Università della Svizzera italiana, Mendrisio – 23 marzo 2018 – Salus in Horto – Sul tema della salute del paesaggio

Salus in Horto – Sul tema della salute del paesaggio

Salus in horto. Salute/Salvezza. Oltre il gioco di slittamenti di senso tra specifico terapeutico, cui pure cercherò di guardare, e valenza ideale, mi soffermerò piuttosto su questa seconda più ampia dimensione.
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Centrale è la questione del cosa è salutare, ed è suggerita dal semiologo Paolo Fabbri che individua almeno due modi possibili di essere salvi[1]. Validi direi anche in giardino.
C’è il modo che ci preserva dalle perturbazioni esterne a difesa della nostra integrità.
Essere salvi significa quindi restare assoluti, lontano dalle cure, nel senso delle preoccupazioni.
Diversamente, c’è il modo secondo il quale la salute è il risultato sempre in divenire di un processo aperto alla cura.
Immagino vi ricordi la storia del paradiso – più o meno perduto.

 

È evidente che i due modi sono legati. Non fosse altro perché la ricerca del preservarci inevitabilmente transita per la continua ricomposizione propria della cura. Proverò in questi minuti a muovermi a cavallo dello snodo costituito (e consentito) da questa accezione ampia, salute/salvezza per come si delinea in quell’universo che dall’hortus trascolora in vari andirivieni nel giardino e nel paesaggio
Tenendo presente alcuni testi – la pubblicistica, genericamente intesa – non certo in ricognizione sistematica, ma in arbitraria individuazione di un filo. Tra procedere della ricerca, in ambiti anche diversi tra loro, e senso comune. Assumendo quindi sguardi differenti anche nelle intenzioni e nei pubblici coinvolti.
E tutto ciò sempre dando per scontata la discrasia tra mondo dei libri e quello della realtà. E cioè la scarsa attenzione generale per il mondo del giardino, pur tra contraddizioni estreme di tanti appassionati, anche entusiasti[2], da un lato e però ad esempio il deprecabile stato dell’arte dell’insegnamento universitario che lo riguarda o la sensibilità di politici che quando pure hanno fatto qualcosa, la recente legge sulla defiscalizzazione degli interventi sul verde, lo hanno fatto ricalcando come modello le logiche del costruito[3].
Insomma, conosciamo lo stato reale dell’arte, ma vediamo qui di capire dove sembra portarci o poterci portare l’idea grimaldello di giardino.

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Università Svizzera_Convegno andrea_di_salvo_Viride_marzo 2018_2Oltre ai non troppi contributi scientifici di settore, convegni di bilancio e manuali di progettazione sul verde terapeutico, nonché alcuni testi specificamente dedicati all’ortoterapia, diversi titoli sono ospitati in collane di saggistica, di divulgazione, come si dice. Spesso sono caratterizzati dalla competenza duplice degli autori, in campo latamente medico e di progetto, perlopiù orientati a una dimensione interiore[4].

Sullo sfondo c’è poi un fenomeno di successi editoriali a rischio di “new age”. Penso a opere del tipo Effetto Biofilia. Il potere di guarigione degli alberi e delle piante[5], da citarsi solo per il riscontro di pubblico che evidentemente intercetta bisogni latenti.

Per altro verso c’è il lavoro di ricerca prodotto su temi contermini da veri e proprio cantieri come la fondazione Benetton, con le diverse edizioni della manifestazione Luoghi di valore[6] e con la pubblicazione, lo scorso anno, dell’incontro di bilancio delle Giornate internazionali sul paesaggio dedicate a Curare la terra[7].

Importanti sono i contributi del un numero monografico della rivista di Marco Martella, Jardins, dedicato al Soin[8]. Ci metto poi assolutamente, la ripubblicazione del pensiero trasversale dello storico della letteratura Robert Pogue Harrison, nel suo Giardini. Riflessioni sulla condizione umana[9]. E, ampliando il raggio agli apporti della ricerca anche ad ambiti contigui, in particolare il lavoro sull’approccio al paesaggio del geografo e filosofo Jean-Marc Besse[10] e di Michel Péna[11]; i riferimenti alla mente paesaggistica su cui periodicamente torna l’antropologo Matteo Meschiari; il recente volume dello psichiatra Vittorio Lingiardi che indaga i paesaggi della mente, o Mindscapes[12].

C’è poi l’affacciarsi del tema del giardino nell’ambito delle ricerche che variamente si rifanno agli Environnemental studies[13] che nella analisi della società intendono includere appunto il non umano.

 Con quanto ne consegue sul piano etico, sociale, giuridico[14], come – in una logica degli studi cosiddetta antispecista – è testimoniato ad esempio dalla Collana Animalia dell’editore Nottetempo[15] e, pur evitando l’eccesso zoocentrico, anche dalle ricerche … Per una bioetica interculturale[16].

In particolare, rilevante è il contributo del “giardino che cura” al discorso sull’etica recentemente tratteggiato dallo storico del giardino Hervé Brunon nel suo libro Giardini di saggezza in occidente, specialmente nel IV capitolo, Prendersi cura.

Ancora, c’è un filone di pensiero che, assumendo i paesaggi come organismi, corpi viventi, affronta crisi e geografie dello scarto di quel paesaggio fragile raccontato ad esempio magistralmente per Einaudi da Antonella Tarpino[17].

