Auditorium Parco della Musica Roma – 21 maggio 2017 – A chi serve la bellezza

Auditorium parco della Musica - Festival_21-5-17_Paidea al paesaggio_Andrea_di_Salvo_VìrideSulle tracce di una paideia al paesaggio
Nella variante qui in programma di questo titolo A chi serve la bellezza, suggerito da Franco Zagari e tratto da Antonioni, non c’è neanche un punto interrogativo, tanto la questione, estrapolata, risulta retorica.
A tutti. La bellezza è un’arte del vivere come Il paesaggio è un’arte del vivere.
Nei dintorni di quest’arte ci muoviamo in molti a seguire le tracce disperse del progressivo costituirsi di una paideia al paesaggio che tanto ci sta a cuore.
Chiamo paideia quella forma di cultura e educazione che è insieme habitus mentale e formazione permanente in atto.
Paideia al paesaggio dove si combinano quindi un’attitudine critica (Cultura) centrata (o annodata) sul paesaggio e una sua specifica pratica, di analisi e proposta: quella del progetto di paesaggio.
Elementi che combinandosi, concorrono a definire un pensiero-in-azione … del paesaggio … vissuto.
Una paideia che evoca quindi sì, un ampio ambito di competenze, specifiche e intersettoriali, nella consapevolezza di dover aggiornare continuamente e plasticamente il proprio oggetto e metodo, ma prima ancora un Paesaggio come “arte del vivere” dove conta l’aspirazione degli uomini a vivere in comunità ad agire insieme. E dove è inevitabile l’assunzione di un punto di vista attivo. Responsabile.
Si è responsabili, per paradosso, anche restando immobili. Non possiamo dire che il paesaggio non ci riguarda

Dunque un pensiero-in-azione … del paesaggio vissuto che è un paradigma assieme cognitivo e produttivo e, anche emozionalmente, si trova in relazione diretta e biunivoca con il governo dei nostri bisogni/desideri.

E quindi con il soddisfacimento della nostra aspirazione maggiore: la felicità
Dalla quale non è esente il tema della bellezza del titolo (che è tema di Franco Zagari, specialmente sviluppato nel suo ultimo libro, appena uscito, Piccoli universali di architettura e paesaggio).

Di trasposizioni pratiche del pensiero-in-azione del paesaggio vissuto in molti anche stamane ci han già parlato, Fabio Di Carlo, Claudio Bertorelli, e poi immagino altri lo faranno, Benedetto Selleri, Gianni Celestini. Mentre, a cavallo tra cultura del paesaggio e ambiti di operatività si va da tempo riflettendo a vari livelli come è evidente dai titoli delle sezioni dell’importante convegno di Napoli di cui ci ha detto Isotta Cortesi: temi omnicomprensivi: paesaggio, agricoltura e cibo; paesaggio, catastrofi e cambiamenti climatici; paesaggio, guerre e migrazioni; paesaggio, natura e ecologia; paesaggio, città e nuove identità.

E a questo proposito, torna davvero a proposito la citazione, evocata in quella sede napoletana, di Piero Calamandrei nello spettacolo di Tomaso Montanari. Perché segna un esempio, di vertice, di quella paideia di cui vorremmo accennare. Ricordando appunto come per questo studioso di diritto e padre costituente nasca precocemente quella passione naturalistica e attenzione al paesaggio delle quali si ritroverà poi traccia nei successivi scritti scientifici e professionali, nei diari e nei discorsi politici. In un dialogo innescato dall’esperienza di un suo erbario ginnasiale approntato negli anni giovanili (edito a cura di Paola Roncarati e Rossella Marcucci per Olschki) e in una dimestichezza che poi si troverà ancora nelle memorie ordinatrici e rievocative, prima fra tutte quel catalogo di stupefatte curiosità e melanconiche esperienze che è l’Inventario della casa di campagna.

Quanto poi al termine cultura, sappiamo come esso si presti a definire ambiti di appartenenza sempre più labili e sfuggenti (in ciò andando a braccetto con il termine paesaggio) e nella sua “criticità” merita sottolineare il ricorrere di questa accoppiata.

