppe Barbera – dal perspicace sottotitolo braudeliano Una storia del mondo –, è posta lo specifico di una loro mediterraneità (Il Saggiatore, pp. 318, € 25,00).
Per mille ragioni più ampie, ma anche perché, come ci si spiega: “il clima mediterraneo subtropicale porta a maturazione, per l’equilibrio tra zuccheri e acidi, frutti di qualità irraggiungibile da quelli tropicali, dolciastri e senza contrasto organolettico”.
Con uno sguardo ben ampio, dove botanica e agronomia si incrociano con la complessità di sistemi ecologici, strutture sociali, valori culturali ed estetici, Barbera si diffonde in un caleidoscopio di excursus che – come i suoi frutti – ricombina carotaggi e divagazioni.
Il metamorfico manifestarsi degli agrumi vien ripercorso nei miti. E’ cosi che i pomi d’oro del giardino delle Esperidi delle fatiche di Ercole verranno identificati – in piena riscoperta della classicità – da Giovanni Pontano nel suo De hortis hesperidum del 1503 proprio con questi frutti. Con successiva consacrazione da parte di Giovan Battista Ferrari, gesuita e curatore dei giardini dei Barberini al Quirinale (su raccomandazione di Cassiano dal Pozzo) che sulla base dei campioni raccolti nella sua esperienza correda di numerose, accurate tavole botaniche la sua trattazione pomologica Hesperides, sive de malorum aureorum cultura et uso (1646).
È poi la complessa trama delle migrazioni degli agrumi a venir esplorata, dalle regioni tropicali e monsoniche verso lidi sub tropicali. Dalla Cina – dove nel XII secolo si riferisce di questioni di etichetta su come sbucciarli a corte – e dall’India a Gerusalemme, alle terre dell’antico Islam – protagonisti delle sperimentazioni di quella rivoluzione agricola –, da lì ad al-Andalus dove il patio de los naranjos della moschea di Cordoba con i suoi alberi allineati tra canaline d’irrigazione diverrà modello da replicare, fino alla Sicilia arabo normanna. In percorsi e incroci di cui si riscontra traccia in tanti etimi, proverbi, canzoni popolari.
Una vera e propria mania si profila nel clima di una nuova attenzione al mondo naturale della rinascimentale accademia neoplatonica e nei giardini medicei dove, tra naturalia e mirabilia, gli agrumi saranno oggetto di incontenibili collezioni. Occasione di celebrazione dinastica, come nel boschetto di aranci della Primavera del Botticelli e misura delle prime ansie classificatorie che traspaiono dalle tele di Bartolomeo Bimbi dove si fa ritratto di oltre un centinaio di agrumi, compresi di cartigli identificativi e descrittivi.
Con la scoperta dell’America e il trasferimento incrociato di piante, animali e microorganismi tra i due mondi, da subito son coinvolti anche gli agrumi. Già nel 1493 Colombo li porterà con sé nel suo secondo viaggio, dando avvio a una vicenda per cui il continente americano diverrà poi tra i maggiori produttori – e consumatori – di agrumi, ben davanti i paesi mediterranei. Mentre nella dialettica tra nord e sud del vecchio continente, assurti a elemento emblematico del paesaggio mediterraneo, e della sua idealizzazione da parte di tanti viaggiatori in formazione negli anni del Gran Tour, gli agrumi sono evocati nel celeberrimo lead di Goethe Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni, musicato poi da Schubert, Beethoven e Schumann. Nonché, ricorda sempre Barbera, in opere come Carmen, Bohème, Cavalleria rusticana
La passione o mania per gli agrumi (che si è preteso di coltivare finanche in Germania e nell’Europa orientale fino in Russia lungo il Mar caspio), combinata all’esigenza di proteggerli da temperature troppo rigide, specialmente ostili per limoni e pompelmi, produrrà il fiorire di ripari, conserve, cedraie, arancere, giardini d’inverno. Come la limonaia della villa medicea di Castello con la sua stordente camera dei profumi. Di gran moda, spesso scenario di feste e ricevimenti, dilagano serre e orangerie. A Versailles una galleria centrale di 155 metri è affiancata da due laterali e aperta sul gran parterre; nel giardino della neo palladiana residenza di Lord Burlington a Chiswick una ricca messe di specie e varietà animano un Anfiteatro di agrumi. E agrumi in vaso figurano anche sui balconi della Certosa di Parma di Stendhal.
Ma a segnare paesaggi e immaginari saranno anche le architetture dedicate alla coltivazione – specialmente a scopi alimentari. Dopo quelle elaborate già dai francescani nel XIII secolo per coltivare limoni in piena terra, quelle ordinate su gradoni chiusi su tre lati da alti muraglioni nella terraferma veneziana, ricordate nel 1483 da Marin Sanudo. E, soprattutto, gli spericolati terrazzamenti della riviera ligure e gli agrumeti produttivi della costa amalfitana e sorrentina all’ombra di pergole collegate al muretto della piazzola superiore.
Sul crinale tra paesaggi culturali e produttivi, il ruolo degli agrumi muta di segno con lo scarto tra frutto da ornamento nei giardini di piacere e coltura estensiva in vista di una produzione commerciale di ampia scala, capace di modificare i paesaggi fino agli eccessi speculativi o alla loro cancellazione, con le trasformazioni urbane e industriali.
Resta da chiedersi se, a corollario della loro instancabile mutevolezza e variabilità, e nella dialettica con i più recenti mutamenti climatici e dei sistemi produttivi, gli agrumi di oggi, non solo siano gli stessi del passato – come direbbe Barbera, bisognerebbe chiedere a Teofrasto –, ma come domani… diverranno.
Giuseppe Barbera, Agrumi. Una storia del mondo, Il Saggiatore, pp. 318, € 25, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 40 Supplemento de Il Manifesto del 13 ottobre 2024
Tratto distintivo degli alberi anche in quanto elemento costutivamente dinamico per come, continuamente crescendo, si riconfigura, la corteccia esige un’attenzione che se da un lato la assimila al soggetto di cui è veste e interfaccia, al tempo stesso, da questo la isola in una sorta di straniamento. Perché specialmente per indagarne il dettaglio che fa inesauribile la varietà di combinazioni delle sue forme e colori, la corteccia va osservata a sé, da vicino, isolata, quasi riquadrata.
Nel suo percorso di ricerca, l’aspetto estetico è demandato, senza nessun intervento, alla restituzione in fotografia del ritaglio dei soggetti. E soltanto in seconda battuta gli si affianca l’immagine dell’albero nel suo contesto naturale.
Considerando che già ogni corteccia ricomprende in sé un insieme di relazioni fin quasi a farsi ecosistema: si dica del caso dell’Acacia a corna di toro dove la colonia di formiche che difende la pianta con cui vive in simbiosi trova rifugio in grandi spine ormai ipertrofiche a forma, appunto, di corna di toro e piuttosto residuo segno distintivo.
Scorrono così tra le pagine ritratti di cortecce striate, screpolate, incise da verruche e lenticelle, squamate per frammenti rettangolari, lamine molteplici o strati sovrapposti, spesse, fibrose fino a essere ignifughe ricche di tannino contro funghi e insetti, percorse da placche, losanghe, bocche, cerniere verticali, lacerate orizzontalmente a intervalli regolari, crepate da solchi ritorti, tappezzate di spine
Volta a volta tracce, o sigilli ed emblemi destinati a restar fissi nel tempo o a variare per grana, cromia, iridescenze. A segnare anche il trascorrere delle diverse fasi della vita dell’albero come del volger delle singole stagioni nell’arco dell’anno: il sommarsi di strati sovrapposti di placche di corteccia rosso violaceo che crescendo conforma il pino marittimo; lo sfogliarsi con il sopraggiungere della calura estiva di frammenti rettangolari che dal tronco del corbezzolo greco si avvolgono come bastoncini di cannella svelando il fugace verde mela della nuova corteccia; il verdeazzurro che la grigia, vecchia corteccia dell’eucalipto rosso di Sydney assume subito prima di virare al cambio sui toni del giallo e poi dell’arancio.