E, a confermare la fertilità dell’accezione ampia del tema Salus in horto, voglio citare, come omaggio, l’ultimo, purtroppo, testo di Pia Pera, impegnata e colta divulgatrice dei temi del giardino che, proprio con l’aiuto “creativo”, quindi salvifico del suo orto giardino, si è confrontata con l’esperienza di una terribile malattia progressiva in una sorta di meditazione dal titolo Al giardino ancora non l’ho detto[18], (significativo anche per il favore riscontrato).

Credo comunque che a tutto ciò sia da guardarsi considerando anche quanto si muove nel contesto della circolazione più “popolare” di tali temi. Ciò che qui tralascio per motivi di tempo. Ma che ho cercato di tenere sullo sfondo[19].

Cito soltanto, certo uscendo dal seminato, nell’ambito del giornalismo di approfondimento, l’iniziativa di un nuovo periodico il settimanale Gambero verde.

Dove nell’editoriale di fondazione 23 novembre 2017 dello storico Piero Bevilacqua si rivendicano non tanto i temi di un ambientalismo di denuncia quanto un’attitudine critica, radicale, di fronte al rischio di un mondo minacciato non dall’uomo in astratto, ma da modelli di dominio storicamente determinati.

Introducendo a una ragione ecologica – titolo di un recentissimo libro del filosofo Stefano Righetti – che intenda l’organizzazione della società non più soltanto in termini produttivistici, ma entro un’etica dello spazio che comprende il sistema di relazioni di tutte le espressioni del vivente[20].

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Complessivamente, dall’analisi editoriale del contesto si rileva un rinnovamento di interesse per il tema del giardino in generale. Una specie di moda. Quanto alla sua corrispondenza con il reale, abbiamo detto.

Un nuovo modo di pensare al nostro habitat diventa fenomeno sociale. Integrando in questo processo la dimensione dell’espressione artistica e una latente esigenza di ben-essere.

Ciò, ovviamente, avviene tra molte contraddizioni.

È un successo che arriva al paradosso di usare fin nel senso comune il giardino come metafora di un possibile, diverso modo di porsi di fronte dell’evidenza dei limiti del modello di sviluppo basato sullo sfruttamento infinito delle risorse: quello del “giardino planetario”. Prospettato ormai molti anni fa da Gilles Clément, a dirci della consapevolezza di un universo chiuso nei confini della biosfera ma dove ogni elemento è connesso in una logica di condivisione e collaborazione.

Un’immagine oggi per noi a tal punto acquisita che al giardino planetario è stata appena intitolata l’edizione che si terrà quest’anno a Palermo di Manifesta, la biennale nomade europea di arte contemporanea[21]

Cosa doppiamente interessante perché si tratta di manifestazione d’arte. Ed è interessante il ritornare sempre più frequente di questo associarsi, che vede legati, attivismo, arte, giardino, immersività, coreografia, narrazione. E a tal punto è considerata patrimonio comune, che a Clément non si era pensato di dover chiedere licenza.

Oltre al rinnovamento di interesse per il tema in generale del giardino, si registra anche il successo di parola del tema della Salute in giardino, nel suo senso specifico. E poi via a allargare. E ciò, pur nello strabismo di una attenzione che si confronta con le troppo rare applicazioni pratiche spesso affidate a esperienze volontaristiche. Anche se è di pochi giorni fa l’annuncio di un Nuovo Policlinico di Milano, con un giardino pensile terapeutico di 6.900 metri quadrati a firma di Stefano Boeri[22].

Entrambe queste evidenze, si inquadrano entro una sorta di cambio di paradigma che riguarda lo statuto del verde nella vita sociale.

Ricerche in diversi ambiti ci invitano da un lato a constatare come il mondo vegetale, evoluzionisticamente, ci suggerisca una serie di soluzioni (è il caso del neurobiologo vegetale Stefano Mancuso[23]).

Quando non addirittura nuovi paradigmi per modelli di società (il caso del filosofo Emanuele Coccia con il suo La vie des plantes: une métaphysique du mélange[24]).

Un cambio di statuto che opera all’interno della riconsiderazione critica (per interposto giardino planetario) e di un più ampio sguardo sul mondo che prova a rinunciare alla visione occidentale antropocentrica. Quella che pone l’uomo alla sommità di una presunta gerarchia dei viventi, dandogli licenza di concepire la natura come proprio, inesauribile materiale di sfruttamento.

Molte sono le ragioni di questa rivoluzione dello sguardo, la crisi del soggetto, del pensiero “forte”, l’insostenibilità del modello produttivo che si va palesando, la complessiva crisi ambientale cui siamo confrontati. Con conseguente lettura delle relazioni uomo-natura sulla base della teoria dell’Antropocene, cioè di una nuova era inaugurata con la rivoluzione industriale dove sarebbe ormai l’influenza dell’uomo ad alterare equilibri di più lungo respiro e a determinare gli esiti “evolutivi” della vita sul pianeta[25].

Ancora, rileva in questo cambio di prospettiva la presa di consapevolezza dell’Alienazione (insalubre) di cui siamo tutti preda. Una separatezza da ricomporre in un modello che ci sfugge.

Come si riverbera tutto ciò sul tema della salute in giardino? Della salvezza (del benessere, del modello di ben-essere auspicabile) del quale il giardino si fa occasione e tramite?

Esiste uno specifico rilievo, un ruolo terapeutico, salvifico del giardino nella presa d’atto dell’alienazione di cui siamo vittime; nell’aspirazione di tornare a “essere parte”?

Sono più le domande evidentemente delle risposte. E con le domande ho mangiato già buona parte del mio tempo.