Anche in altri consessi e incontri più o meno festivalieri come ad esempio quello di qui a poco a Pistoia 11-17 giugno, centrato come è evidente piuttosto sulla dimensione botanica e produttiva del distretto che lo ospita, nel programma ho contato perlomeno nella metà degli interventi l’abbinata cultura e paesaggio: lo stesso titolo generale raddoppia, e con un interessante vettore: Dalla cultura del verde alla cultura del paesaggio.

Paesaggio è un termine pas par tout
Uno strumento che a sua volta interviene innescando strumenti
A varie scale della nostra relazione con il mondo
Un attrattore che, nella sua indeterminatezza acchiappatutto, vive dell’integrazione di molti sguardi e saperi in rapporto a nuove esperienze, nuove esigenze, nuove dimensioni che continuamente si aggiungono e modificano, ridefiniscono il suo stesso oggetto e nella sua abilità metamorfica è capace di restituire ipotesi in divenire
(perché questo ci insegna tra l’altro il paesaggio: a indossare come habitus il suo continuo riconfigurarsi tra ininterrotto fluire della proposta e interattività ecologica dei soggetti coinvolti.

Il paesaggio è insomma uno strumento che ha la plasticità per interagire, come forse non più la politica, con la complessità del reale in divenire.

Per rendersi conto della pervasività con la quale è chiamato in causa il concetto di paesaggio (talvolta con funzione “supplente”) basterebbe tracciare le frequenze di utilizzo, come dicono i linguisti le occorrenze del termine paesaggio in tanti ambiti della comunicazione.

Un utilizzo quasi sempre aggettivato, declinato, precisato), molto spesso impiegato in senso traslato, perché la metafora, si sa, ci aiuta a viaggiare nella complessità e nell [ancora, per noi] indistinto

Ma di cosa è fatta poi, banalizzando e schematizzando oltre misura, questa cultura del paesaggio (distinta dal paesaggio in azione e componente che ad esso concorre, e talvolta anche con esiti negativi)?

Quindi, cosa c’è oltre, intorno, la traccia della pratica dei progetti realizzati e in atto che ci vengono anche stamane qui raccontati e oltre le testimonianze della riflessione critica di diversi settori disciplinari che cercano faticosamente di incontrarsi?

C’è – e ci metto un’intonazione interrogativa  –
La presa d’atto, la consapevolezza
delle relazioni ecosistemiche planetarie?
della specificità geologica dei luoghi
la presa d’atto delle intersezioni natura-cultura che solo la storia ci consente di saper leggere
quindi storia degli insediamenti; Storia produttiva; Storia delle figurazioni simboliche ideate per riconoscerci e re inventarci

             C’è condivisione di linguaggi
Se non quello delle competenze progettuali dell’architettura, almeno del saperla vedere, saperla leggere
C’è condivisione di linguaggi
di un sapere orticolo (nel senso dell’uso delle piante ornamentali) che è altro dal pur necessario sapere botanico
Ci sono poi i modi nei quali questa cultura del paesaggio si distilla, come si veicola, come si va affermando?
È il tema della formazione specialistica
Ma anche dell’educazione scolastica di base
Delle forme di trasmissione, del passa parola, della rete
Ma anche del Rapporto con le proprie origini, della “tradizione”
È il tema del Ruolo dei media
Con l’omogeneizzazione di una pubblicistica settoriale divulgativa, che però tiene. Per quanto confinata nel settore “tempo libero” (indicando con ciò “tempo libero” una grande via, se non fosse che lo si intende invece che come fulcro di senso (nuova centralità, direbbe qualcuno), come attività residuale, attitudine “disimpegnata”
C’è, ancora, la modellistica della pratica normativa e vincolistica  e le sue contraddizioni applicative (da ultimo, il ddl Falanga passato or ora in Senato e ribattezzato Condono perpetuo)
Ci sono i residui del dibattito anche politico, per lo più confinato nelle dialettiche delle emergenze locali (o pre-elettorali). Ma anche momento, spazio di dialogo, magari aspro dato che il paesaggio è per forza di cose occasione di contrasti tra distinti interessi
Ci sono le Forme di Ibridazione dello spazio pubblico tramite interventi anche artistici

