Naturalista appassionato, autodidatta dalla felice vena narrativa, Richard Mabey prosegue e riepiloga con quest’opera, Il più grande spettacolo del mondo, la sua multiforme, eclettica indagine su quella complessa serie di relazioni che da sempre ci lega con le specie vegetali (traduzione di Massimilano Manganelli, Ponte alle grazie, pp. 378, € 23.00).
Considerando che le piante rappresentano più del novantanove per cento della biomassa terrestre, dominando la vita sul pianeta e rendendola così possibile anche per noi uomini, che con gli animali siamo meno dell’uno per cento, Mabey puntualmente rileva come troppo spesso invece nella nostra percezione del mondo le piante siano relegate a “vegetare” come inanimati oggetti d’uso, passive decorazioni, nel migliore dei casi, sorta di “arredamento del pianeta”, e come troppo spesso il giardinaggio risulti l’unica loro residuale forma di apprezzamento (e ancora limitata al solo aspetto esteriore), e quasi sublimazione e messa in scena semplificata di quelle relazioni costitutive che come illustra il sottotitolo intrecciano Botanica e immaginazione.
Così, senza nulla togliere alla crescente comprensione delle frontiere dell’odierna ricerca neurobiologica – che sempre più intende le piante come organismi “intelligenti” di un loro specifico procedere cognitivo, capaci di elaborare e immagazzinare informazioni, comunicare –, anzi prefigurandone i passi, Mabey ripercorre le nostre incessanti prove di dialogo in traslitterazione con il mondo vegetale. Dalle ragioni della quasi assenza di piante nell’arte rupestre, se non come repertorio di forme, alle ipotesi di una intermedia “civiltà della quercia”; dal fiorire dei miti della coltivazione e delle nuove meraviglie botaniche prodotte con l’agricoltura, ai presagi in poesia della fotosintesi e dell’impollinazione, al dibattito tra poeti romantici e scienziati illuministi intorno alla intuita sensibilità dell’universo vegetale. Dall’estetica nuova delle piante dei nuovi mondi, spesso giunta per il tramite della raffigurazione di artisti indigeni, al concorrere dei grigi argentati dell’anatomia della flora mediterranea nel catturare la luce fin negli occhi degli impressionisti. Passando per i trofei colonial botanici dell’impero nel teatro vittoriano delle piante, dalla moda per il gotico delle felci che dilaga anche negli arredi, dall’harem vegetale delle serre, dall’orchidelirio che sintetizza, fin nella letteratura poliziesca, seduzione, voluttà e spregiudicata aspirazione al possesso…
Nel florilegio degli episodi prescelti procedono così intrecciati e a contrappunto innescano interrogativi e meraviglie, da un lato i nostri tentativi di comprensione del mondo vegetale – a partire da quelli più remoti, tra miti, metafore, proiezioni analogiche, modelli, aspettative e immaginari – e dall’altro i comportamenti e i protagonismi sui generis delle piante “reali”, per come indagate sempre più da presso dalla recente ricerca scientifica. Il tutto, intimamente, eppure a partire dai rispettivi così distanti, irriducibilmente condizionati, assetti, forme di organizzazione, obiettivi, punti di vista, “linguaggi”, “intelligenze”.
Richard Mabey, Il più grande spettacolo del mondo. Botanica e immaginazione, traduzione di Massimilano Manganelli, Ponte alle grazie, pp. 378, € 23.00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica VII, 14, Supplemento de Il Manifesto del 9 aprile 2017