E, allargando appena lo sguardo, i contrasti si moltiplicano: tra il fogliame grigio verde della californiana manzanita di San Luis Obispo e la sua sottile corteccia di un tenue color porpora che con la desquamazione dell’estate lascia via via apparire una favolosa tavolozza di verdi arancio, rosso scuro e viola; quello tra i rami bianchi e il tronco nero dopo un incendio che spiega l’origine del nome greco della Melaleuca quinquenervia (niauli), la cui compatta corteccia papiracea è serviva via via da isolante per le case tradizionali, per cucinare e avvolgere dolcemente di neonati; o quello ancora tra i fusti spinosi dell’ocotillo e le miriadi dei suoi rossi fiori melliferi che fugacemente illuminano i paesaggi desertici dal sud-ovest dagli Stati Uniti al Messico.
Estensivamente, oltre a quelle degli alberi, l’autore include tra le cortecce i rivestimenti anche di bambù e felci arboree, di liane come ilFico strangolatore della Florida, di erbe giganti a forma di albero, come la pirofila Xanthorrhoea australis, sorta di fossile vivente, dalla crescita che non supera il metro in cento anni, ma anche il corsetto vegetale dalle tinte policrome costituito dalla base delle foglie del sabal palmetto disposte a crociera.
Implicate in queste meravigliose forme d’arte involontaria si accompagnano soluzioni efficaci, ingegnose invenzioni dell’evoluzione. Come per la corteccia di mimetizzazione che nel pino di Bunge cambia colore a seconda delle stagioni e dell’orientamento, o nel caso delle lenticelle che sul candido tronco del pioppo bianco talvolta si uniscono a disegnare bocche – vere e proprie aperture capaci di agevolare scambi gassosi. E mentre la colorazione sul verde di molte cortecce nuove – ad esempio nel cosiddetto Blu paloverde o Parkinsonia florida – tradisce la ricchezza di pigmenti clorofilliani e la capacità delle cortecce di effettuare fotosintesi spesso in condizioni di caldo eccessivo, la vite della Namibia vira invece in estate al bianco, favorendo così una migliore riflessione dei raggi solari. In alcuni casi poi – come per il kauri neozelandese, l’albero sacro dei Maori – è l’esigenza di scrollarsi di dosso parte almeno delle piante epifite che la ricoprono a spiegare il regolare rinnovo della corteccia.
Così quest’elemento, seppur discretamente molto presente nella nostra vita quotidiana – sotto le forme più varie, sughero cannella, caucciù incenso, prodotti medicinali, pigmenti, fibre, gomme da masticare –, si proietta a evocare paesaggi, libere astrazioni, mimetismi, carte geografiche, grafie.
Come per l’Eucalyptus sclerophylla, popolarmente detto dagli aborigeni australiani, scarabocchiato: sul cui tronco improvvisamente appare una sorta di scrittura a zigzag, articolata in una serie di diversi, riconoscibili ma incomprensibili moduli. Di cui si è decifrata l’origine soltanto negli anni 30, nel segno della larva di una piccola farfalla in azione tra vecchia e nuova corteccia, che si rivela però soltanto allo fogliarsi della prima.
È il lento mutare dello sguardo sul giardino di cui è stato apprendista e poi artefice lungo l’intero corso della sua vita quello che Herbert Pinnegar – ottantenne capo giardiniere di una signorile tenuta inglese, ormai dimissionato, e protagonista del volume di Reginald Arkel, Memorie di un vecchio giardiniere – ci restituisce, ripercorrendo stagione dopo stagione, dapprima il volgere al tramonto di un’era dalla fisionomia, anche in giardino, composta ma piuttosto inerte e senza grandi idee come quella vittoriana. Poi, sullo sfondo delle cesure imposte dalle due grandi guerre del 900, l’eco di una tormentata vicenda sociale ed estetica, nonché di intuizioni che si anticipano, con sensibilità affatto moderna per il contesto in cui Vecchia gramigna, questo il soprannome di Pinnegar, ci congeda tra i ricordi, dal cottage e dalla serra dove è stato confinato nei suoi ultimi anni (Elliot, pp. 150, € 16, edizione originale 1950).
Una parabola, dove questo prototipo di giardiniere conformato alle stagioni per anni replicherà gli insegnamenti del suo primo capo, continuando a lungo ad assortire come dietro un sipario dalie, astri e petunie, rose centifolia e garofanini.
Ma, nella sua irrequieta formazione di autodidatta, la passione per i fiori selvatici alimentata nelle passeggiate con Mary Bryan, la volitiva maestra elementare conoscitrice principe di tutti i fiori selvatici della Contea, sarà presto messa in valore dalla sua futura mentore, la proprietaria del giardino e della Villa.
Donna curiosa e appassiona lettrice di libri di giardinaggio, la signora Charlotte Charteris, già prima di sceglierlo come assistente giardiniere, aveva premiato quel timido fanciullo nel locale concorso dove il suo mazzolino di fiori acquatici (invece dei qualsiasi assortimenti proposti da tutti gli altri) rivelava come quelli che così bene crescevano assieme lungo il canale sarebbero, perciò, stati belli assieme.
Nel racconto a un tempo del carattere del protagonista e dell’esperienza di pratiche e saperi maturati in giardino convergono le inclinazioni di Arkel, giornalista dotato di humor, autore di volumi dedicati al giardinaggio e, specialmente, di libretti teatrali e musical di qualche successo tra gli anni 20 e la seconda guerra mondiale.
Timoroso e assennato, il suo Pinnegar è però sempre combattuto, a tratti pervaso da colpi d’ingegno. Riuscendo a far maturare in serra le fragole in aprile o a regalare un’arrembante fioritura dell’ipomea blu di cui la signora Charteris aveva portato con sé – ma con davvero poche speranze – un cartoccio di semi dai giardini della Mortola, di ritorno dal suo gran tour botanico in Costa Azzurra.
In ogni caso, e magari sulla scia dell’estetica del giardino naturale propugnato da William Robinson e Gertrude Jeckill, a Bert continueranno a piacere i fiori selvatici. Anche perché quelli coltivati risultano tanto più delicati. Così, osservando le preferenze secondo cui gli irrequieti verbaschi dalle infiorescenze a candelabro si vanno disponendo in giardino – da intrusi e tuttavia capaci di resistere alla siccità – decide di lasciarne alcuni là, enfatizzandone la coreografia. Facendoli entrare a pieno titolo nel progetto.
Tale sarà il risultato, che la signora Charteris, già per tanti versi in anticipo sui tempi, deciderà, dopo aver disposto l’invito in uffici postali e vetrine dei negozi, di aprire al pubblico quel giardino irregolare. La Villa come uno dei luoghi dove si accorre in visita da ogni dove.
Con le guerre poi, il richiamo alle armi anche dei giardinieri, l’abbandono delle aiuole, la vecchiaia, i ricordi si faranno spesso confusi.
Così, dal cottage che il nuovo proprietario gli lascerà in usufrutto assieme alla serra – quella stessa che da giovane gli aveva invece ispirato la diffidenza tipica verso le …cose esotiche – Bert sempre ricorderà di quando, come in una specie di gioco al rilancio, ogni sera la signora Charteris, gli insegnava il nome latino di un fiore. Per poi interrogarlo al mattino.
Reginald Arkel, Memorie di un vecchio giardiniere, Elliot, pp. 150, € 16, edizione originale 1950, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 36 Supplemento de Il Manifesto del 15 settembre 2024
Presenze permanenti della nostra vita domestica e lavorativa, le piante che teniamo in casa con noi riproducono in piccolo un frammento di natura, a surrogare precedenti relazioni pressoché perdute con ambiente e biodiversità sempre più lontani soprattutto per la specie umana, ormai prevalentemente concentrata in contesti urbani (al 55%) e ridotta a vivere (per l’80% del suo tempo) in luoghi chiusi.