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Quanto allo specifico della dimensione medica, della salute in giardino (e che il giardino dà), mi soffermerò soltanto su alcuni elementi “eccentrici” che emergono.

L’inscindibilità della relazione tra cura e giardino, con le sue peculiarità; quanto, per il tramite anche del giardino, vada affermandosi, seppur con difficoltà, un approccio critico al retaggio cartesiano del modello biomedico; e soprattutto la validità plurale, sociale delle pratiche variamente legate allo specifico dell’uso medico del giardino.

Riguardo al primo punto, l’evidenza – qui altrimenti ben scandagliata in tanti interventi – della relazione cura-giardino, merita il controcanto dell’interessante risvolto critico del saggio di Yves-Marie Allain, Jardins de soin. Un approce critique e historique che stigmatizza il rischio che il tema del verde terapeutico finisca in moda[26].

A lungo, spesso il giardino non è stato luogo di cura. Il giardino delle piante medicinali era riservato agli iniziati orti botanici dei farmacisti[27]

Il giardino non è direttamente terapeutico in se stesso. Finché non lo diventa con le teorie igieniste del XIX secolo. Spesso si tratta di giardini di ospedali che tuttavia si trasformano in parcheggi con la seconda metà del XX secolo.

Allain ricorda come. contro ogni acquisizione delle successive evidenze della funzione rigeneratrice della vista sul verde che aprono la strada agli healing garden, nel 1964, Le Corbusier arriva a progettare un ospedale in laguna a Venezia con stanze prive di finestre. Come la “maison est une machine à habiter” così l’ospedale, foucoltianamente, una “machine à guérir”.

Allain vede poi giustamente la recente concomitanza dell’apparizione (fine anni 70/inizi 80) del fenomeno dei giardini condivisi, comunitari, e dell’ortoterapia. I primi intesi a curare come una malattia sociale l’isolamento e i conflitti metropolitani; la seconda, i traumi psichici o motori.

Quanto al secondo punto, la riscoperta del giardino, di pari passo con un nuova attenzione ambientale, agevola una complessiva riconsiderazione critica della medicina verso un modello terapeutico integrato mente-corpo, con al centro il malato, dove, oltre la cura, il giardino consente di meglio convivere con la malattia e la sofferenza[28].

Ma soprattutto si evidenzia la validità plurale dell’uso terapeutico del giardino in questo processo di ricomposizione (attiva) specialmente nella società contemporanea a fronte del cronicizzarsi di patologie e disabilità collegate all’allungamento della vita, ai disagi psichici individuali e sociali e quindi di un malessere sempre più diffuso e generalizzato.

Hanno avuto valenza terapeutica, sia preventiva che curativa, per i singoli e per la società, tanto i giardini operai e familiari delle città-giardino del paternalismo dei benefattori con cui combattere alcolismo (e critica sociale) e tramite cui salvaguardare la moralità dei giovani.

Come pure, tra i luoghi del vivere formalizzato oltre a ospedali, case di riposo, centri psichiatrici, le virtù terapeutiche del giardino si declinano anche nel recupero e nell’integrazione di soggetti socialmente fragili e emarginati. Dai centri per le tossicodipendenze alle carceri, all’esperienza delle fattorie sociali[29].

E non paia fuori luogo un richiamo alla terapia dell’apprendere di cui l’orto scolastico è uno dei grandi maestri[30].

Evidenziava la centralità della relazione singolare-plurale, certo dal punto di vista dello psicanalista, James Hillman quando retoricamente ipotizzava: “Forse per comprendere le malattie dell’anima dobbiamo comprendere le malattie del mondo”[31].

Non è certo un caso se anche nel nostro parlare condiviso una serie di pratiche e attività legate alla cura di quel verde accudito che è il giardino rivelano – spesso riflesse in metafore – una evidente valenza terapeutica.

Dato che tali pratiche evocano i passi essenziali di un processo naturale inteso a curare o a ripristinare la nostra salute, fisica e mentale.

E viceversa, direi. Mi è sembrato molto significativo al riguardo che un progetto della Temple Architecture Tyler School Of Art sia stato pensato e intitolato in una logica di Agopuntura Urbana. Quindi di una medicina spesso ancora diversamente considerata.

Intendendo l’ambiente urbano come un organismo vivente, l’idea è stata di operare piccoli interventi in grado di riattivare flussi di energia con lo “spillo” selettivo del cambiamento[32]

Riepilogando. La funzione curativa del giardino “terapeutico” conferma una dimensione plurale, sociale che si proietta sulla più generale capacità salvifica posta in atto dal Giardino. Dai giardini, diremo, come modello di fronte alla crisi di separatezza cui siamo confrontati come società e come specie.

Giardini intesi a prospettarci un modo duttile e plurale, quindi dialettico, di presenza attiva, di azione nella realtà, nella storia.

Una presa in conto etica di responsabilità.

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D’altra parte, da sempre il giardino si è configurato come fonte, ispirazione, catalizzatore efficace di aspirazioni, sogni, utopie e, appunto, modelli, e assieme specchio delle diverse culture che volta a volta li hanno generati.

