Savoia, giardini alla francese

Sotto il segno del diffondersi del giardino formale francese che tra Sei e Settecento dalla Francia si irradia in tutta Europa, procede – dopo il capitolo della Mostra alla Reggia di Venaria, a Torino, intitolata al Viaggio nei giardini d’Europa. Da Le Nôtre a Henry James (cfr. Il Manifesto del 4 luglio 2019) – il ricomporsi negli studi della vicenda del sistema dei giardini delle residenze reali di casa Savoia, tra ducato e regno di Sardegna. Vicenda certo da inquadrare come una declinazione tra le molte di un fenomeno europeo a grandissima scala, qui però precoce e, per vari tramiti, diretto, anche in forza di peculiari rapporti geografici, diplomatici, dinastici.

Ne Il giardino francese alla corte di Torino (1650-1773). Da André Le Nôtre a Michel Benard, Leo Olschki, pp. 234, € 33, è sempre Paolo Cornaglia a ridisegnare ora i tratti di questa presenza nei giardini della corte sabauda, articolando i termini dell’intenso rapporto testimoniato dal diffondersi del decoro in broderie dei parterre (documentati in disegni e progetti e raffigurati poi nelle tele che i giardini ritraggono), come pure dall’influenza dei trattati francesi (da Olivier de serre a Mollet, a Dezallier d’Argenville), e dall’avvicendarsi di giardinieri, disegnatori di parterre e progettisti d’oltralpe che lavoreranno per i Savoia. In una circolazione di modelli e idee che, da una fase in cui il gusto alla francese si diffonde per il tramite di specialisti, dalla metà del Seicento, con Jacques Gelin – spesso membri di dinastie giardiniere –, all’uso di inviare – da parte di maestri come André Le Nôtre– progetti e figure capaci di dirigerne l’esecuzione, giunge fino al radicarsi, con il Settecento, di figure come Henri Duparc, da Parigi, naturalizzato sabaudo.

Perfino nel caso dello stravolgimento provocato dalle novità dei progetti dei giardini per corrispondenza di Le Nôtre si assiste piuttosto alla disseminazione di modelli e influenze che non a un semplice processo di imitazione e trasposizione.

Dapprima nel 1670, per parco Racconigi, a testimoniare l’aggiornata sensibilità del committente ramo cadetto dei Savoia-Carignano – mentre a Venaria Reale si perseguivano ancora i dettami del giardino romano di primo Seicento – poi nel completo ridisegno alla francese del giardino dello stesso Palazzo Reale, realizzato dal 1697 con la presenza sul posto del collaboratore De Marne, che si qualifica per la grande scala e la fuga prospettica centrale, nonché per emblematici elementi distintivi, come l’incrocio tra raggera di viali e vasca polilobata, il teatro di verzura, il tempio di Diana, il labirinto e il potaggere, o la presenza di una terrazza da cui ammirare il disegno del parterre.

Di là dal rilievo del ruolo di progettisti e giardinieri – una rimarchevole galleria di ritratti di caratteri e saperi spesso trasmessi all’interno delle famiglie –, tra rimborsi, spese, elenchi di piante, contratti, lettere di ambasciatori e agenti dei Savoia, dalla minuziosa ricostruzione documentaria emerge qui come caratteristica dell’evoluzione del gusto, nelle relazioni tra Italia e Francia, proprio la duttilità nell’appropriazione e adeguamento dei modelli d’oltralpe a contesti culturali e esigenze locali.

In questo senso, con il Settecento e Henri Duparc, direttore dei reali giardini, nella fisionomia dei maggiori complessi piemontesi si palesano elementi canonici del giardino alla francese, da quello radiale che si adegua all’impianto circolare della palazzina di caccia di Filippo Juvarra di Stupinigi (1740) – con il sistema di Appartamenti verdi e porticati di verzura, con percorsi ombrosi e alberature che coprono a volta gli spazi –, al parco collinare di Moncalieri, al grande parco del castello ducale di Aglié (1765).

Operando su diverse scale, giardino e parco di caccia si raccordano in un unico sistema a disegnare un progetto architettonico e territoriale, messo in forse, con il mutare nel continente dei contesti politici e l’affermarsi, in giardino, del gusto paesaggistico.

