Jardins, in mostra al Grand Palais, a Parigi fino al 24 luglio 2017

Gerhard-Richter_Sommer_TAG Vìride_Andrea_DI_SALVOPer risalire le ragioni degli ideatori della mostra Jardins, a Parigi alle Gallerie nazionali del Grand Palais fino al 24 luglio, e del perché scelgano di praticare l’ibridazione tra giardino e museo, occorre tenere bene a mente alcune premesse (sviluppate in vari saggi del catalogo a cura della Réunion des musées nationaux, in particolare da Guy Tortosa e Monique Mossier)..
Ininterrottamente in divenire, eppure effimeri, restii a lasciar traccia conservabile di sé, come pure irriducibili a un’autorialità singolare, esito come spesso sono di mani e competenze diverse e di una firma congiunta con la natura, i giardini stentano a farsi strada nel sistema delle arti, dei saperi e del loro costituirsi e depositarsi in tassonomie disciplinari, corpora documentari, paradigmi e strumenti analitici. Non appartenendo al mondo degli oggetti finiti, inscritti nel flusso del tempo e nel corpo con cui li abitiamo – attori e spettatori immersi nella simultaneità sensoriale e nelle risonanze che innescano intorno e dentro di noi –, vivono assieme il doppio regime di opera d’arte intrasportabile e luogo dell’opera, dove convergono e sono integrate funzioni diverse, lo statuto del reale del sito e quello della sua rappresentazione.
La sfida è allora quella di un’esposizione impossibile, sulla rappresentazione del giardino come forma d’arte …totale. E ciò a fronte del paradosso di un’attenzione ancora scarsa al tema dell’arte dei giardini, pur nel fiorire negli ultimi decenni di manifestazioni ad essi intitolate, assumendoli a pretesto, perlopiù, di retrospettive o messe a fuoco di momenti chiave della storia della pittura (2016 alla Royal accademy), dove il motivo passepartout convoca un’onnipresente ricchezza di motivi, iconografie, interpretazioni.

Sotto l’indistinzione secca, onnivora, del titolo in surplace, Jardins, i tre curatori, Laurent Le Bon, commissario dell’esposizione e presidente del Museo Picasso, Marc Jeanson, responsabile dell’Erbario del Museo nazionale di storia naturale di Parigi e Coline Zellal, hanno piuttosto qui chiamato a raccolta un’adunata pluridisciplinare di testimonianze di quei creatori dell’artificio senza il quale nessun giardino è dato: ideatori, progettisti, autori e “ritrattisti”, interpreti, registi. Testimonianze, a voler dare una sintesi dell’intenzione dell’iniziativa, poste sotto l’egida del termine “giardinista” – crasi eloquente di giardiniere e artista, attribuita a Horace Walpole.

Una volta lasciati all’esterno i giardini – evocati sulla soglia del Grand Palais dal muro di piante di Patrick Blanc, Éclair Vert e nell’aiuola d’accesso al museo dal monumentale vuoto del vaso di due metri e mezzo in resina e foglia d’oro Pot + or di Jean Pierre Raynaud –, circa 450 pezzi dialogano tra loro in una sorta di collage di risonanze. Fin dalla prima sala, tra il frottage di foglie del Verde del bosco con camicia di Giuseppe Penone, una copia del Polifilo, non della prima edizione, con le sue  xilografie fondative, e l’affresco pompeiano della Casa del bracciale d’oro – unico tributo alle premesse classiche di un giardino che si è scelto di trattare invece soltanto a partire dalle riletture di quelle fonti antiche e dalle sue aperture neoumaniste e rinascimentali, concentrandosi sull’Europa, e molto, davvero, ça va sans dire, sulla Francia.

Ad accoglierci, il paesaggio paradisiaco del piccolo disegno acquarellato di Dürer, dall’Albertina di Vienna, opera spartiacque, giardino ancora concluso, ma fittamente popolato di piante e animali, per quanto simbolici, fedelmente osservati e ritratti a far da corona alla Madonna degli animali. Subito dietro, la Biblioteca di terra di 5 mt x 5 del giapponese Kôichi Kurita, scrittura policroma di 400 campioni raccolti percorrendo il corso della Loira, le Texturologies d’écorces di Jean Dubuffet a contrappunto degli Studi di nuvole di John Constable, in quel cielo, complemento irrinunciabile di ogni giardino.

Un interesse e un sentimento per il dato naturale che anticipa l’intera serie di opere variamente ispirate alle piante dalla botanica degli orti e negli erbari cosmogonia. Quelli variamente naturalistici, dell’Hortus siccus di Philibert de Commerson o di Pierre Joseph Redouté, la raccolta di muschi di Jean-Jacques Rousseau, l’erbario messo in scena su fondo nero di Paul Klee. Dalle primordiali forme vegetali illuminate nelle foto di Karl Blossfeldt alle variazioni scala 1.1 sul microcosmo della zolla di terra di Herman de Vrie, con Collected, 2015. Passando per i modelli in ceroplastica di agrumi dei cataloghi fiorentini, dalle piante in vetro della collezione Ware (Harvard); i paper mosaik di Mary Delany, le corone funerarie e i gioielli floreali di Cartier e Van Cleef & Arpels. Mentre ci calamita al monitor il pionieristico filmato scientifico del 1929 sulla Crescita dei vegetali della collezione Albert-Kahn.