C’è, Insomma e infine, in un progressivo ampliarsi di una nuova attenzione, di una sensibilità, che incrocia temi come ambiente; sostenibilità, qualità della vita; rilievo, appunto, della bellezza; c’è Il ritagliarsi (magari per sottrazione) di un gusto, si sarebbe detto una volta, di un senso estetico.
Pur nella consapevolezza di un pluralismo estetico, dove convivono idee diverse di cosa sia il bello
il bello dei balconi delle gare dei villaggi fioriti; magari multietnici
quello delle mode degli orti, e del moltiplicarsi delle mostre fiori (meritorie)
quello indotto dalle rotatorie sponsorizzate
quello degli spazi verdi privati, esposti come musei d’altri tempi
quello degli spazi pubblici, replicanti di se stessi, avvertiti come opportunità di esprimersi, partecipare. Anche in dimensione agonistica (come altrove è capitato di sottolineare)

Tracce tutte di una cultura che si riverbera nei linguaggi dell’arte, del design
nella fonosfera di immaginari della letteratura, nel cinema, fin nella musica (di che giardino sei)

Ne è esempio la multidimensionalità della gande mostra Jardins che attira folle al Gran Palais di Parigi, fino a luglio

Una cultura del paesaggio che si fa senso comune (affiorando dal linguaggio, dalle espressioni, dalle immagini, dagli slogan) e che spesso, anche, si esprime però in “luoghi comuni
nella riduzione del tema sotto la rubrica del “decoro”
oppure sotto quella del patrimonio
                 che riconduce tutto a valenza economica: per cui uno studio recente ha calcolato Quanto ne viene all’Italia, in termini di ritorno economico, del fatto di essere “bella”
                 Tra l’altro, paradossalmente, con ciò espungendo del tutto, proprio il rilievo della dimensione estetica (magari di rottura)
Il suo ruolo nella dinamica e dialettica progettuale

Questa rassegna disordinata delle tracce della nostra paideia, del pensiero-in-azione del paesaggio vissuto, attesta una pervasività di forme che andrebbero meglio studiate, messe in gerarchia e in prospettiva

E intanto, più semplicemente si può dire che
Il paesaggio interpreta, impersona, nel loro vivente interagire l’incrociarsi di tematiche, urgenze, implicazioni pratiche che ci stanno molto a cuore
E che ci consente sinteticamente di enuclearle. Dando a tutti il senso di intenderci su quanto si vuol dire, salvo poi a trovare mille distinguo quando ci si guarda dentro
Una volta si sarebbe parlato … di una sua capacità egemonica.
Almeno culturalmente.
O forse, per lo più, mediaticamente
, come se sovente piuttosto che di meritorie ricuciture, si tratti per lo più di “ricami”, narrativi!  

In ogni caso, da tutto ciò si può imparare e impariamo: – siamo pur sempre in una paideia

Impariamo ad assumere come centrali alcune caratteristiche specifiche del pensiero-in-azione del paesaggio che, come insegna Farinelli, ci costringe intanto a rivedere l’arsenale consueto di concetti e categorie: spazio, soggetto-oggetto, …

Impariamo ad assumere come centrali:
      la dinamicità:  tutto è movimento. Dalla vita cellulare totipotente alle molte contemporaneità del paesaggio di cui ci spiega Massimo Venturi Ferriolo.
      Una dinamicità che è anche del soggetto. Che “percepisce in movimento” (mentre con la Prospettiva, lo si presupponeva immobile) e ricordando come lo spazio non possa esistere se il soggetto si muove
       Dinamicità, e a corollario della dinamicità, immersione
non c’è più intervallo, separazione tra soggetto e oggetto
       Quindi, per quanto irriducibile, soggettività: re-la-zio-na-le
       Dato che, come anche la fisica teorica ci suggerisce, dobbiamo imparare a pensare alla realtà non in termini di cose, ma di relazioni

Quindi, ancora, il senso di appartenenza, che è fattore essenziale di identità, ma, occorre precisarlo, non in senso limitativo, quanto piuttosto inclusivo – e al riguardo si può tornare a riprendere, sfiorando ancora la questione della bellezza, la parola di John Berger quando ci dice che, appunto, la bellezza è “la speranza di essere riconosciuti dall’esistenza di quel che si sta guardando e di esservi inclusi”.

