Nell’immagine prevalente dello scrittore tutto politico George Orwell spesso sfugge come egli trascorresse davvero molto tempo con i fiori, dedicando loro un’attenzione che tradisce anche allorché deve allontanarsene. Come quando, in una Londra incessantemente bombardata, rivolgendosi nel 1944 ai lettori del settimanale socialista Tribune chiede se conoscono il nome di quella “erbaccia che fa fiori rosa e cresce così abbondante” tra le macerie.
Nella sua vita di molti mestieri, poi di giornalista e saggista politico e di scrittore aveva, quando possibile, scelto di vivere in campagna, allestendo giardini. Due in particolare, come ci racconta la scrittrice e saggista Rebecca Solnit nel suo Le rose di Orwell (Ponte alle grazie, pp. 342, € 20,00) in questa rivisitazione che come confessa è anche un libro sulla rosa nelle sue molte declinazioni ed è pure un libro di molte divagazioni su questioni come la politicizzazione della scienza, lo sfruttamento delle fabbriche di rose di Bogotà, le origini di uno slogan famoso che abbina le rose al pane, l’ossessione di Stalin di acclimatare limoni in Crimea, le implicazioni dell’imperialismo britannico e i benefici che ne avevan tratto le generazioni subito precedenti della famiglia Blair (il cognome di Orwell prima di assumere questo pseudonimo).
Il primo giardino, quello del cottage di Wallington, è nella campagna dell’Hertfordshire nel Sud dell’Inghilterra, dove Orwell era andato a vivere nell’aprile del 1936, raggiunto poco dopo da Londra da Eileen O’Shaughnessy che avrebbe poi sposato nella chiesa locale. Un giardino con animali allestito con rose a buon mercato – come precisa – e alberi da frutto, e di cui narra in dettagliatissimi diari domestici.
A Barnhill, il secondo e più ambizioso, dove, dopo la morte della moglie, dal 1946 tornò a seminare nel paesaggio ondulato il futuro in un orto con lupini, viole del pensiero, primule, rose, tulipani, alberi da frutto: una fattoria isolata non distante dalla costa orientale nell’isola di Jura, nelle Ebridi, di fronte alla Scozia. Luogo remoto in cui trascorse tutto il tempo che gli riusciva durante i suoi ultimi anni di vita. In uno degli andirivieni annota sul diario di esser passato, nei pressi di Newcastle, sulla tomba di Eileen: dove “tutte le rose polyantha … sono radicate bene. Ho piantato aubrezia, mini phlox, sassifraga, un tipo di ginestra della Siria, un tipo di sempervivum, e mini dianthus. Le piante non erano in buonissime condizioni, ma pioveva e quindi dovrebbero attecchire”.
L’osservazione diretta, gli incontri con il mondo materiale, l’attenzione al particolare, il rilievo anche sensoriale dell’esposizione, assumono una loro valenza politica, per farsi talvolta atti di resistenza. In un andirivieni di scala che dalla descrizione di un particolare albero di mele o di quello di tasso nel cimitero del Berkshire trascorre a questioni universali di riscatto e prospettive di posterità, nelle opere di Orwell si incontrano spesso frasi che testimoniano la sua considerazione per la natura, i fiori e i piaceri della vita, il giardino, che è anche un modo per radicarsi nel regno delle percezioni. Lo stesso, nei molti resoconti domestici – cronache e elenchi che perlopiù hanno a che vedere con le piante di cui si prendeva cura e i suoi animali, cose che aveva intenzione di acquistare e di fare – e nelle testimonianze dei contemporanei, stupiti di come conoscesse i nomi di tutte le piante. O ancora nei numerosi articoli in forma di inventario che, specialmente tra 1945 e 1946, quando nel maggio si trasferì a Jura per iniziare il romanzo che sarebbe poi stato pubblicato con il titolo 1984, scrisse celebrando i piaceri e le consolazioni della vita di tutti i giorni – sulle cartoline e il loro assortimento; i tesori nei negozi di rigattiere; i nomi delle specialità culinarie inglesi; in lode, o difesa, del clima britannico o su come dev’essere servita una buona tazza di tè.
Per quanto ricordasse come l’ultima volta in cui nella rubrica che scriveva sul Tribune, avendo menzionato dei fiori, una signora indignata gli avesse scritto protestando “che i fiori sono borghesi”, a chi gli rimproverava di esser sempre troppo critico, nel gennaio 1944 scrive: “a me piace tessere lodi, quando c’è qualcosa da lodare. E in questa occasione vorrei scrivere due righe in lode della Rosa di Woolworth”: quella anni prima piantata a Wallington.
Rebecca Solnit, Le rose di Orwell, Ponte alle grazie, pp. 342, € 20,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 13, Supplemento de Il Manifesto del 16 aprile 2023
Dal saggio del 1946 intitolato Perché scrivo: “In un periodo pacifico avrei scritto libri elaborati o meramente descrittivi, e sarei rimasto quasi ignaro dei miei doveri politici… Ma non potrei sopportare la fatica di scrivere … se ciò non fosse anche un’esperienza estetica … anche quando si tratta di vera e propria propaganda [la mia opera] contiene molto di ciò che un politico di professione considererebbe irrilevante… Finché sarò vivo e in buona salute continuerò ad appassionarmi alla prosa, ad amare la superficie della terra e a prender piacere dagli oggetti solidi e da ritagli di informazioni inutili».