Tra rinnovi della committenza, nuove mode e, poi, distruzioni di epoca napoleonica, si ripercorre così il filo delle dinamiche di invenzione e continuo rinnovamento dei giardini reali nei due paesi e si restituisce il rilievo di questa vicenda negli sviluppi dell’arte dei giardini in Europa.

Paolo Cornaglia, Il giardino francese alla corte di Torino (1650-1773). Da André Le Nôtre a Michel Benard, Leo Olschki, pp. 234, € 33, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XI, 34, Supplemento de Il Manifesto del 12 settembre 2021

Oltre il giardino del “populismo botanico”

Tra inedite anticipazioni di precoci, frenetiche fioriture, ma poi anche di fronte ai loro tardivi prolungamenti, e assieme ai posticipi nella perdita autunnale dei fogliami, le sfasature del ritmo tra quiescenza del riposo invernale delle piante e sincopate riprese stagionali è indice, anche in giardino, della confusione climatica incombente. Intermittenze che ci dicono di uno stato di allerta permanente, di poche regolarità. Di un giardino del domani che in un contesto repentinamente alterato deve misurarsi con l’impoverimento dei suoli, la mancanza d’acqua, il riscaldamento delle temperature e la loro accelerata variabilità. E deve quindi ricorrere a specie e tecniche adatte e adattabili alle vocazioni e ai limiti dei luoghi, in un accomodarsi senza fretta all’essenziale di interventi auspicabilmente ridotti, al più, orientando l’intrinseca mutevolezza del giardino. Oggi a maggior ragione.

Sul tema del ruolo che il giardino contemporaneo possa giocare nell’affrontare gli esiti del cambiamento climatico in atto sulla spinta del riscaldamento globale si interroga ora un grande vecchio del giardinaggio, Paolo Pejrone, nel suo I dubbi del giardiniere. Storie di slow gardening, a cura di Alberto Fusari, Einaudi, pp. 176, € 17,00. Per dire, nel suo procedere per interrogativi, piuttosto che non per certezze, per sperimentazioni che nella curiosità affinano la confidenza con le piante, che il giardino ha è può avere piuttosto, in una dimensione locale e diffusa, un effetto trasformativo nella presa di coscienza che impone, dato che è un campo di prova e uno spazio di osservazione privilegiato dove si è parte di un percorso condiviso, che a saper ben guardare ci insegna a ottimizzare risorse, evitare sprechi. A patto di sottrarsi all’imperante schizofrenia che in giardino oscilla tra gli estremi dello stupire a tutti i costi con l’eclatante e l’inusuale e d’altra parte tutto sopire con l’asettico stereotipato dominio del decoro.

Così, col passo lieve dell’esperienza che ha appreso a non prendersi mai troppo sul serio, Pejrone analizza buone pratiche e cattive retoriche.

Dichiarando la sua diffidenza verso un diffuso “populismo botanico” che procede per slogan, in una moda che propone di moltiplicare in città il numero degli alberi purché sia, trattandoli come insieme indistinto, senza seguirli nel tempo, con il rischio di destinarli a una vita di stenti, evidenzia la contraddizione tra un fare sostenibile e migliorativo di quanto c’è (e con il riscaldamento si affaccia) e un uso estremo e velleitario del verde che, oltre a mettere le piante in condizioni difficoltose (spesso con spese colossali), non rinuncia a progetti dove l’uomo (e la tecnologia) è ancora troppo spesso soltanto arbitro e manipolatore.

La via è quella di assecondare i processi di “tropicalizzazione” guardando alla lezione del giardino secco del Meridione e alla parsimonia delle sue piante, con l’uso di componenti vive, come la ghiaia con la sua porosità di spessori e tonalità diverse e dei muri a secco, nonché con gli accorgimenti che consentano l’accoglienza della vita animale che del giardino è parte integrante.

Assieme all’invito a operare per contaminazioni sulle variazioni (anche contro la filologia esasperata nella ricostruzione di giardini antichi, in epoca di cambiamenti del clima, tenendo conto del diffondersi globalizzato di malattie e patogeni), si propone un catalogo raffinato di specie rustiche e frugali. Piante … da abbandono, come phlomis, salvie, santoline, teucri, ispirate alla prateria, come gaure e perowskie, prostrate e profumate della macchia mediterranea, dal mirto al ruvido rosmarino e, a gruppi, vinche e noccioli.