E se in passato la flora da interno si diversificava in base al gusto delle culture di cui era espressione, è oramai diventata sempre più cosmopolita. Fenomeno globale, cresciuto, anche tra i giovani, con l’aumento del tempo libero e del benessere, la diversa disposizione e illuminazione delle abitazioni, la consapevolezza degli effetti benefici derivati.
Ripercorrendone la vicenda nella sua Storia botanica delle nostre case, come recita il sottotitolo del volume per il Saggiatore di Mike Maunder, Piante domestiche, si evidenzia tuttavia come oggi il ruolo ornamentale delle piante da interno si stia ampliando (pp. 253, € 24).
Nel nuovo ecosistema urbano, il più giovane del pianeta, si va comunque stringendo in una nuova intimità coevolutiva il rapporto mutualistico tra esseri umani e piante d’interno. Che, ospiti a loro volta di un’ampia varietà di intimi coabitanti, hanno anche la capacità di influenzare il microbioma domestico aumentandone la diversità, assumendo un ruolo di agenti sempre più attivi nell’ecologia dei nostri spazi vitali al chiuso. Parliamo di habitat in evoluzione dove emergono nuovi processi ecologici, con organismi che volontariamente vi introduciamo – animali domestici, piante, appunto, prodotti vivi fermentati –, e altri con cui conviviamo, come le centinaia o migliaia di specie tra cui insetti, piante, funghi, batteri.
Indagando la storia botanica del bioma umano, in un susseguirsi per fasi cicliche di passioni e abbandoni, mode e predilezioni fino al fanatismo della mania vittoriana per le felci o pteridomania, Maunder ricorda come, dopo i primi esempi d’epoca medievale di coltivazione di piante in ambienti chiusi (dianthus caryophillus), è con i grandi viaggi di esplorazione, e assieme l’effetto straordinario delle prime piante tropicali esibite nella Londra elisabettiana come esperienza mondana, che si afferma, con l’inizio del 600, una certa varietà di piante da interni: decorazioni “nei giardini entro le case” descritti da Hugh Platt nel suo Floraes Paradise. Mentre l’impiego del termine “esotico” si fa risalire all’erborista inglese John Gerard che lo utilizza nel 1597.
Una coevoluzione, quella tra piante tropicali da interno (arrivate tuttavia dai nuovi mondi spesso senza istruzioni su come coltivarle e moltiplicarle) e vivaisti, cercatori professionisti spesso in feroce competizione, che – assieme all’affermarsi di pubblicazioni dedicate al giardinaggio, riviste, serre, verande, giardini d’inverno intesi come stanze, parte integrante della casa, ma anche terrari e teche di vetro, cornici per accogliere micromondi vegetali –, vedrà affermarsi nell’800 il gusto e la fantasia di nuove tecniche d’ibridazione.
Incroci e sperimentazioni che nel caso delle piante d’appartamento – diversamente da quelle alimentari concentrate su un numero ridotto di specie – ne coinvolgono invece una grande schiera. Per quanto, a lungo, tra dilemmi morali nel timore di interferenze con le leggi della natura (e con la religione).
Sperimentazioni alla ricerca di nuove performance creative viventi. A cavallo tra arte, tecnologia, ricerca scientifica, etica e commercio. Fino a farne una ininterrotta impresa commerciale che dall’Europa dell’800 si estende agli Stati Uniti, specialmente di Florida e California e, oggi soprattutto in Asia (Thailandia Cina Corea e Giappone). Con i relativi rischi ecologici connessi a un modello d’impresa a lungo contraddistinto da un approccio predatorio, con riduzione degli habitat e scarsa sensibilità rispetto al tema della salvaguardia della diversità, nonché da significativi costi in termini di emissioni.
In quest’intima relazione botanica che ci vede sceglierle come coinquiline, le piante da interno, oltre ad arricchire le nostre vite sul piano dell’estetica e delle emozioni, stanno anche diventando parte integrante di un inedito metabolismo della vita urbana contemporanea
Componenti della famiglia multispecie di cui siamo parte, queste piante non son più singoli esemplari, ma veri e propri paesaggi, parte e innesco del tessuto urbano anche attraverso muri verdi o giardini verticali, infrastrutture per il nostro benessere, capaci di migliorare le condizioni di vita del bioma.
Incorporati nella progettazione, impianti vegetali estesi finiscono così, tra tecnologia e creatività, ingegneria, floricoltura, arte e scienza, per creare nuovi habitat urbani, includendovi interi sistemi viventi. Coì che gli edifici risultano spazi interni alla vegetazione e non più il contrario. Mentre il concetto di pianta si amplia includendo muschi, funghi, alghe.
Da sempre, nelle più diverse culture, il senso di una prossimità, quando non l’idea di un continuum, che trascorre tra vegetale e umano ha permeato cosmogonie e immaginari, convinzioni, lingue, fedi.
Evidente per come si riverbera nell’incrocio tra analogie morfologico-funzionali e caratteristiche botaniche, nonché nell’addensarsi di significati simbolici e proiezioni culturali: nel nutrito lessico condiviso tra mondo umano e piante – metafore vegetali, suggestioni onomastiche, assonanze –, gli usi culturali – nelle diverse funzioni assolte dai vegetali nel pensare il mondo, specialmente efficaci nei processi di significazione; nelle valenze simboliche delle figurazioni del mito, sotto il segno magari della metamorfosi che vede piante derivare da esseri umani – da Dafne a Ciparisso, da Mirra alle sorelle di Fetonte, specialmente donne –, o come progenitori vegetali nel filone dei racconti sugli alberi antropogonici che nutrono l’umanità primitiva.
In anni più recenti, le ultime acquisizioni della neurobiologia vegetale su un’intelligenza delle piante articolata in meccanismi complessi e modalità distintive, da combinare con letture filosofiche e antropologiche in un incrocio di discipline, dalla fisiologia alla paleoecologia, dalla bio semiotica alla fitoetica, ci rinviano una realtà del vivente ben più complessa.
A partire dalla riconsiderazione del concetto di individualità, per cui una pianta è piuttosto assimilabile a una colonia che a un individuo, di intelligenza decentrata, emerge un’ecologia che rimescola ecosistemi, una trama di connessioni e legami in divenire tra esseri, habitat e soggettività che si definiscono in un concerto di mutue relazioni. Così, ponendo l’attenzione sulle relazioni piuttosto che sulle individualità di soggetti continuamente in fieri, la conoscenza sempre maggiore della sconcertante alterità delle piante induce un radicale cambio di prospettiva. Ispirandoci una diversa attenzione al paesaggio animale e alle società dei vegetali, alla microfauna cosmopolita, alle alleanze di batteri e radici fino a lambire un’ecologia della vita che mette in crisi la distinzione tra quella organica e l’esistenza inorganica. Con l’allargarsi del riconoscimento dello statuto di soggetti anche a entità non umane, animali, fiumi, territori, suolo e lo straniante corollario al seguito di dover rimettere in questione la visione antropocentrica di cui siam permeati.
In questo contesto e tra gli esiti del lungo percorso che con fatica ci porta a ripensare l’assunto per troppo tempo imperante di un ostinato ordine gerarchico del vivente – dalla Urpflanze di Goethe alla neurobiologia di Mancuso passando per la Meravigliosa metamorfosi dei bruchi di Maria Sibylla Merian –, quel continuo divenire trasformativo cui diamo il nome di metamorfosi dilaga ben oltre l’ambito delle scienze naturali dove pure è costitutivo della vita, e, specialmente in anni recenti, si manifesta utile grimaldello nel tentativo di leggere il nostro mondo e interpretare il suo costante rimescolarsi di appartenenze sempre inattuali.