Un incedere per suggestioni che scompiglia la scansione tematica imposta alla sequenza di ambienti dall’allestimento di Laurence Fontaine: intitolato appunto, Suolo, Humus – partendo quindi dagli elementi compositivi di base del giardino, anche quelli, spesso dati per scontati e via via integrando, tra arte e scienza, Botanica, Arboreto, Mixed border (rigorosamente in inglese pur se in terra di Francia), fino al confronto con pretese e ostinazioni dei Giardinieri. Dall’Allegoria della primavera di Pieter Brueghel il Giovane, agli schizzi del paesaggista inglese Humphrey Repton per i suoi committenti a fine Settecento, dalla collezione di forme dei loro utensili, all’imponente ritratto sulla soglia del Vecchio giardiniere nella tela di Émile Claus, al loro protagonismo nella storia della cinematografia, dall’Innaffiatore innaffiato dei fratelli Lumière, a Greenaway, all’Edward mani di forbice di Tim Burton.

Nella sequenza per ambienti, Un petit jardin, sala di snodo tra i piani, affronta in climax dimensionale e espressivo alcune opere poste in relazione alle gouaches ritagliate nella plastica monumentale degli Acanti di un Henry Matisse ultimo.

Mentre il piano superiore è interamente destinato alla rappresentazione. Qui, dove finalmente parlano i giardini, si avvicendano grandi visuali e si infoltiscono ravvicinamenti.

Nelle Allées, anticipando la computer grafica, i progetti, da André Le Nôtre fino all’acquerello di Gabriel Guévrekian per il Giardino per l’esposizione del 1925, all’installazione per immagini e voce – un giardino di giardini – nella Fable du jardin, di Yann Monel. Mentre nei Bosquets, il giardino pittoresco di Fragonard, l’arcadia dei paesaggi di rovine di Robert interpellano la fontana di vetro di Jean-Michel Othoniel, la sua Grotta azzurra del 2017.

Dopo una sala interamente dedicata alle fotografie per lacerti di Wolfgang Tillmans, di nuovo, ecco da un lato, con il Belvedere, gli scenari d’insieme – planimetrie di giardini rinascimentali, labirinti e grandi parchi e quadri di formati eccezionali, viste monumentali di castelli e giardini, da Marly a Fontainebleau, manifesti del potere destinati ad essere esposti, inventari in forma di rappresentazione cartografica, plastici che diventano raffinati tavoli, a dire del convergere nella pratica progettuale di abilità creative e sapere cartografico e, con il giardino irregolare di stile inglese dal XVIII, delle reciproche suggestioni dei quadri di paesaggio.

Mentre, d’altro canto, le prospettive si riducono in soggettiva, fin quasi a farsi intime, nella Promenade: galleria di paesaggi assoluti, inabitati. Quando tra fine XIX e inizio del XX secolo la svolta del giardino privato e, per paradosso, dello spazio pubblico cittadino, come pure lo sfolgorare della flora mediterranea costituiranno nuove occasioni per variamente dilatare il vocabolario plastico della modernità. La visione dei Marigold di Kolonaan Moser, quella quasi astratta del Parco di Gustav Klimt, i pannelli decorati da Caillebotte per richiamare all’interno il giardino… fino al raggiungerci da presso della sensazione di sfrangiata incertezza tra piani della foto dipinta in un Giorno d’estate del 1999 di Gerhard Richter.. E ancora, tra tragitto e soglia, circonvoluzioni e diffrazioni dagli ambienti dei Passages: resi in particolare tramite la fotografia. Quelle dell’abbandono del Parco di Sceaux, negli scatti di Eugène Atget del 1925; della familiarità dell’assenza nei giardini cittadini sotto la neve di Henry Cartier Bresson, fino al trionfo del lampo convocato nel 2016 da Jean-Baptiste Leroux a prolungare le prospettive in cibachrome del Gran Canal di Versailles. Mentre la sezione Jardiniste, qui in senso stretto, di artisti a un tempo giardinieri, riunisce attorno alle Ninfee disegni e foto di Monet, un Gilles Clément che racconta l’arte involontaria di un paio di vecchi scarponi ritrovati ricoperti dal muschio (Mettere i piedi ai giardini del 2007) e, nel rendere un doveroso tributo ai maggiori paesaggisti contemporanei, francesi, l’affiorare di quella sorta di autoritratto per procura di un Paul Cézanne nelle vesti del Giardiniere Vallier.cezanne_vallier_Vìride_Andrea_di_Salvo

Se l’infilata di giochi di scala proposti al Grand Palais seduce, con qualche facile ammiccamento, per la ricchezza e la libertà dell’ironia degli accostamenti, dove il ruolo di dare un ritmo, in una sorta di richiamo tra sezioni, è assegnato alla contemporaneità, quando, come si sa – e in giardino ancor più – tutto si sfrangia, il nodo teorico delle questioni poste resta sospeso.

Resta, a interrogarci proprio su un’arte dei giardini – e della sua “rappresentazione” – come sintesi, oltre la gerarchia delle arti tutte. Da sempre molto ricercata, ma che in realtà già si dà, ogni volta, a patto, per il giardino, di annullarsi per integrarle, “arte del giardino come arte della de specializzazione”, arte del vivere. Come molte opere paiono suggerire nella serie di quelle in Prospettive, chiamate a interrogare il futuro in divenire del giardino di domani. E così pure quelle con cui la mostra ci congeda: il segno transitorio del sentiero tracciato nella storica foto da Richard Long, Una linea fatta passeggiando e la scultura di polline di castagno di 7 centimetri di Wolfgang Laib, con l’accorta indicazione del titolo, Montagne dove non salire.

Jardins, a Parigi alle Gallerie nazionali del Grand Palais fino al 24 luglio 2917, mostra recensita da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica VII, 24, Supplemento de Il Manifesto del 18 giugno 2017. Catalogo a cura della Réunion des musées nationaux