Un insieme di riproposizioni (le screziature dell’aucuba, i pelargoni e i malvoni) e nuove proposte – che significherà quindi nuove estetiche da sperimentare – per traghettare in un clima in rapido mutamento il giardino del contemporaneo.

Paolo Pejrone, I dubbi del giardiniere. Storie di slow gardening, a cura di Alberto Fusari, Einaudi, pp.176, € 17,00, recensito da Andrea Di Salvo su Il Manifesto di sabato 11 settembre 2021

Paesaggi delle nuvole

È l’altra metà del paesaggio (e del giardino), quel cielo che pressoché in ogni istante per un buon 70% è coperto di formazioni nuvolose. Componente costante, se soltanto si solleva lo sguardo, e come poche condizionante – perciò a lungo scrutata per trarne auspici metereologici e non solo, con relativo corollario di proverbi –, le nuvole sono però impalpabili e sfuggenti. Incessantemente mutevoli, in continuo, rapido movimento per gli influssi del vento e cangianti per l’illuminazione solare. Un ambiente complesso di cui merita distinguere, in un apposito lessico, forma e colore, struttura e dimensioni, organizzazione su in cielo, trasparenze.

È quanto ci propone nel suo Il libro delle nuvole. Manuale pratico e teorico per leggere il cielo, il Saggiatore, pp. 276, € 22,00 Vincenzo Levizzani, professore di fisica delle nubi che, secondo quota e spessore, ne illustra processo di formazione e stadi di evoluzione, forma e struttura interna. E caratteri di dettaglio, scie, riccioli, buchi, vortici, colonne.

Penetrando tra goccioline, cristalli e chicchi di grandine – la fisica delle nubi è parte integrante della fisica dell’atmosfera e della meteorologia –, Levizzani ripercorre i vari apporti a questi studi. Con Descartes e le prime sistematiche osservazioni dell’inglese Luke Howard fino all’oggi e a mostrare le interazioni dei processi atmosferici (e delle nubi) in rapporto ai cambiamenti climatici sulla spinta del riscaldamento globale in atto.

Senza dimenticare come le nubi siano sempre state scenario evocativo delle condizioni dell’animo e presenza costante nella storia dell’arte. Dalla loro rappresentazione schematica come sfondo al farsi più verosimili, con Piero della Francesca o nella Camera degli sposi di Andrea Mantegna, più naturali con Leonardo e Durer e poi protagoniste, con Giorgione de La tempesta. E via così, oltre le ascensioni del barocco, le osservazioni di vedutisti fiamminghi e veneziani e poi di Constable e Courbet, maestro della raffigurazione dell’attimo nuvoloso…

Vincenzo Levizzani, Il libro delle nuvole. Manuale pratico e teorico per leggere il cielo, il Saggiatore, pp. 276, € 22,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XI, 33, Supplemento de Il Manifesto del 5 settembre 2021

Gustave Courbet, Rocce nere a Trouville, 1865

Misteriose, immaginarie presenze vegetali

Al paradosso della “grande cecità” con cui abitiamo il quotidiano senza quasi avvederci del fitto viluppo di presenze vegetali che pure ci avvolge e consente la vita sulla terra, si accompagna, nelle nostre riflessioni e nel nostro immaginario, il sentire del reticolo pervasivo di interrelazioni che ad esse ci avvince. È una costante che negli ultimi anni sembra essersi fatta infestante. Nel moltiplicarsi di studi e anamnesi mitografiche, nei rispecchiamenti dei diversi linguaggi artistici, nella letteratura come nella cultura popolare e, in una circolarità trans mediale di generi, dalla fantascienza all’horror, alle serie tv, ai cartoni animati, ai videogiochi: come ben illustrava il repertorio dedicato ai Giardini del fantastico. Le meraviglie della botanica dal mito alla scienza in letteratura, cinema e fumetto, da Pier Luigi Gaspa e Giulio Giorello, Edizioni ETS (cfr. Il Manifesto del 3 dicembre 2017).