Dal giardino ellenistico dove germina il pensiero nelle sue molteplicità, all’antinomia oasi-deserto del giardino islamico; dalla malinconia dell’impossibile ritorno dei giardini mediterranei, alla laicizzazione settecentesca, all’intimista giardino tutto per sé dell’800, fino al giardino e allo spazio pubblico della città capitale, i giardini son sempre stati il distillato di un’aspirazione delle società a raccontare il proprio meglio. Un modello cui tendere. E ciò, in un rapporto appunto di prestiti e reciproci scivolamenti, retroazioni tra Giardino-Città/Civitas-Paesaggio. Dove il giardino è, o vorrebbe essere, modello infrastrutturante tanto per il paesaggio cittadino, che per il suo tenersi insieme – la Civitas, per la metropoli dove sempre più si concentra la maggior parte della popolazione, per il suo distendersi periurbano nelle reti dei territori dei distretti, o in quelle trame ancora, su più ampia scala, tese a ricondurre a disegno intere aree come in un sorta di Orbe-Urbe.

Come si è più volte rilevato, con tutto il rischio di sovraesposizione del termine[33], sempre più spesso al paesaggio si chiede di prefigurare per supplenza un modello sostitutivo di società verso cui orientarsi.

È uno degli esiti dell’importante, corale davvero, convegno romano dello scorso anno su Il paesaggio come sfida[34].

E non sarà certo un caso, se a questo scopo chiamiamo spesso in supplenza strumenti duttili come la dimensione, plurale, procedurale e sincronica, che mette in rete molti obiettivi assieme, e che è propria del progetto, nonché l’orizzonte di una visione sintetica dell’intero e assieme di ogni dettaglio, continuamente e dinamicamente in relazione: il paesaggio. Insomma il progetto di paesaggio.

Eppure, inscritti come sono nel flusso del tempo e nel corpo con cui li abitiamo, spesso esito di mani e competenze diverse e di una firma congiunta con la natura, i giardini sono modelli che si costituiscono in una pluralità di soggetti e variabili che organicisticamente evolvono in reciproca interrelazione.

Nel giardino, come nel mondo che vorremmo, si impone la consapevolezza, fin “politica”, che “siamo in relazione”. In socialità estesa al Bios. Cosa che i giardinieri hanno sempre saputo e che con l’evidenza del giardino planetario stiamo acquisendo tutti.

E in questo giardino di relazioni, come in un continuo, inesausto negoziato sperimentiamo, coltiviamo contraddizioni. In un dialogo inquieto incessantemente alla ricerca di equilibri. In un continuo oscillare tra tutta una serie di dicotomie, molto occidentali e cartesiane.

E oltre quelle tra formale informale, naturale e artificiale, chiuso e aperto, rileva quella tra giardino del ritirarsi e quello dell’agire, del sottrarsi in fuga alla realtà o farsene presidio

La vicenda stessa della cacciata dal paradiso terrestre sempre sospesa nel dilemma tra una promessa di felicità irricevibile o impraticabile aspirazione alla sua riconquista, propende per noi moderni, nell’interpretazione, tra altri di Harrison, ripresa poi, via Harendt, da Brunon, verso l’intuizione che Eva ci ha regalato: per un’azione responsabile che inducendo la cacciata, ci dissequestra da uno stato assoluto, congelato, sterile. Per riconsegnarci a noi stessi e, proiettandoci sul terreno della vita attiva, alla cura[35]. Tutto ciò, ovviamente con il produttivo effetto collaterale di farci evidentemente eredi di una perenne nostalgia.

Se in ossequio ai canoni della razionalità dell’Occidente, con annessa centralità della veduta prospettica, il giardino, come il mondo di cui è specchio, ha a lungo imposto alla natura il suo ordine, oggi, in questo contesto di agire responsabile, alla ricerca di un modello dialettico di salvezza/ ben essere, l’esperienza del giardino – sempre più esperienza delle scienze del paesaggio – rivela l’evidenza ecologica del sistema di relazioni entro cui siamo immersi nella biosfera e la nostra profonda implicazione con un mondo non-umano.

Ma proprio perché, in connessione stretta e in equilibrio, entro un dinamico sistema plurale di soggetti – in quanto “natura in artificio”, capace di superare l’opposizione classica fra ragione ed emozione –, il giardino è come suggerisce Pogue Harrison, un modo immediato, “attivo”, per entrare in contatto con la complessità del cosmo, della natura di cui siamo parte; con l’altro da noi che ci contorna e ci definisce; rendendo abitabile questa identificazione.

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Insomma, nel processo di comprensione di cosa è per noi salute, il giardino che, come dice Meschiari, ma già Pizzetti, sta alla natura selvatica come il teatro alla vita, mette in scena un possibile modo/modello per abitare la complessità e la molteplicità delle relazioni, fino alla responsabilità dell’agire.

Pur nel dubbio che la mente dell’uomo sia stata “naturalmente paesaggistica”, come suggerisce Meschiari[36] – nel senso di “delineare un modello antropologico in cui il concetto di paesaggio non sia sottoprodotto storico di una cultura data, ma traccia di un paradigma culturale trans-storico e universale – , o non lo sia più tanto, magari anche in ragione di qualche millennio di sovrastrutture culturali, resta il fatto che l’esperienza del paesaggio è (tra le altre) un’esperienza primaria, che precede il linguaggio e accade nel corpo[37].

Ciò, anche secondo Lingiardi, che da psichiatra parla di Mindscape.

Come pure a dire del pedagogista Raniero Regni che ritiene il paesaggio come una delle fonti di quel sapere implicito che vien prima della coscienza e della ragione, generatore di Habitus[38].

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Se tra il paesaggio e il corpo c’è un legame intimo, oggi è proprio la perdita di questo contatto che genera un disconoscimento fisico della realtà delle nostre vite quotidiane, determinando un fenomeno di rigetto. Una vera e propria allergia. “Star fuori è diventata esperienza che richiede una certa audacia”, sottolinea il paesaggista Michel Péna nel suo Reinventer le dehors[39].