Se, dalle inafferrabili spugne alle meduse, agli animali-muschio, farfalle, salamandre, tritoni, sulla scia dell’evoluzione si procede per via di metamorfosi, è in un più generale contesto di stimoli reciproci e vicendevoli adattamenti tra fisionomie esito di inneschi e reazioni, che tutti, tanto all’interno della stessa specie che nelle relazioni interspecifiche, siamo implicati in un ininterrotto flusso di comunicazioni: impulsi elettrici, campi elettromagnetici, vibrazioni a bassa frequenza, rilascio di sostanze, messaggi olfattivi, tattili, molecole chimiche; posture di minaccia o cerimonie di saluto, danze di corteggiamento, canti, pose, parate. Cosicché, tutti, intuitivamente comprendiamo il linguaggio universale di multiforme eleganza con cui parla la natura: bellezza funzionale, esito di rapporti e strategie volta a volta messe in campo per alimentarsi, comunicare, difendersi, riprodursi, cooperare.
Nel serrato combinarsi di passi di danza della coevoluzione c’è però uno snodo imprescindibile (o particolarmente evidente ai nostri occhi). Se nel corso dei loro 470 milioni di anni di esistenza, sempre le piante si son riprodotte evolvendosi, fino a costituire più dell’80% della biomassa vivente sulla terra e determinandovi le condizioni geoclimatiche della vita, è in particolare con la rivoluzione sessuale delle angiosperme, la comparsa dei fiori sulla terra, ben prima di noi, nel cretacico, che si stringe la trama di interazioni e relazioni mutualistiche tra piante e impollinatori: uccelli e insetti, ma anche rettili, formiche, falene, pipistrelli, sapiens.
Senza che ci si possa dimenticare di altri… precedenti: enigmi viventi in collaborazione tra regni come i licheni, tra fungo e alga; i funghi stessi, entità interconnesse e insieme moltitudine, sistemi dinamici, creature queer, fino alla metà degli anni Sessanta assimilati al regno delle piante; i muschi, una sorta di reliquia delle prime piante adattate alle condizioni di vita sulla terraferma.
Son proprio le angiosperme, nel passo doppio impollinazione-fecondazione e poi dispersione dei semi, ad affinare, variandole nel tempo nel segno della specializzazione, innovative collaborazioni e strategie combinate di seduzione nei riguardi di portatori di polline e speditori di semi. Un campionario cangiante di ingaggi e ricompense sotto forma di colori, profumi, nettari sostanze narcotiche. Modulato sulle abitudini degli interlocutori e in grado di modificarle. Fino a declinare risposte adattative estremamente ricche, in termini di aumento del numero di specie e conquiste di nuovi habitat e territori. Tanto che oggi le piante da fiore costituiscono il 90% delle circa 300.000 specie vegetali presenti sulla terra.
Con la loro inesauribile varietà e complessità di strutture biologiche, la plastica capacità di adeguarsi alle più svariate condizioni ambientali, la sorprendente inventiva in termini di comportamenti riproduttivi, dall’autoimpollinazione alla clonazione, le piante concorrono a un felice combinarsi e ricombinarsi di estetica, utilità ed efficienza. Così, la geniale ricchezza di assortimento nei frutti, come il moltiplicarsi delle infinite forme dei semi o dei grani di polline – a palloncino, spiga, sferici, triangolari o ovali, polverulenti o appiccicosi, multicolori, tante quante le forme di locomozione – vanno assieme all’inafferrabile polimorfismo delle foglie: elemento pervasivo e matrici di vita, non foss’altro che per il loro saper assicurare la fotosintesi e quindi esercitare in esclusiva la capacità autotrofica, di trasformare energia in nutrimento.
“Tutto è foglia” diceva Goethe riferendosi a quel concentrato modulare di capacità plastico funzionali e alle correlate estrinsecazioni estetiche. Da quelle dell’acanto, maestose fino a ispirare i fregi dei capitelli corinzi a quelle che si srotolano delle felci, alla verticalità delle squame degli equiseti, fino agli oltre tre metri di larghezza di quelle della Gunnera manicata.
Gli alberi, poi – esseri unici e a un tempo plurali nel succedersi delle età e come esito di una sorta di colonia vegetale dove ogni parte assume forma di quasi indipendenza dalle altre, dove la corteccia stessa è un ecosistema, e che sono al centro di numerose forme di negoziazione con uccelli, pipistrelli, coleotteri, lucertole – con la loro costitutiva simultaneità di connessioni ecologiche alludono alla dimensione di un superorganismo in continuo movimento, in risonanza con gli altri protagonisti vegetali dove, sempre in equilibrio tra negoziatore, competizione, condivisione e aiuto reciproco, si opera in una dimensione collettiva, mutualmente ci si sostiene stringendo alleanze, simbiosi, scambiandosi molecole di difesa o zuccheri per via diplomatica attraverso sistemi di reti radicali.
E, proprio nel mondo nascosto delle radici, ritroviamo una delle relazioni di maggior successo in natura, le reti di micorrize (associazioni simbiotiche di funghi e radici, myko-rhiza), che influenzano la vita delle comunità vegetali epigee, consentono comunicazioni e corrispondenze tra soggetti, e, nel giogo di intrecci tra macro e microscopico, dialogano con la moltitudine di microorganismi che costituiscono il loro infinitesimale microbiota.
È su diversi fronti che – dal nostro punto di vista, ovviamente – si possono inseguire le tracce diffuse di questo concerto di relazioni tra uomini e piante. Sono presenze costanti, che accompagnano nascite, corteggiamenti, matrimoni e anniversari, fino ai riti funerari, dove le piante presidiano le nostre vite e il nostro immaginario con funzione di mediatore, simbolo, strumento rituale – e con diversi passaggi di testimone dalle più antiche credenze alle nuove religioni. Volta a volta, figurazioni mitologiche, riferimenti di aspirazioni mistiche, tradizioni esoteriche, veicolo di messaggi nei più diversi ambiti.
Incrociando botanica, espressioni artistiche, storia sociale, son tali le emergenze lessicali, letterarie, pittoriche, cinematografiche, scientifiche e d’uso, che finisce per risultarne una sorta di storia culturale sui generis.
Specialmente i fiori, rivestono un ruolo di tramite nel farsi interpreti del nostro sentire, ispiratori e catalizzatori di emozioni, valori, suggestioni – per loro, una predilezione innata, magari da ricondursi alla perfetta simmetria o alla carica di emotività positiva che ci trasmettono, anticipando la stagionale rinascita e i frutti che ne seguono. Fiori e piante figurano numerosi nelle più diverse forme espressive, dagli archetipici motivi ornamentali in architettura e, in figura, dalle miniature alle nature morte, dai preraffaelliti al pop, alle performances; ritratti su ceramiche, arazzi, monete, banconote, francobolli, protagonisti nel design, nelle sfilate di moda. Per non fare che un cenno alle loro apparizioni sulla pagina, dall’epica alla poesia, ai testi delle canzoni popolari. Fino a farsi essi stessi linguaggio. Quello figurativo, dell’illustrazione botanica nata per accompagnare e puntellare l’anelito classificatorio del 17 secolo e che finisce per precisarsi come genere, ambito a sé, linguaggio condiviso immediatamente comprensibile per un pubblico internazionale. E quello segreto della florigrafia d’inizio 800 che a ogni emozione faceva corrispondere un fiore.
Molteplici poi, vari e incrociati gli usi come farmaci e distillati per oli e profumi, accessori per abiti e corpetti o da appuntare all’occhiello; come dono, con i fiori da taglio (250 milioni son state le rose vendute soltanto negli Stati Uniti per San Valentino nel 2018, nonostante la festa cada nel freddo febbraio); come emblemi dall’araldica al folclore, o eponimi, individuando in molte lingue diversi colori (rosa, malva, pervinca); o ancora come ingredienti in cucina dove – oltre ai capperi e ai carciofi – vengono impiegati in sciroppi o salse, in insalate o canditi; materiali per costruire oggetti o materia prima da cui estrarre derivati.