Oggi, seppure offuscata dalla superficiale voracità delle tante mode riflesse sui media, dove il verde delle piante figura come ubiqua salvifica metafora di una presunta idea di natura, una nuova, complessiva attenzione viene dedicata alle relazioni che legano, oltre l’umano, tutte le forme della rete del vivente in un continuum, proprio a partire dalle piante – e dai funghi. Relazioni indagate dalla neurobiologia come dall’antropologia culturale del Come pensano le foreste di Eduardo Kohn (Nottetempo) o de Il fungo alla fine del mondo di Anna Lowenhaupt Tsing (Keller editore), suggerendoci la contaminazione come forma di collaborazione o il “valore progettuale dell’imprevisto”, già nella lezione delle erbe vagabonde di Gilles Clément.

Con questo scenario, che con urgenza impone un radicale ripensamento del nostro spazio e ruolo di umani, si misura, sul versante letterario, tra consapevolezza e libertà espressiva, un’ardita operazione di ricerca come l’antologia istigata e messa a punto dalla Casa editrice Moscabianca, specializzata nella pubblicazione di testi di speculative fiction, dedicata a indagare in chiave fantastica le molte forme dei rapporti e la labilità e mutevolezza della soglia che associa umano e vegetale, dal realismo magico al new weird di ambientazione fantascientifica.

È su tali registri che tredici piante inesistenti vengono convocate da quattordici giovani penne in questo Hortus mirabilis. Storie di piante immaginarie, Moscabianca edizioni, pp. 384, € 18, 00. A inscenare, tra scarti di prospettive e ineffabili dialoghi interspecie, una poliglottica botanica delle relazioni.

Piante aliene che infestano di spore aspirazioni e sentimenti e di stoloni e viticci stazioni orbitali e interi ecosistemi con incommensurabili tessiture di tentacoli. Piante tramite, dove sdoppiarsi, essere abitati fino all’indistinzione e dove l’accudimento vale come lasciapassare o capaci per mimesi di superare in progenie le barriere dell’ibridazione tra regni. Piante assassine che rotolando riemergono da passati ancestrali o di cui non si vede la cima, e la fine, che ci impongono sanguinosi sacrifici, capaci altresì di accompagnarci a ritroso nell’uscita da mondi ormai bruciati.

Piante benefiche, dalle profumate foglie blu (ricorrente colore di gran lunga prediletto dagli umani) e radici aeree distribuite come a crescere dentro un quadro, capaci di guarire l’afasia. Simbionti duplicate che additano parallele, inattingibili maniere nuove di stare al mondo. Piante reincarnazione che nella cura degli umani si apparentano ai luoghi e per il tramite di taccuini, resoconti digitali, manuali di giardinaggio, moltiplicando i soggetti e oltrepassando le generazioni disvelano nel corso dei millenni la sincronica molteplicità dei punti di vista, le utopie radicali di tutto ritessere per non sprofondare, arazzi dove si incrociano le tante indistinzioni dei linguaggi del vivente.

E per ognuna d’esse, a parziale contravveleno dell’apparente irriducibile distanza morfologica ch’è nel nostro percepirle immobili e silenti, il ritratto, in tredici mirabili tavole di Gabriele Operti che, stravolgendo l’ansia classificatoria delle liturgie botaniche, esalta le loro inesistenze, dando forma patente a fisionomie e fisime caratteriali e assieme animando di metamorfiche psichedelìe strobili e rizomi, drupe e gemme, acheni, ventose, viticci.

Hortus mirabilis. Storie di piante immaginarie, Moscabianca edizioni, pp. 384, € 18, 00, recensito da Andrea Di Salvo su Il Manifesto di venerdì 6 agosto 2021

Peter Whollenben, istruzioni per l’uso del bosco

Nell’ambivalenza tra la fascinazione per quel che spesso ci figuriamo come l’ultimo sistema naturale intatto alle nostre latitudini e i timori atavici che il bosco suscita nel nostro immaginario, nella pratica di pur rade frequentazioni e scarsa dimestichezza, questo archetipo misura il nostro complesso rapporto con l’universo di quel continuum vegetale, animale, minerale di cui pur siamo costituiti e siamo compartecipi, sentendoci ancora troppo spesso esterni, usufruttuari.

Le istruzioni per l’uso del sottotitolo del volume che gli dedica Peter Whollenben, a lungo guardia forestale sui generis e divulgatore naturalista di successo (Il bosco. Istruzioni per l’uso, Garzanti, pp. 252, € 17,00), si pongono però a cavallo tra considerazioni operative sui sistemi forestali e parchi – che in Germania, dove fonda la sua esperienza, ma in generale in Europa, strutturano la presenza dei boschi –, con relative implicazioni etiche, e riguardose indicazioni pratiche su come frequentarli, riconoscendosene parte.