Essere parte della bellezza è un po’ come essere parte del paesaggio: non può che essere così perché dell’uno e dell’altra si può soltanto “fare esperienza

Quindi, esperienza del paesaggio, con il nostro starci dentro, inevitabilmente complici, in dimensione progettuale
Una soggettività partecipata dunque e in relazione (anche con l’oltreumano)
In una interattività responsabile dove il paesaggio è vissuto in dimensione etica, quindi politica.

Per queste sue stesse caratteristiche, metodologicamente intrinseche
Per la sua pervasività , il pensiero-in-azione del paesaggio vissuto costituisce prima ancora che uno strumento, un antidoto:
          contro la fissità, il dominio dell’ineluttabilità, l’indifferenza e il fatalismo, il disincanto e il cinismo.
          contro la Crisi (proposta come naturale ma nutrita invece di ragioni storiche),
          contro il dominio di una lettura solo economica o economica in primis
Il paesaggio ci insegna invece la Non neutralità, a Non affidarsi, a non delegare; ad esser Non più spettatori, ma obbligatoriamente protagonisti.

Una comprensione allargata del paesaggio, anche in una sua dimensione esistenziale si va facendo, come si è detto , Arte del vivere, atteggiamento, modo di stare al mondo, filosofia di vita. Etica singolare, si direbbe. O politica attitudine della moltitudine. Dove i luoghi e gli spazi pubblici diventano comune, e, nel loro generare comportamenti, si rivelano Organismi sociali in divenire

L’idea e il progetto di paesaggio ci invitano a ripensare le gerarchie e la formulazione stessa di bisogni, funzionali però a un diverso BenEssere
In una messa in relazione (e in proporzione) con il pianeta.
Verso Luoghi dove essere civilmente, cosmopoliti – nel senso del cosmo come polis.
Con l’assunzione di responsabilità che questo comporta

Imparando un pensiero-in-azione che tenga compresenti intimità dei nostri luoghi d’elezione e orizzonte planetario di promiscuità ecologica, in comunione stretta con il mondo naturale: una ecologia politica oltre-umana e trans generazionale. Una biodiversità di tante eterogeneità.

È il paesaggio che oggi ci aiuta a pensare il mondo come bene inappropriabile, secondo la nozione, oltre quella di beni comuni, di mondo comune: dove ogni operare, ogni progetto si configura come co-produzione
Dove il paesaggio può farsi canale di rappresentanza politica
E la sua paideia è  presupposto e al tempo stesso volano di attivazione di processi di invenzione e rigenerazione dello spazio condiviso, produttivo, simbolico, rappresentativo


* * *

Come avrete potuto notare, di bellezza ho parlato ben poco, almeno, direttamente.
Lo fa invece con piglio da emulare, potendolo, per chiarezza di sintesi e efficacia, un breve testo che vi leggo per chiudere, invitandovi a riconoscerne la paternità.
Testo di qualcuno che getta lo sguardo lontano: che poi è ciò che il paesaggio insegna e esige: lontano in avanti e indietro, nel tempo e nello spazio:

Cito: «Ha ancora più valore seguire un altro tipo di bellezza [dice: rispetto a quanto appena spiegato parlando di bellezza del progetto)]: la qualità della vita delle persone, la loro armonia con l’ambiente, l’incontro e l’aiuto reciproco.
Anche per questo è tanto importante che il punto di vista degli abitanti del luogo contribuisca sempre all’analisi della pianificazione urbanistica.
E’ necessario curare gli spazi pubblici … che accrescono il nostro “sentirci a casa».

E si prosegue poi con una serie di capitoletti intitolati a Il principio del bene comune; a La giustizia tra le generazioni.
Come tutti avrete capito siamo nel quarto capitolo, intitolato Un’ecologia integrale della Laudato sì
l’enciclica, come si precisa, sulla cura della casa comune.

Grazie a tutti per l’attenzione
Andrea Di Salvo