Il disseminarsi delle scie di queste relazioni reciprocamente trasformative possiamo altrimenti seguirlo sul filo dei tragitti compiuti dalle piante in nostra compagnia, risalendone le tracce per etimologie, vernacoli, derivazioni lessicali, toponimi. Oppure coglierne il riflesso nel succedersi di nuove estetiche e mode. Il fascino per l’esotico innescato dai grandi viaggi di esplorazione del Nuovo mondo – con relativi vegetali al seguito; il collezionismo botanico, dai bulbi di tulipano nel 600 alle felci, alla passione per le serre e i terrari, all’algomania vittoriana. Fino alla produzione su scala industriale di piante facilmente disponibili sul mercato al dettaglio, a un prezzo abbordabile, che invadono abitazioni e uffici, questi ultimi specialmente per merito delle donne, con il loro nutrito ingresso nel mondo del lavoro del secondo dopoguerra. E, più di recente, l’attuale, talvolta intermittente, pervasiva febbre vegetale per le piante da appartamento. Piante da lockdown – come l’ubiqua orchidea falena, la Phalaenopsis –, con la domanda che sale alle stelle e l’impazzare sui social di plant influencers di vario conio.
Questa versatile ubiquità di intersezioni che fortemente ci coinvolgono e si fanno via via più leggibili anche ai nostri occhi – pur sempre organi di senso e capacità percettive tarate su altre scale, cui fanno velo i molteplici autoinganni di una prospettiva tutta antropocentrica –, testimonia di una vicenda coevolutiva di reciprocità e correlazioni variamente intrecciate – come usiamo le piante e come ci usano (non a caso Michel Pollan suggeriva come i desideri umani facciano parte, come il nettare, della storia naturale) – avendo anche loro impiegato gli ultimi diecimila anni a escogitare modi per nutrirci, guarirci, vestirci … impressionarci. Perché è evidente che esser ritenute utili e belle costituisce per le piante un vantaggio evolutivo che ne aumenta e garantisce vitalità e diffusione.
Ed è proprio sull’onda della consapevolezza sempre maggiore di questa nuova centralità del tema della vita, e del tipo di interdipendenze che la tramano, tra spazio e potere, che anche quell’occasione privilegiata d’incontro e mediazione con il mondo vegetale che è il giardino, dopo essersi a lungo fatto interprete prevalentemente di proiezioni ideali in artificio, simbolismi, trasfigurazioni, messe in scena del potere, ci invita oggi a ripensare ciò che chiamiamo natura nei termini di una continua mescolanza di soggettività plurali in relazione. Da conoscere e ascoltare. E, nel segno dell’invenzione, da assecondare, integrando le loro multiformi esigenze ed espressioni in una dimensione progettuale.
Capace cioè di comprendere il carattere dei luoghi, intuirne i tempi di sviluppo, farsi complice della vegetazione, prefigurare il coesistere dei protagonismi del vivente e il loro ricombinarsi nel tempo e nel succedersi delle stagioni, pensare a lungo termine. E concorrendo a determinare un’estetica responsabile e anticipatrice, stretta ai temi della biodiversità, dell’uso sostenibile delle risorse, della bassa manutenzione, della scarsità, del secco, delle pratiche di restituzione.
Proiettandoci in questa foresta di relazioni che ci include, l’esperienza polisensoriale della pratica del giardino ad un tempo ci immerge nel flusso ininterrotto della metamorfosi e rende palese questo nostro partecipare come coautori. Ospite, sintesi ed espressione di queste relazioni, il giardino è anche metafora di un possibile, diverso modo di porsi in una complessiva riconsiderazione critica di fronte all’evidenza dei limiti del modello di sviluppo basato sullo sfruttamento infinito delle risorse.
E, ancora dal nostro punto di vista, nel procedere del giardino – che incrocia dimensione interiore e collettiva pratiche e temporalità, emozioni e sentimenti, incantamenti, stati d’animo e, d’altro canto, dimensione sociale, assunzione di responsabilità, condivisione, reinvenzione e riutilizzo di luoghi, progetti e interventi di rigenerazione e riappropriazione dello spazio pubblico –, la nuova prospettiva che i nostri interlocutori vegetali, animali, climatici, ci inducono ad acquisire risulta fonte ulteriore di ispirazione in vari ambiti, dalla biomimesi a nuovi paradigmi e forme di stare, assieme, al mondo. Altri con gli altri, nei termini relazionali di un mutuo determinarsi di attenzioni, mescolanze, reciprocità. All’insegna di nuove, ricombinate familiarità.
Questo testo è apparso nella serie METAMORFOSI de Il Manifesto il 22 agosto 2024
Mettendo in relazione bruchi e farfalle – nel 17 secolo ritenuti indipendenti – una misconosciuta naturalista e intrepida esploratrice e illustratrice tedesca, Maria Sibylla Merian, ne ritrae ad acquerello con fedele precisione il ciclo di vita e gli stadi di sviluppo, raffigurandoli però nel loro contesto. Le tavole dove illustra gli esiti della sua pionieristica spedizione in Suriname, nella Meravigliosa metamorfosi dei bruchi e il loro singolare nutrirsi di fiori, pubblicato a 32 anni a partire dal 1679, muovono proprio dall’attrazione per una metamorfosi imprescindibile dalla fitta rete di relazioni tra specie animali e vegetali.
Bibliografia di titoli tutti recensiti sulle pagine del giornale
Stefano Mancuso e Alessandra Viola, Verde brillante. Sensibilità e intelligenza del mondo vegetale, Giunti 2013
Paco Calvo, Pianta Sapiens, Perché il mondo vegetale ci assomiglia più di quanto crediamo, Il Saggiatore 2023
Paola Bonfante, Una pianta non è un’isola. Alla scoperta di un mondo invisibile, Il Mulino 2021
Emanuele Coccia, La vita delle piante. Metafisica della mescolanza, Il Mulino, 2019 e Metamorfosi, Einaudi 2022
Monica Gagliano, Così parlò la pianta. Un viaggio straordinario tra scoperte scientifiche e incontri personali con le piante, Nottetempo 2023
Andrea Staid, Essere natura. Uno sguardo antropologico per cambiare il nostro rapporto con l’ambiente, UTET 2023
Wendy Williams, La vita e i segreti delle farfalle. Scienziati, ladri e collezionisti che hanno inseguito e raccontato l’insetto più bello del mondo, Aboca 2020
Baptiste Morizot, Sulla pista animale, Nottetempo 2021
Marco Di Domenico, Taccuino delle metamorfosi, Codice 2022
Federico Luisetti, Essere pietra. Ecologia di un mondo minerale, Wetlands 2023
Francesca Buoninconti, Senti chi parla. Cosa si dicono gli animali, Codice 2021
Lawrence Millman, Funghipedia. Miti, leggende e segreti dei funghi, il Saggiatore 2020
Merlin Sheldrake, L’ordine nascosto. La vita segreta dei funghi, Marsilio 2020
Miek Zwamborn, Alghe. Un ritratto, Nottetempo 2024
Stephen Buchmann, La ragione dei fiori. Storia, cultura, biologia di una creazione sublime, Ponte alle Grazie 2015
Alessandro Wagner, Fare l’amore come un’orchidea. Storia e mirabilia del fiore più intelligente del mondo, Ponte alle grazie 2023
Johanne Anton, Come si amano le piante. Lezioni sull’amore, il sesso e il desiderio dal mondo vegetale, WUDZ 2024
Giardini di foglie a cura di Laura Pirovano, Libreria della natura 2021
Simon Morley, Non solo rose. Storia culturale di un fiore, Solferino 2023
Michael Pollan, Piante che cambiano la mente, Adelphi 2022
Dale Pendell, Pharmako/Dynamys. Piante eccitanti, pozioni e la via venefica, add 2024
Noel Kingsbury, La storia dei fiori e di come ci hanno cambiato la vita, L’ippocampo 2022
Laurent Tillon, Essere una quercia, foto di Irene Kung, Contrasto 2022
Molly Williams, La tua casa botanica. La strana e sensazionale storia delle piante da appartamento e tutti i segreti per prendersene cura, Aboca 2023
Angela Borghesi, Fior da fiore. Ritratti di essenze vegetali, con le illustrazioni di Giovanna Durì, Quodlibet 2022
Mino Petazzini, La poesia degli alberi Un’antologia di testi su alberi, arbusti e qualche rampicante, Sossella 2021
Mario Lentano, «Vissero i boschi un dì». La vita culturale degli alberi nella Roma antica, Carocci 2024
Illustrazione botanica, a cura di Charlotte Brooks, Royal Horticultural Society-Guido Tommasi Editore 2023
Guido Davico Bonino, La felicità è nel giardino. Una guida letteraria, il Saggiatore 2024
Rebecca Solnit,Le rose di Orwell, Ponte alle grazie 2023
Mirella Levi D’Ancona, La Primavera di Botticelli. Un’interpretazione botanica, Olschki 2024
Jacques Brosse, Storie e leggende degli alberi, traduzione di Anna Zanetello, Edizioni Studio Tesi 2020
Paola Viganò, Il giardino biopolitico. Spazi, vite e transizione, Donzelli 2023
Luca Molinari, La meraviglia è di tutti. Corpi, città, architetture, Einaudi, 2023
Poco più che bacche amare di vari colori, gialle o rosse, quei frutti che gli aztechi chiamavano xitomatl addomesticati in Messico almeno mille anni prima dell’arrivo degli spagnoli, e che noi chiamiamo pomodori, almeno dalla metà del 500, furono a lungo considerati con diffidenza, al più piante ornamentali, prima di intraprendere quel complesso, singolare percorso che li portò a diventare alimento ubiquo e finanche oggetto culturale, proiezione identitaria di stili di vita.