Secondo un procedere intrecciato: sensazioni, sentimento, senso, il paesaggio, ricomponendo quanto la nostra società tende a scomporre, smembrandoci (anche nella visione medica), ci offre la ragion d’essere della quale abbiamo bisogno.

È un filosofo e geografo, Jean Marc Besse a suggerire ancora un approccio polisensoriale al giardino e al paesaggio.

Approfondendo un orientamento “fenomenologico” che si interroga sulla maniera in cui gli esseri umani sono al mondo, tramite il loro corpo e la loro sensibilità e, affermando la centralità dell’esperienza sensoriale nella fabbricazione delle identità territoriali, Besse sostiene che è appunto tramite il nostro corpo che abitiamo il mondo (titolo di un suo libro), ed è un corpo sensibile, vivo (non neutro, come quello delle scienze fisiche), quello che ci abilita a questa geografia affettiva, di prossimità, di contatto[40].

Così il paesaggio si fa carico di una dimensione che la scienza moderna ha per principio lasciato da parte: il rapporto diretto, immediato, fisico con gli elementi sensibili del mondo terrestre.

Il paesaggio è, appunto, esperienza polisensoriale. Noi abitiamo un paesaggio, prima di vederlo: le ricadute di un tale assunto dilatano l’esperienza sensibile del paesaggio, relativizzando la sua, tutt’ora egemonica, concezione puramente “visuale”. Dove peraltro opera pesantemente il condizionamento della cognizione e, come ci ricorda Lingiardi, citando Matisse che si lamentava di come tutto ciò che vediamo sia deformato dal cumulo di immagini che, diceva, stanno alla percezione come il pregiudizio sta all’intelligenza, occorre considerare l’intrinseca psichicità del movimento che non accetta separazione tra sensoriale, motorio, cognitivo[41].

Abitare un paesaggio, fare parte di un paesaggio, significa attingervi la nostra identità: condizione del nostro stare al mondo.

Besse ci invita a considerare una spazialità del contatto, della partecipazione con l’ambiente esterno.

Se la lettura di Besse esprime un sapere paesaggistico, una intelligenza pratica quotidiana del mondo e dello spazio, una familiarità fondata sull’uso[42], tutta fondata sulla relazione è l’etica dell’azione che Hervé Brunon tratteggia nella sua ricerca indagando il tipo di corrispondenza che il giardiniere intrattiene con il suo giardino (e, per suo tramite, con il mondo)[43].

Brunon indaga lo specifico di una relazione giardiniera come “forma particolare della ‘relazione paesaggistica’, intesa come quella che lega, in modo interattivo e interdipendente società e paesaggio” [44]. Dove le pratiche del giardinaggio implicano “un modo di essere al mondo definito tramite un insieme di relazioni: riguardo se stessi, la natura, il territorio” che si strutturano nei termini di una mutua “rispettosa amicizia”.

Un modello etico di azione, quello dell’amicizia rispettosa del giardiniere con i non umani, basato su parentele e solidarietà piuttosto che su separazione e dominazione[45].

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Come sostiene ancora Robert Pogue Harrison, è proprio del giardino – dell’intrinseco tessuto di relazioni da coltivare che costituiscono il giardino –, quel tipo di cura specifico, che andando oltre la cura di noi stessi si costituisce in divenire, come procedura,

Per Harrison l’agire del giardiniere prefigurerebbe un’etica della cura che – in quell’insopprimibile bisogno di preoccuparsi sempre e instancabilmente di qualche cosa fuori di sé, una sorta di estensione nel mondo (culturalmente intesa) –, meglio interpreta la vocazione e il tratto dominante della condizione umana.

Non diversamente, Marco Martella rileva come il giardino “Offra la possibilità di restaurare un’unità, di ristabilire un bene-essere perduto e da riconquistare senza posa”.

Anche per lui, ciò può avvenire tramite il gesto che risulta, dopo millenni forse il più naturale, uno dei più antichi che noi abbiamo appreso: curare.

Come in un climax che si ripropone (il giardino cura il giardiniere che cura le piante), Martella individua la dialettica di una solidarietà istintiva che lega tra loro tutte le forme di vita[46].

Recuperando Gilles Clément, per avviarci a concludere, non si tratta però tanto di trasformare il pianeta in giardino, bensì, di svolgere, molecolarmente, ciascuno le proprie azioni prendendo come modello “quelle che il giardiniere mette in opera nel suo giardino”[47].

Saranno allora, nuovamente, quel saper guardare il mondo che il giardinaggio presuppone, la concentrazione dell’immergerci in una temporalità che contempla il futuro, l’attivismo restitutivo del lavoro di coltivazione del giardiniere – con Karel Čapek, il “dai alla terra più di quanto prendi” – a profilarsi come pedagogici antidoti alla condizione di irrequietezza dell’occidente e al conseguente suo carattere distruttivo, di aggressione alla natura e alla cultura a un tempo[48].

Tornando ad Harrison, salvarsi in giardino e per il tramite del giardino significa dunque partecipare attivamente di un processo, di un modo di relazionarsi, distillando la capacità di vivere il reale, oltre la separatezza che è specifica della lettura meccanicistico cartesiana, e invece come un necessario intreccio … un prendere parte alla complessità senza tentare di ridurla, semplificarla.

Quella del giardiniere è però un’etica della cura ben diversa da quella della produttività. Un’Alternativa Ambiente, secondo la lettura di Clément[49].

