Abitare il paesaggio passa inevitabilmente per una pratica attiva che senza sosta lo reinventa. Reinterpretando i milleambiti, le fisionomie irriducibilmente cangianti di quella dimensione esperienziale e immaginativa assieme che stiamo imparando a intendere come “ecosistema in artificio”. Condiviso, in quanto moltitudine transgenerazionale, con la moltitudine dei viventi, e con quella del vivente intessuto da elementi nutritivi, clima, geologie.
Una scrittura di azioni, che, sulla pelle del pianeta, insegue l’immediatezza di un pensiero che si invera facendo, e che è fatto di osservazione, intuizioni sensoriali, sperimentazioni e rifunzionalizzazioni. Tanto più nel caso di quell’orbicolare processo-prodotto culturale che è la “coltivazione” del vino, quando riesce a raccontare le mille tracce e armonie del paesaggio detto che in sé racchiude.
Una scrittura di azioni che, come nel caso dei vignai da Duline, Federica Magrini e Lorenzo Mocchiutti, può prendere innesco da politiche ribellioni contro quanto ritenuto ingiusto, dal punto di vista sociale e ambientale, inventare strada facendo soluzioni essenziali, etiche, farsi carico perfino di pratiche conservative, in un orizzonte di cura per il futuro del pianeta, tutto, sempre sul filo di una dimensione estetica che aspira alla generazione di bellezza.
Di queste scritture in azione interpella ora la vicenda il libro di Simonetta Lorigliola, È un vino paesaggio. Pratiche e teorie di un vignaiolo planetario in Friuli, Postfazioni di Ilaria Bussoni e Michele Spanò, Deriveapprodi, pp. 192, € 15.00.
Biografie generazionali e etnograficamente di territori che, dopo gli abbandoni dei filari di viti e gelsi maritati, vedono le irregolari varietà colturali risucchiate nell’omologante imbuto della chimica e di una meccanizzazione tesa solo alla quantità delle rese, che sbanca e appiattisce, impoverendo fertilità di suoli e saperi; geografie di trasmigrazioni minerali, geologiche, di sedimenti e incroci di culture multiple; genealogie di sensibilità che a partire dallo specifico della vigna si fanno ambientali a dimensione planetaria, di aspirazioni e ricerche, capacità di ascolto, lettura e invenzione di pratiche.
Pratiche nel senso del sapere incorporato in un saper fare creativo; un far bene, eticamente, che è insieme definirsi di soggettività protagoniste, con relativa produzione, precipitazione di linguaggio. Con tanto di immaginifiche denominazioni come Chioma integrale (la pratica di evitare la cimatura della pianta in una logica di riequilibrio delle sue dinamiche e temporalità) o Mucca verde (l’utilizzo come azotofissatore dell’erba medica in trasemina, con la funzione di aerare e non arare il suolo).
Dall’impianto come rito comunitario della solenne siepe mista e arborata che circonda la Duline, presidio di biodiversità che entra in risonanza con il paesaggio; alla sperimentazione di una possibile simbiosi temporanea con le api; alle riceppature che privilegiano la pluralità genetica, alle potature e forme di allevamento, ancora controcorrente, tese alla longevità dei vigneti, fino alla custodia delle vigne storiche, tutto si fa per un vino che si costruisce specialmente in vigna, dove conta conoscenza e rispetto della fisiologia della pianta, alla ricerca del matrimonio tra terra e varietà. E quanto poi, coerentemente amplificando espressività, avverrà in cantina, con “tempo e legno”.
Un conoscere nominando, un pensiero produttivo che con vinopaesaggio – sorta di neologismo che aspira a restituire il condensato di terroir – ci invita al godimento e al brindare al ben fare.
Simonetta Lorigliola È un vino paesaggio. Pratiche e teorie di un vignaiolo planetario in Friuli, Postfazioni di Ilaria Bussoni e Michele Spanò, Deriveapprodi, pp. 192, € 15.00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica VIII, 3, Supplemento de Il Manifesto del 21 gennaio 2018