Certo è che l’aspetto e il sapore dei primi pomodori introdotti in Europa fossero in realtà ben diversi da quelli che l’odierna lusinghiera reputazione riconosce loro. Attestati tra i frutti inviati a un Cosimo de Medici particolarmente interessato alle piante del nuovo mondo e in quell’occasione così denominati da uno dei suoi fattori, l’aspetto dei pomodori non doveva esser dissimile da quello, di tipo costoluto, raffigurato tra scene dell’Antico e Nuovo testamento con elementi di fauna e flora locale, ma anche esotica, nelle nuove, secentesche porte della cattedrale di Pisa fuse nella bottega del Giambologna a sostituire quelle originali distrutte da un incendio. Quanto al sapore, prima delle varietà che sarebbero poi derivate da molteplici, serrate serie d’incroci, risultava sicuramente acido molto più di quanto non siamo abituati e le sue foglie, a dire di molti botanici, “puzzavano”.
Mangiati, ma piuttosto assaggiati come curiosità, appariranno, utilizzati come condimento, soltanto a fine 600 in un libro di cucina, Lo scalco alla moderna, di Antonio Latini, e a meta Settecento figurano nel menu di alcuni ordini religiosi.
Per quanto accolti come commestibili, a lungo rimasero impopolari – forse anche in ragione della loro appartenenza alla famiglia delle solanacee che annovera una parente tossica come la belladonna –, per finire poi come risorsa nutritiva a basso costo della dieta contadina specialmente dell’Italia meridionale.
Con l’800, mentre la conserva e la salsa di pomodoro dilatano la disponibilità di un prodotto fortemente stagionale – rendendolo alimento con valenza autonoma e identitario nella dimensione collettiva che spesso assume la sua produzione – le varietà si differenziano e al sud si affermano pomodori più piccoli, a forma di pera o di uovo, migliori per la cottura, ma anche per l’inscatolamento. Fino all’imporsi, con il suo più intenso, equilibrato sapore, del San Marzano. Che negli anni 20 del 900 con la Cirio arriva a creare in Italia sessantamila nuovi posti di lavoro, con seicento impianti di inscatolamento, e fortissime esportazioni all’estero.
Tra i molti episodi ricostruiti, Alexander procede tessendo il filo della stretta relazione del pomodoro con pizza e spaghetti.
Quanto alla prima, alimento base a partire dalla metà del 700 a Napoli, la codifica della versione combinata con pomodoro e mozzarella vien ricondotta con diversi distinguo al 1889, con la visita in città della regina Margherita di Savoia. Anche per la pasta, l’idea dell’accoppiata con il pomodoro sembra poter rimontare al più agli anni ottanta dell’Ottocento. E nel 1891 Pellegrino Artusi ne confermerà la diffusione con ben due ricette diverse per i maccheroni alla napoletana.
Una popolarità, nei successivi anni 20 ancora riflessa nei cartelloni pubblicitari art déco della Cirio per il pennello di Leonetto Cappiello. Questo almeno, finché le politiche autarchiche del regime fascista a favore del grano non ridurranno della metà il raccolto dei pomodori, destinati peraltro al novanta per cento a rifornire secondo un accordo segreto di guerra l’alleato germanico. Fino ad arrivare, il 28 dicembre del 1930 con Il Manifesto della cucina futurista a invocare “l’abolizione della pasta, assurda religione gastronomica italiana”.
Come già per la diffusione mondiale della pizza, al tempo della Seconda guerra mondiale ristretta a poco più della Campania, diffusione che avverrà invece a partire dall’altra sponda dell’Atlantico, complice l’emigrazione di milioni di italiani, Alexander segue la vicenda della conquista degli USA da parte del pomodoro.
Dall’iniziale avversione all’accettazione testimoniata dalle sue prime rappresentazioni nella pittura statunitense (Natura morta con frutta e vegetali, di Raphaelle Peale, Wadsworth Atheneum Museum of Art a Hatford, Connecticut, 1795 opp. 1810) alle presidenziali coltivazioni da parte di Thomas Jefferson nella sua tenuta a Monticello, in Virginia, nel 1809; dall’improvviso e fenomenale successo di pillole panacea al pomodoro dalle presunte valenze terapeutiche (anni 30) al rapido crescere di popolarità verso fine secolo anche del prodotto secondario (o di scarto): quel ketchup definito nel 1896 dal “New York Herald Tribune” condimento nazionale; al pomodoro, infine, come interprete della crescita industriale del paese con l’introduzione della ‘linea automatica’ in tanti piccoli impianti di inscatolamento, regionali o stagionali, vicino ai campi di pomodoro ad anticipare la catena di montaggio. Con le connesse ricadute su abitudini alimentari – la zuppa di pomodoro come pasto completo e cibo pronto, nonché icona nella serie delle serigrafie della zuppa Campbell di Andy Warhol del 1962 – e semplificazione dell’ingresso delle donne nel mondo del lavoro.
Non manca, il complesso ambito di problemi che ruota attorno a ibridazioni, ogm, startup biotecnologiche, perdita di biodiversità, dipendenza dalle aziende che vendono semi, utilizzo in agricoltura dell’ingegneria genetica
Dalla creazione verso la fine degli anni quaranta del novecento del pomodoro gigante Big Boy – tra piante che crescevano fitte e aggrovigliate fino a quattro metri e mezzo, al cosiddetto pomodoro della Florida, che, per mezzo secolo, è stata l’incarnazione derisa e demonizzata, ma di successo del tipico alimento prodotto industrialmente, senza gusto né anima, reso possibile anche in seguito alla scoperta della mutazione fortuita che porta alla maturazione simultanea (così che l’intero pomodoro maturi tutto insieme contemporaneamente, piuttosto che in un percorso progressivo); ai movimenti di contestazione anni 70 contro un pomodoro ibridato ormai irriconoscibile e per il ritorno ai pomodori d’antico lignaggio, di cui scambiare semi ereditati delle varietà tradizionali. Fino ai più recenti processi di produzione industriale di “agricoltura protetta’ o “di precisione”, che vedono i pomodori coltivati ora anche in Canada in serre gigantesche e filari alti metri. Certo, con enorme risparmio di acqua, la possibilità di una lotta biologica con uso di insetti benefici per eliminare quelli nocivi e rese capaci di produrre frutti in una misura dalle dieci alle venti volte superiori alle piante coltivate in campo aperto. Fattorie idroponiche dove però, in un ambiente controllato e arricchito di anidride carbonica la luce per maturare i frutti viene fornita con lampade al sodio ad alta pressione e led alimentati da un generatore diesel. E dove per spostarsi è meglio girare in bicicletta, a 20 gradi, mentre fuori nevica.