Il giardino ci aiuta a rimettere in discussione non solo un sistema di produzione e “sviluppo”, ma un sistema di conoscenza fondato su un paradigma che spiega ogni fenomeno, inclusi vita e pensiero, a partire da processi chimici e meccanici. Verso, invece, una visione circolare, interrelata. In una prospettiva a lungo termine di una economia paesaggistica[50]. Non semplicemente vita, ma, “buona vita”

Come insegna Massimo Venturi Ferriolo nel suo ultimo libro Paesaggi in movimento, il giardino è a cavallo tra due dimensioni, l’immodificabile e quanto può essere modificato: il divenire[51].

A fronte del malessere che deriva dalla separatezza dalla natura, con relativa diagnosi di alienazione e conseguente afasia, il giardino è nei suoi diversi giochi di scala strumento, occasione e tramite nella presa di consapevolezza dell’essere invece parte di qualcosa dove tutto si tiene, del procedere oltre la singolarità del tempo naturale – e oltre la transitorietà delle stagioni, del ciclo della vita e della morte, espulsa dal nostro orizzonte mentale modernista del 900 – in quello sociale in cui viviamo. Trascendendoci come singoli ma restituendo a ciascuno quel senso di intima appartenenza a qualcosa che ci “contiene”, di concorrere in una dialettica continua dove non vale più la normatività ordinatrice del giardiniere di Bauman, o di Kant che sa una volta per tutte[52]. È nella saldatura della presa di consapevolezza con l’agire responsabile, senza distinzione  – né temporale né logica  – che questa esperienza del giardino ci salva, assieme mentalmente e corporalmente.

Insomma, così come, nel pantheon precristiano dei piccoli dei che amministrano, normandola, l’incertezza e la precarietà, la dea Salus (assieme con Spes e Fortuna), ci Salva “ma non troppo”[53].

Nel senso che per salvare non può farlo una volta per tutte, ma deve continuare a farlo

Così è per il giardino che pure distillando modelli, coltiva però contraddizioni, ricerca equilibri

Ed è perciò modello aperto, instabile, fatto di molti protagonisti e relazioni interconnesse, che consente di pensare la sintesi ma assieme … il particolare.

E dove l’azione responsabile prevale sul ritrarsi. Anche e proprio per il tramite della interazione creativa presupposta dall’Artificio e strutturata nel Progetto.

Un giardino che, curando, salva.

Andrea Di Salvo


[1] Fabbri Paolo, Abbozzi per una finzione della cura, in Donghi, P., Preta L. (a cura di), In principio era la cura, Laterza, Roma-Bari, 1995.

[2] Cfr. Lucilla Zanazzi, Uomini e piante. Le passioni dei collezionisti del verde, Roma Deriveapprodi, pp. 400, 2013.

[3] Cfr. https://ilmanifesto.it/la-citta-dei-giardini-chiama-a-raccolta-la-politica

[4] Quelli ad esempio della farmacologa Cristina Borghi, Il giardino che cura, Giunti 2007; Un giardino per stare bene, Urra Apogeo, pp. 232, € 16,50, 2012 e altri magari orientati verso la dimensione interiore, come il caso nella collana Le rose selvatiche di Ponte alle grazie della psicologa clinica Andrée Bella, Socrate in giardino. Passeggiate filosofiche tra gli alberi, pp. 208, € 14.00. O come ancora il testo dell’architetto e psicoterapeuta Ruth Ammann dedicata a Il giardino come spazio interiore, nella meritoria purtroppo chiusa Oltre il giardino di Bollati Boringhieri. E richiamando, come anticipatore di questo più recente discorrere alla introduzione di Pizzetti a Il pollice verde.

[5] Clemens G. Arvay, Effetto Biofilia, Edizioni Macrolibrarsi, 2018.

[6] Anni 2007-2012. Luoghi di valore. Un’esperienza nel territorio di Treviso, nel solco della Convenzione Europea del Paesaggio, a cura di Simonetta Zanon, Fondazione Benetton Studi Ricerche con Antiga Edizioni Treviso 2016.

[7] Curare la terra. Luoghi, pratiche, esperienze, a cura di Patrizia Boschiero, Luigi Latini, Simonetta Zanon, Fondazione Benetton 2017

[8] Jardins, Rivista fondata da Marco Martella, Editions du sandre, n 6, 2015.

[9] Robert Pogue Harrison, Giardini. Riflessioni sulla condizione umana, traduzione di Marianna Matullo e Valentina Nicolì, Fazi editore, pp. 245, € 20.00), 2017; ed. or. 2008.

[10] Jean-Marc Besse, Le paysage, espace sensible, espace public, In Research in hermeneutics, phenomenology, and practical philosophy, vol. ii, no. 2 / 2010, www.metajournal.org

[11] Michel Péna, Reinventer le dehors, in Jardins, n 6, 2015 cit., pp 167-23. Autore tra l’altro del Jardin Atlantique, sopra la Stazione Montparnasse.

[12] Vittorio Lingiardi, Mindscape. Psiche nel paesaggio, pp. 262, Raffaello Cortina 2017.

[13] Cfr. Hervé Brunon, Amitiés respectueuses. Pour une archéologie de la relation jardinière, in Jardins, n 6, 2015 cit., pp. 33-52 che cita Grégory Quenet, Qu’est-ce que l’histoire environnementale ?, Seyssel, Champ Vallon, 2014, p. 272.

[14] Sul piano dell’etica, nella variante della stewardship molecolare, si veda anche Marcello Di Palma, Giardini Globali: una filosofia dell’ambientalismo urbano, Roma LUISS University Press, 2012.

