In una «letteratura italiana povera di alberi», come citando Sciascia ci ricorda Renata Pucci di Benisichi, il congegno narrativo prescelto per il suo libricino Piccole storie di alberi e di uomini edito per Sellerio (con acquarelli di Stefania Bruno, pp.125, € 14,00) è dato proprio dall’associare ciascuna delle quattordici storielle qui raccolte a un albero del paesaggio mediterraneo, specialmente siciliano. Albero eponimo che così orienta attorno alla sua apparizione il dipanarsi del filo della vicenda, ne ordina il senso in relazione alla chiave che espressamente provvede, assumendo una funzione, ma anche riguardo a quanto soltanto evoca, come tessuto connettivo testimoniale di luoghi, atmosfere, memorie, saperi, assonanze, folgorazioni di senso. Insomma, niente a che vedere con «l’allegria intempestiva» della gaggìa del cimiteriale giardino del Gattopardo. Qui la costruzione del gioco è dichiarata fin nella premessa a ogni racconto di una sorta di presentazione “scientifica” dell’albero personaggio: una scheda che variamente cita autorevoli fonti, dal Jacques Brosse delle Storie e leggende degli alberi all’Enciclopedia Britannica, dalle note di Domenico Lanza, direttore dell’Orto botanico di Palermo a inizio 900 alle recenti preoccupate considerazioni per le minacce al patrimonio forestale del Progetto Life del Parco delle Madonie; a marcare per contrasto il repentino scarto di passo narrativo, nel segno che quella stessa presenza arborea appena anagrafata assume nel racconto. Qui sono alberi che misurano le esistenze, accompagnandole e sopravanzandole, incrociando le diverse attenzioni di signori e contadini, come per il gelso “voluto bene” per generazioni e che, pure spaccatosi per metà, “caduto in terra e che gridava aiuto con tutti li rami”, sopravviverà invece luminoso vent’anni almeno oltre le preoccupazioni del mezzadro che nella sua lettera confessione pudicamente chiede di finire di abbatterlo nel timore che la gente lo veda piangere per un albero («si mi viddunu chianciri ’pi n’arbulu»). Alberi che certe esistenze sostituiscono, come l’abete la cui cima svetta oltre gli alti muri di un giardino “desolato e selvaggio” dove “nessuno entrava, nessuno usciva”, che solo si intuisce dal buco della serratura abitato nel tempo immobile del dolore di un’assenza da un infinito lamentoso abbraccio di quel tronco, invocato ogni giorno a protezione, «marito mio, marito mio». Alberi che delle esistenze variamente fissano, stigmatizzano passaggi e snodi, matrimoni, primi amori, parti, ripiegamenti, invecchiamenti e morti. Alberi nutrimento, alberi soglia, spesso posti su un limitare. Alberi testimoni e alberi narratori, che da emblema botanico risalgono dalla filigrana della narrazione fino in primo piano umanizzati, con valenza di protagonisti. Campionario interscambiabile di personaggi, frutti e essenze arboree. I «mostruosi fichi d’india che aprivano all’aria le loro braccia punteggiate dal rosso e dal giallo dei frutti carnosi» accogliendo l’ignaro forestiero che, estraneo a ogni possibile comune linguaggio, pretende di morderne le spine. Quel salice stremato, fuori posto in un riarso viottolo di là dalla vigna; la regale chioma del ficus magnolioides cui volge l’ultimo sorriso l’immigrato di ritorno Petrosino. La superba conocchia di sorbe che mai matureranno, né saranno mangiate «con quel leggero risucchio delle labbra», e finiranno invece per macchiare, assieme alla morte a pallettoni, il viso e il collo del soprastante don Piddu, incurante della mafia. E per converso, la beatitudine regalata ai due giovani ladruncoli dai frutti che la grande cupola di un fico dai rami bassi dispensa, interrompendone la fuga precipitosa. Nella consapevolezza “improvvisata” che «quantu ci vali ’na manciata di ficu nun ci vali tutta ’st’argenteria».
Renata Pucci di Benisichi, Piccole storie di alberi e di uomini edito per Sellerio (con acquarelli di Stefania Bruno, Sellerio, pp.125, € 14,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica III, 6, Supplemento de Il Manifesto del 10 febbraio 2013