A fronte del persistente ritorno di interesse per forme e qualità del nostro esser parte e in relazione con la natura nonché per il ruolo di mediazione che in quest’ambito il giardino ha da sempre svolto, oggi con particolare efficacia inventiva, torna utile la proposta del ponderoso volume, oltre le mode, dove una specialista come Mariella Zoppi pur non discostandosi dal tradizionale impianto delle storie di giardini e dalla sua precedente sintesi, riprende e riordina questa vicenda come prisma di lettura, nelle sue molte interrelazioni, di una universale storia culturale (Giardini. L’arte della natura da Babilonia all’ecologia urbana, Carocci, pp. 445, € 35,00).
Per il tramite dell’analisi di realizzazioni e progetti emblematici – particolarmente interessante al riguardo il racconto dei secoli più recenti, per quanto ci si arresti sulla soglia di un contemporaneo davvero ricco di variabili da indagare – il volume si sofferma in puntuali ricostruzioni documentarie di direttrici, snodi, sentieri interrotti. Con la scrittura godibile di chi soprattutto intesse relazioni evidenziando filiazioni, analogie e concause, incrocia, per ambiti geografici ed egemonie culturali, estetiche e verticalità politico-istituzionali – dove modi e stilemi sembrano inseguirsi, come in una sorta di passaggio di testimone, per via di debiti e reinterpretazioni – con tematiche sovraordinate, per come in forme diverse di declinano nei diversi contesti.
Così, per dire, è nella congerie dei dibattiti di inizio Novecento sul tema della casa e della città, che si assiste al ripensamento del rapporto fra abitazione e giardino che figura da allora come componente estesa e unificante dell’intero sistema abitativo. E alcune importanti esperienze urbanistiche e paesaggistiche (la Grande Helsinki nel 1918 e, nel 1915, il concorso pubblico per il Cimitero nel Bosco (Skogskyrkogården) a Enskede, nei pressi di Stoccolma) anticipano l’esperienza scandinava del funzionalismo che individua poi il parco come luogo d’incontro per tutti, sintesi di natura e cultura, con interventi dalla forte valenza sociale ed educativa (Carl Theodor Sørensen).
Mentre, ben altrimenti il rapporto tra il giardino e avanguardie, specialmente il cubismo, dall’Esposizione universale di Parigi del 1925 con il giardino con alberi di cemento di Robert Mallet-Stevens e quello, inaccessibile, di “d’acqua e di luce” di Gabriel Guévrékian, segnala un atteggiamento di rifiuto dell’imitazione della natura, geometrizzata invece e da metter sotto controllo (i fratelli Vera), un fenomeno come il fascino per il giardino Mediterraneo vien seguito nelle sue molteplici declinazioni. Dalla passione botanica, specialmente per l’esotico, dei giardini di acclimatazione di ville su rive, isole e laghi – con le atmosfere moresche evocate dalla riscoperta dell’Alhambra e dalla passione dei viaggi in Africa –, alle rivisitazioni rinascimentali e neoclassiche in singolare connubio tra stile vittoriano e giardino all’italiana aperto sul paesaggio di una Toscana dove la comunità straniera si affida specialmente a progettisti inglesi come Geoffrey Scott e Cecil Pinsent. Ma anche sul filo del recupero di un antico fuori dal tempo con il ridisegno del sistema dei tracciati di accesso al Partenone del greco Dimitris Pikionis (1887-1968), o nel rilievo dell’esperienza degli architetti modernisti di Barcellona, in particolare Nicolás María Rubió y Tudurí, tra classicismo, identità culturale, naturalità e un’attenzione botanica per specie autoctone ed esotiche o, ancora, invece, nel quadro delle nostalgie della lettura fascista di un Giardino italiano esaltato e disciplinato sotto la guida di Ugo Ojetti nella grande mostra fiorentina del 1931.
Se poi, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento si afferma il tema della rilevanza e specificità della presenza femminile nella storia del giardino, questo si intreccia con il nodo della formazione, di un orientamento oltre l’approccio amatoriale – specialmente nell’esperienza statunitense – più tecnico-scientifico, mirata allo svolgimento di una professione (del 1922, la fondazione del Glynde College for Lady Gardeners). Con l’istituzione a New York nel 1899 della American Society of Landscape Architects, e Beatrix Farrand unica donna tra i diciannove fondatori, si afferma una scuola paesaggistica, dove, dopo la grande crisi, un nuovo carattere identitario propugna la sintesi tra edificio e il suo intorno, una forte continuità fra interno ed esterno, una complementarità strutturale fra architetture e ambiente che si estende alle diverse scale. Un modo di operare dell’architettura del paesaggio come risposta a un’esigenza sociale nel segno del miglioramento degli ambienti di vita.
Così, dall’ideale – tradotto in giardino – della vita di campagna di età postvittoriana, come già prima dall’arte di progettare la natura emblematica del giardino paesaggistico inglese, si arriverà a porsi nel XXI secolo il tema della cura dei luoghi.
Dove rispetto al diverso graduarsi di “formale” e “naturale”, conta piuttosto la capacità di accompagnarli e interpretarne la dialettica, fin sulla scala territoriale.
Assumerne, in proiezione, una presenza diffusa, capillare e pervasiva, dove ogni segmento di verde si pone come tessera di un mosaico sistemico, ospite di interazioni complementari, impone di ripensare l’idea stessa di giardino, oltre il recinto.
“Alla fine del XX secolo, pur nelle differenze di clima, culture e tradizioni, l’arte del giardino non è più riferibile ad ambiti specifici”. Installazioni artistiche, esperienze partecipative di sistema (il Superkilen di Copenaghen), uso di piccoli spazi residuali, sistemazioni temporanee, sovente spontanee e partecipate, recupero della memoria dei luoghi, si innestano in una sorta di continua sperimentazione di soluzioni a problematiche condivise dove più che l’adesione a specifiche tipologie o soluzioni formali, conta tradurre aspirazioni verso nuovi modelli dell’abitare.
In una generale riqualificazione ecologica, presupposto progettuale di una urbanità imperniata sullo spazio pubblico.
Mariella Zoppi, Giardini. L’arte della natura da Babilonia all’ecologia urbana, Carocci, pp. 445, € 35,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 23 Supplemento de Il Manifesto del 7 luglio 2024
Con lo straniante portato di rimettere in questione la visione antropocentrica di cui siam permeati, la sempre maggior conoscenza dell’alterità delle piante rinvia a una realtà del vivente ben complessa. A partire dalla riconsiderazione del concetto di identità, per cui una pianta è piuttosto assimilabile a una colonia che a un individuo, suggerisce una trama di strette connessioni, legami in divenire tra esseri, habitat e soggettività che si definiscono in un concerto di mutue relazioni.
E questo ancor più se a tale alterità si guarda attraverso il prisma della loro vita riproduttiva, con la sorprendente complessità di strutture biologiche, varietà di caratteristiche e comportamenti sessuali, inventiva di strategie secondo cui le piante si sono riprodotte sempre evolvendosi nei loro 470 milioni di anni di esistenza. Dalla comparsa del fiore a innovative collaborazioni con numerosi vettori di pollini e semi, dall’autoimpollinazione alla clonazione, al declinarsi di risposte adattative estremamente ricche in termini di biodiversità, con aumento del numero di specie e conquiste di habitat e territori
È quanto si propone Johanne Anton nel suo Come si amano le piante, WUDZ editore, pp. 213, € 17,00 analizzando oltre trenta casi con corredo documentario di svelti acquarelli dal felice piglio narrativo.
L’autrice tratteggia così una sorta di storia evolutiva delle piante sub specie della loro sessualità, con una particolare attenzione a come il linguaggio della botanica si sia dimostrato inventivo nel lessico e nelle metafore per veicolare concetti nel descrivere e denominare gli elementi di una vita sessuale così diversa rispetto ai nostri riferimenti.