[15] Che individua come ambiti di intervento opere che “tra storia naturale e immaginario, che esplorano l’impatto della dimensione animale sul mondo letterario, artistico, mitologico e culturale”.

[16] Uomo, natura, animali. Per una bioetica della complessità, a cura di L. Battaglia, ed. Altravista, Lungavilla 2016. Cfr anche Animals, Biopolitics, Law. Lively Legalities, Ed. Irus Braverman, Routledge, pp 248, 2016. Variamente stranianti al riguardo sono le paradossali, illuminanti considerazioni della lettera indirizzata a restituire il punto di vista vegetale, di un Hieracium pilosella, per il tramite di Gilles Clement, a Vous animaux (Cfr. Gilles Clément, in Les carnets du paysage n° 26, printemps 2014). Come pure è significativo che ad Animali, giardini, paesaggi siano state dedicate le appena trascorse Giornate internazionali del Paesaggio della Fondazione Benetton.

[17] Antonella Tarpino, Il paesaggio fragile. L’Italia vista dai margini, Einaudi 2017, pp. 200, € 17.50,

[18] Pia Pera, Al giardino ancora non l’ho detto, Ponte alle grazie, pp. 224, 2016.

[19] È, anche recentemente, il caso di uno spettacolo a tutti gli effetti pop, Botanica (cfr. https://www.aboca.com/it/azienda/comunicazione/news/i-deproducers-con-aboca-partenza-le-isole-svalbard). Con quanto significa la scelta di un importante sforzo produttivo su questo tema

Non siamo ai livelli dell’Eden Project, parco a tema sulla malandata salute del pianeta e sulla biodiversità che richiama ogni anno in Cornovaglia più visitatori di ogni altro sito anglosassone (più di un milione di visitatori nell’anno, https://www.edenproject.com). E merita notare che lo spettacolo è stato prodotto da Aboca, importante azienda nei prodotti a base di complessi molecolari naturali, prodotti fitoterapici, sostanze naturali e piante medicinali. Che ha peraltro anche una sua impegnata branca editoriale.

[20] Stefano Righetti, La ragione ecologica. Saggi intorno all’etica dello spazio, Mucchi, 2017.

[21] Manifesta è la biennale nomade europea di arte contemporanea. Nel 2018, per la sua dodicesima edizione, la biennale si terrà a Palermo. Manifesta è “un progetto culturale site-specific che reinterpreta i rapporti tra cultura e società attraverso un dialogo continuo con l’ambito sociale”.

[22] Cfr. http://www.lastampa.it/2017/06/29/edizioni/milano/nuovo-policlinico-di-milano-posti-letto-e-il-primo-giardino-pensile-terapeutico-al-mondo-u6kiKeOMBGfXqmeDWofXXM/pagina.html dove si legge che il nuovo Policlinico di Milano, avrà 900 posti letto e il primo giardino pensile terapeutico al mondo, 6900 metri quadrati. Il progetto di Stefano Boeri prenderà avvio nel 2018 fino al 2022.

[23] Ricordandoci un’evidenza che traversiamo con indifferenza, senza avvedercene, e cioè che l’80% della vita che si dispiega sulla terra è costituito da piante e tutto il resto ne dipende totalmente, noi per primi, Mancuso ci invita a correggere il nostro sguardo e saper riconoscere, proprio attraverso l’irriducibile parentela evolutiva che alle piante ci lega, l’alterità delle vincenti strategie evolutive individuate e messe a punto da quegli ingegnosi organismi pionieri. Un approccio con alcuni elementi comuni a quello della biomimetica.

[24] Payot & Rivages, Paris 2016. Ispirandosi alle piante e a un modello di mondo pensato come rete di relazioni tra esseri, tutti connessi in una partecipazione totalmente comunitaria quanto pure assolutamente individuale, la riflessione filosofica di Emanuele Coccia evidenzia come le piante offrano un modello paradigmatico di forme di esistenza “più vitali, salutari, in accordo con la natura”. Un “osmosi” da cui proveniamo e a cui tendiamo tornare.

[25] È ora in uscita il primo testo di bilancio sul dibattito sul tema, cfr. Gianfranco Pellegrino, Marcello di Paola Oltre l’Antropocene. Etica e politica sul pianeta alla fine del mondo, Deriveapprodi, Roma 2018.

[26] Yves-Marie Allain, Jardins de soin, un approce critique e hitorique, in Jardins, n 6, 2015 cit., pp. 131-137.

[27] Anche i giardini botanici del 500 e 600 si sviluppano sotto il segno della scienza medica; della corporazione dei farmacisti: Hortus medicus (Pisa); dei semplici (Padova); Physic garden (Oxford). Solo a Leida, nei Paesi Bassi il nome rinvia alla funzione e non alle piante: Hortus publicus. Cfr. Yves-Marie Allain, cit., p 132. Occorre tuttavia notare come l’amplissima varietà delle nomenclature locali e popolari delle piante curative ci dica di una conoscenza fortemente diffusa e di una cultura permeata dalla dimensione vegetale che si è persa solo di recente.

[28] Un abbandono del modello biomedico che recupera la nozione essenziale, quella di ben essere. Cfr. Cristina Borghi, cit. e Michel Racine, Des jardiniers pour soigner la médecine, in Jardins, n 6, 2015 cit., pp. 7-16.

