Malgrado il progressivo convergere di ripensamenti in prospettiva critica da ambiti disciplinari diversi, stenta ancora a farsi strada nel dibattito e nel senso comune l’urgenza di ridefinire altrimenti il binomio oppositivo natura-cultura, così a lungo e costitutivamente preso a paradigma del mondo, quantomeno nella cultura occidentale. Con tutte le ricadute a cascata di un dualismo, quando non antitesi, che vede l’uomo separato dalla natura con il suo porsi al di fuori e sopra di essa, autoescludendosi dalle comunità biotiche. Ritenendo perciò la cultura un fatto esclusivamente umano e riducendo la natura a materia, oggetto inerte, sfondo per le proprie attività e, conseguentemente, giustificandone lo sfruttamento senza limiti. Una natura altro da noi, che può esser mercificata e messa a profitto, resa privatizzabile, brevettabile, vendibile
Nell’ambito degli studi delle humanitates ambientali che considerano invece l’uomo immerso nella trama di relazioni con il vivente in un sistema di interdipendenze ecologiche – e, sempre più consapevolmente, in implicazione profonda con un mondo non-umano, studiando quindi modi interconnessi e impatti trasformativi delle connessioni che vi si danno –, l’antropologia evidenzia al riguardo come questa concezione oppositiva natura-cultura sia una costruzione culturale (come peraltro già anche quella sia di natura che di cultura). Una soltanto delle possibili visioni. Occidentale, antropocentrica.
Una concettualizzazione della natura come oggetto esterno, da dominare, da Aristotele alla proiezione umanocentrica del sacro delle religioni monoteiste, da una teologia cristiana che vuole l’essere umano a immagine di Dio dominante all’umanesimo della prospettiva, al dualismo cartesiano tra soggetto conoscente e oggetto della conoscenza e, via illuminismo e positivismo degli stati nazione, con relativa riduzione della natura a spazio quantificabile a disposizione per uno sfruttamento razionale. In una costruzione culturale, spesso motore del colonialismo, che esporta e impone questa visione anche alle popolazioni indigene. Anche là dove questa distinzione non rileva senso, dove son diffusi altri modi di intendere il vivente come sistema di relazioni (di cui si è parte) da conservare, mondi abitati da piante, animali, montagne. Soggetti, persone non umane, in un’irriducibile parentela in metamorfosi continua.
Di questi temi, con l’esperienza della sua ricerca etnografica, specie nel sud est asiatico, e lo guardo di antropologo applicato, ripercorre da capo a grandi balzi i termini del dibattito Andrea Staid nel suo volume Essere natura. Uno sguardo antropologico per cambiare il nostro rapporto con l’ambiente, UTET, pp. 131, € 15,00. Considerando le classificazioni delle diverse visioni culturali riguardo alla natura, da Bruno Latour a Tim Ingold, da Philippe Descola a Eduardo Viveiros de Castro, ad Anna Lowenhaupt Tsing ed Eduardo Khon. E tenendo presenti le acquisizioni della neurobiologia vegetale di Stefano Mancuso o le suggestioni di Emanuele Coccia, del “fare mondo” ispirato dalle piante.
Decolonizzare il nostro pensiero dalla dicotomia di cui sopra – che rischia altrimenti di condizionare anche il nostro modo di pensare l’ecologia, immaginando di preservare una natura come oggetto, con l’illusione securitaria di zone inviolate o scivolando in forme di ecoturismo e vario green washing – relativizza la conseguente idea di progresso e sviluppo infinito del capitalismo, donde derivano degrado di suoli agricoli, per monocolture intensive e deforestazione, esponenziale crescita edilizia e di grandi infrastrutture, produzione incontrollata di rifiuti tossici. Con esiti devastanti, dalla frammentazione e trasformazione dei paesaggi e perdita di biodiversità determinate da un imperante estrattivisimo a un vero e proprio ecocidio, con la distruzione consapevole di interi ambienti naturali. Insomma, tutta una serie di fattori corresponsabili dell’accelerazione del cambiamento climatico con le ricadute in termini di interrelazioni tra conflitti sociali e giustizia ambientale e di genere.
Al centro del volume resta la difficoltà di pensare a ciò che chiamiamo natura come una totalità, organismo vivente di cui facciamo parte imparando a fondarne i diritti, come comincia a essere nelle costituzioni di alcuni stati: la difficoltà di condividere questa scoperta e il racconto della soggettività plurale in una consapevolezza che sappia farsi traduzione pratica.
In questo, nella sua dimensione molecolare, il giardino ci aiuta come occasione di presa di coscienza di un continuo, inesausto negoziato con i vari protagonisti del vivente, dove sperimentare e coltivare contraddizioni, alla ricerca di nuovi equilibri e in una complessiva riconsiderazione critica delle forme di stare, assieme agli altri, al mondo.
Andrea Staid, Essere natura. Uno sguardo antropologico per cambiare il nostro rapporto con l’ambiente, UTET, pp. 131, € 15,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 15, Supplemento de Il Manifesto del 30 aprile 2023