Se è con le 12.000 specie di felci diffuse durante il carbonifero (tra 359-299 milioni di anni fa) che si formano intere foreste dove appaiono le prime vere foglie nel regno vegetale, ma per la cui fecondazione l’acqua è ancora imprescindibile, è soltanto con le conifere che, dopo le spore, appaiono i semi come tramite per la riproduzione. Semi nudi perlopiù, non protetti da un ovario chiuso. E, soltanto dopo altri 100 milioni di anni avverrà, con le angiosperme, la rivoluzione sessuale dei fiori che ha cambiato il corso dell’evoluzione.
Piante da fiore che oggi costituiscono il 90% delle circa 300.000 specie vegetali presenti sul nostro pianeta, mentre le gimnosperme sopravvissute rappresentano meno del 10% e le decine di migliaia di specie di conifere si son ridotte a meno di 1000.
Senza dimenticare i precedenti della doppia natura del lichene, unione (da 450 milioni di anni) tra specie appartenenti a due regni diversi, un fungo e un alga, e dei muschi, reliquie delle prime piante adattate alle condizioni di vita sulla terraferma, dove pure gli insetti contribuiscono alla dispersione delle spore.
I casi che la Acton ripercorre evidenziano come, nel doppio passo impollinazione-fecondazione, le strategie di seduzione delle piante nei riguardi di portatori di polline e di speditori di semi – spesso in una coevoluzione con vantaggio reciproco, anche se non priva di rischi – si affinino e varino nel tempo nel segno della specializzazione.
Dalla passione del colibrì golarubino (Archilochus colubris) per la Lobelia cardinalis endemica del Quebec, al lemure variegato, tra i maggiori collaboratori del mondo vegetale dopo l’uomo, per l’albero del viaggiatore o Ravenala madagascariensis. Dal percorso di impollinazione reciprocamente vantaggioso tra la yucca, presenza ormai pervasiva nelle nostre case e uffici, e la sua falena impollinatrice del genere Tegeticula a rischio invece di estinzione nel suo areale d’origine, fino al ruolo crescente dei gechi come impollinatori in ragione del cambiamento climatico e della perdita di molti insetti
Nel caleidoscopio delle strategie riproduttive, accanto all’autofecondazione del ranuncolo, si ricordano il caso, unico conosciuto ad oggi per le piante acquatiche, dell’erba tartaruga (Thalassia testudinum) dei mari tropicali che sembra avvalersi del trasporto di polline da parte di crostacei e piccoli vermi con relativa ricompensa alimentare, o gli stratagemmi di tipo mimetico come il sofisticato travestimento del fiore di alcune orchidee che imita figura e odore dei feromoni sessuali femminili dell’insetto impollinatore.
Non mancano poi ingegnosi meccanismi: di ricompensa, per esempio termica, nel caso del loto che di notte sviluppando calore attira coleotteri nel ricettacolo del fiore, o quelli che consentono agli ovuli dell’albero di ginkgo di esser fecondati anche dopo che sono caduti a terra.
Così, nella varietà della loro alterità, la geniale ricchezza di invenzione nei frutti da parte delle angiosperme, le infinite forme dei semi – così come quelle dei grani di polline, a palloncino, spiga, sferici triangolari o ovali, polverulenti o appiccicosi, multicolori –, tante quante le forme di locomozione, dal più grande fino ai 25 kg del cocco di mare (Lodoicea maldivica), capace di viaggiare per mesi galleggiando a quelli minuscoli di alcune orchidee, raccontano ciascuna per aspetto e dimensioni una storia di sessualità e adattamento, indizi sul modo in cui gli embrioni vengono dispersi, passando per il tramite di animali – anche del loro stomaco, per favorire la germinazione – oppure trasportati dal vento su ali, samare, peli lanuginosi. Sempre, In una felice combinazione di estetica, utilità ed efficienza.
I viaggi di Dominique Roques, boscaiolo e operatore forestale, fattosi poi cercatore di essenze per realizzare profumi, muovono tutti dalle profondità dei boschi. Dei quali insegue la gran varietà di effluvi sul filo mutevole di odori velati, fiutando fragranze dalle note sfuggenti come folate che si affacciano per scomparire, con l’aspirazione a catturarne le fragranze, per preservarle nel tempo. Distillarle, trasformarle in ingredienti aromatici.
Punto di partenza, nel sottobosco dall’evocativo sentore di aghi di pino della foresta francese della sua giovinezza, a Rambouillet, e poi, giovane boscaiolo in una foresta di larici del sud della Francia, quando alla metà anni 70, nel contesto del primo affacciarsi di una nuova coscienza ecologista, scopre la gran varietà di profumi della vegetazione mediterranea, dal sentore delle bacche di ginepro a quello di tannino e trementina delle querce, e soprattutto un altro modo di frequentar foreste, con l’idea di estrarne le essenze.
Le foreste profumano del respiro delle piante.
Discretamente, come per i faggi o le querce, dove le foglie si mescolano e portano con sé l’aroma avvolgente dell’humus, tracce di muschi, funghi, radici in movimento. O con le note calde e squillanti delle conifere che nella loro fragranza familiare, di sole che scalda aghi e tronchi, sa di resina che cola nelle abetaie e degli oli essenziali che col variare di temperature e penombre, pulsano con diversa intensità nelle foglie aghiformi.
Nel suo peregrinare – raccontato ne Il profumo delle foreste. Un viaggio sensoriale alla scoperta degli alberi, Feltrinelli, pp.185, € 19,00, Roques incrocia sentori pesanti, caldi di umidità e di foglie e legno che si decompone, delle foreste tropicali inzuppate d’acqua, e quelli pungenti, canforati, delle foreste di eucalipto che dall’emisfero meridionale son diventati contrassegno olfattivo di tanti paesaggi europei, dal Portogallo alla Corsica; le note secche e resinose dei ginepri della Virginia o quelle più calde del cedro dell’Atlante. Ancora, l’intensità fruttata e affumicata dell’olio essenziale del sudamericano guaiaco – Bulnesia sarmientoi, uno dei legni più densi al mondo che tagliato diventa di colore blu intenso – o l’odore selvatico dell’oud, prodotto dagli alberi di aquilaria, sempre più insidiati dalla riduzione degli habitat delle foreste tropicali.
Uno svariare di fragranze innumerevoli, quello della foresta, già fonte di ispirazione per alchimisti e profumieri, che dagli aromi di foglie, resine e bacche, linfe, balsami e gomme, si estende ai registri del legno secco dei tronchi, fino al suo marcire, o del fumo del faggio, il preferito dai carbonai, raccolto, condensato, liquefatto per creare note di legno e cuoio nei profumi.
Ma per quantoil filo conduttore del libro sia appunto in quei profumi, oltreché un racconto di incontri con alberi singolari, dai famosi e maestosi, residuali cedri del Monte Libano, a quelli delle primarie aree tropicali come il Borneo o le foreste del Chaco del Sud dell’Amazzonia, in Paraguay, l’andar per il mondo alla ricerca dei migliori produttori di materie prime naturali per conto di famose case profumiere, è per Roques anche occasione per ripercorrere il profondo legame dell’uomo con questi ecosistemi, le tappe della lunga convivenza con le foreste che così spesso diventano oggetto di una moltitudine di culti e credenze. Per evocarne anche la fragilità, la storia del loro sfruttamento, i dibattiti sulla tutela – tra santuarizzazioni e nuovi spazi forestali, boschi artificiali – e l’urgenza di agire una difficile, ma pur sempre possibile riconciliazione.
In questo, anche gli alberi del profumo fanno la loro parte. Almeno quando si riesce a contemperare sistemi ed esigenze delle comunità locali, come nel caso delle piantagioni di sandalo in Australia, del ritorno in Laos degli styrax, gli alberi che producono la resina di benzoino, o degli aquilaria nel sud-est asiatico che, a fronte della pesante riduzione delle loro aree boschive in favore degli allevamenti, vengon difesi con progetti di coesistenza, in un inedito modello di pascolo… all’ombra degli alberi.
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