[29] Una per tutte, l’esperienza del vivaio interno al carcere Cascina Bollate dove la formazione è indirizzata a un lavoro qualificato nello specifico di un sapere legato alle piante (cfr. https://www.cascinabollate.org) e appena una nota per ricordare l’esperienza delle fattorie sociali (una realtà di 2-300 presenze in Italia) che declinano un modello produttivo basato su comunità capaci di integrare casi che, rapportati ai criteri della società industriale e post-industriale, sarebbero riconducibili alla dimensione della disabilità (cfr. http://www.agrietica.it).

[30] Su ciò si veda il lavoro, tra gli altri intrapreso e raccontato da Pia Pera, Giardino & ortoterapia, Salani Editore 2010, pp. 126 e cfr. www.ortidipace.org, connettore di esperienze educativo orticole, svolte soprattutto nelle scuole, promosso dall’autrice.

[31] Si conferma quel senso di connessione con l’ambiente quel bisogno della prossimità degli altri esseri viventi che, secondo la Biofilia di E. O. Wilson, 1984, ha le sue radici nel nostro patrimonio genetico.

[32] Urban acupuncture is a big idea based on small interventions: it seeks to relieve urban stress by tapping into urban energy flows with selective “pinpricks” of change. Similar to traditional Chinese acupuncture, the concept understands the urban environment as a living, breathing organism; it seeks to revitalize cities by treating local points of blockage and producing small scale but socially catalytic interventions in the urban fabric. Healing with local interventions is both simple and complex as it requires an understanding of local knowledge embedded in the larger urban terrain: its history, people, systems, and patterns. Urban acupuncture lies in the space between planning, ecourbanism and architecture: it can operate at the scale of a bus shelter or a hub of community activity. Temple Architecture Tyler School Of Art Arch 8012: Advanced Design Studio Sally Harrison, AIA.

[33] Michael Jakob, Il paesaggio, pp. 168, Il Mulino 2009.

[34] Il paesaggio come sfida, a cura di Franco Zagari e Fabio di Carlo, Roma 3-4 marzo 2016. Università la Sapienza, Facoltà di architettura, Aula Magna di Piazza Borghese, Libria editore 2017, tra gli altri, cfr. anche Andrea Di Salvo, Presagi di paesaggio in atto.

[35] Vedi H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, trad. it. di S. Finzi, Bompiani, Milano 1994 citata da Brunon.

[36] Matteo Meschiari, Terra sapiens. Per una preistoria del paesaggio, in Quaderni di semantica XXIX n 1 giugno 2008, pp. 149-162.

[37] Vittorio Lingiardi, cit., p. 42.

[38] Raniero Regni, Paesaggio educatore, Armando 2009, p. 56.

[39] Michel Péna, cit.

[40] Besse, cit. p. 268.

[41] Lingiardi, cit., p. 25. Anche alla luce delle scoperte relative ai neuroni specchio nella lettura di Vittorio Gallese.

[42] E sarà poi interessante vedere le applicazioni “pratiche” di questi presupposti sullo spazio pubblico, cfr. Besse cit., pp. 276-284. Per Besse infatti, lo spazio pubblico è certo sphère d’action politique che struttura l’identificazione dei nuovi problemi, dei temi che provengono dalla periferia del mondo politico ma è anche espace de la sensibilité, esperienza, occasione di presa di coscienza della presenza dell’altro.

[43] In che modo il giardiniere “si preoccupa”? Hervé Brunon, Amitiès cit., p. 19 e Hervé Brunon, Prendersi cura: giardino, vita activa, saggezza, in Curare la terra. Luoghi, pratiche, esperienze, a cura di Patrizia Boschiero, Luigi Latini, Simonetta Zanon, Fondazione Benetton 2017, pp. 15-29. Brunon riconsidera come la vera cura di sé (epimeleia) avvenga attraverso il curarsi degli altri.

[44] Brunon, Amitiès cit., p 38 analizza gli apporti degli studi dell’etica ambientale e dell’ecologia simbolica sviluppata da Philippe Descola e mutua l’idea della relazione dall’etnologia di Martine Bergues. Cfr. La relation jardinière, du modèle paysan au modèle paysager. Une ethnologie du fleurissement, Ruralia, 15 (2004), http://ruralia.revues.org/1045.

[45] Brunon, Prendersi cura cit., p 69.

[46] Marco Martella, nell’introduzione al numero 6 di Jardins cit., pp 5-6.

[47] Brunon, Prendersi cura cit., Ibid.

[48] Karel Čapek, L’anno del giardiniere, pp. 208, Sellerio 2008.

[49] Gilles Clément, L’Alternative ambiante, in Carnets du Paysage, 2009, Écologies à l’oeuvre, Sens & Tonka, Paris 2014. Il testo è anche disponibile sul sito di Clément.

[50] Il riferimento è al pensiero di Vandana Shiva e Kate Raworth.

[51] Massimo Venturi Ferriolo, Paesaggi in movimento. Per un’estetica della trasformazione, Deriveapprodi 2016, pp. 152.

[52] Zygmunt Bauman, Vite che non possiamo permetterci, Roma-Bari 2011, p. 107-108 e Brunon, Prendersi cura cit., p. 22 a proposito della  definizione kantiana dell’arte dei giardini, “mettere in ordine il suolo […] conformemente a certe idee”.

[53] Giulia Piccialuga, “Salvarsi” ma non troppo. Il rischio di un valore assoluto nella religione romana, pp. 403-426 in La soteriologia dei culti orientali nell’impero romano, a cura di Ugo Bianchi e Maarten J. Vermaseren, Leiden Brill 1982.