Assumono così la leggerezza di un disinvolto muoversi in coreografia le meticolose proposte cui attenersi per l’attraversamento di un ruscello, il camminare su un ripido pendio seguendo, sulla neve o sul fango, le impronte degli animali a rilevarne frequentazioni e andamento (il trotterellare, dalle orme allineate dei lupi). E, in dimensione estetica, le accortezze con cui procedere nell’imparare a distinguere il succedersi delle ore mattutine a partire dalla staffetta del canto degli uccelli, a ritmo con il cambiamento della luminosità.

O nel riconoscere le fisionomie degli alberi, in quell’esercizio demiurgico per antonomasia del nominarli, ascoltando il risalire dell’acqua nei tronchi, pompata in primavera verso gemme e foglie sotto la corteccia, impratichendosi ad apprezzarne la varietà delle posture che gli interessi di uno sfruttamento della moderna silvicoltura vorrebbero ridurre a crescita diritta, priva di torsioni e biforcature, considerando difetti inaccettabili l’assortimento di nodi, motivi a spirale, differenze di colorazione.

Dismesso per evidenti ragioni storiche ogni ideale di un bosco incontaminato, si stigmatizza come ormai da tempo si sia imposta la pratica prevalente di un bosco artificiale di sole conifere a sostituire le meno convenienti comunità di latifoglie. Un simulacro di foresta creato per la speculazione dove – dopo la diffusione delle motoseghe negli anni 50 e, con la fine degli anni 80, l’utilizzo di enormi macchine disboscatrici –, il suolo si compatta senza che possa più respirare e per tempi lunghissimi assorbire acqua e ospitare vita. Un paradossale deserto verde di monotoni filari di abeti rossi, pini, larici piantati ben al di là del loro areale di diffusione (il Nord e l’estremo Nord umido e freddo) e ad altitudini troppo basse che, complice anche il clima più secco e più caldo, presto saranno destinanti a scomparire.

Per arrivare, contro l’equivoco che lo sfruttamento delle foreste sia una forma di protezione ambientale, fino a criticare come un eccesso la gestione che finirebbe per trasformare un bosco in parco, come pure, sul filo di un rischioso ricorso al concetto di autoctono, una malintesa idea campionaria di biodiversità che concentra quante più specie possibile nello stesso posto

Tra inviti alla conduzione partecipata da parte di cittadini e comunità locali nella cura di questo bene comune, e l’evocazione a farci consapevoli di quella sorta di foresta lineare diffusa dove gli alberi ci accompagnano lungo chilometri di reti stradali e ferroviarie, attorno a centri abitati e nelle futuribili forestazioni urbane, non manca la suggestione, del diffondersi di esperienze paradossali in cui la protezione di vecchie foreste di latifoglie è passata per il loro volgersi anche in boschi funerari (affermatisi nell’Europa centrale ormai a centinaia). Luoghi di sepoltura dove, vietata ogni forma di manutenzione, presto non si possa più a distinguere il luogo in cui l’urna è stata sepolta. Salvo indicazioni discrete al piede dell’intoccabile, ormai, albero prescelto.

Peter Whollenben, Il bosco. Istruzioni per l’uso, Garzanti, pp. 252, € 17,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XI, 30, Supplemento de Il Manifesto del primo agosto 2021

Il giardino delle Sicilie

Immersa nel susseguirsi di storie, nature e paesaggi che hanno plasmato le sue molteplici, composite, cangianti diversità, tramite ed eco del loro irradiarsi per i numerosi mari che la incrociano, sta, perno nel Mediterraneo, la sua isola più grande.
Epitome del rincorrersi di quei molti Mediterranei, emerge con il suo frastagliarsi in tante Sicilie diverse, per altimetrie e morfologie, fisionomie, caratteri e predilezioni, come un aspro, delizioso, conturbante giardino che risulta di tante conviventi diversità in cammino.

Scuola maiorchina, Carta nautica del Mediterraneo, XVII secolo

Pure, tutte accomunate dalla lunga aridità estiva e, in una variabilità climatica di picchi estremi, nel girare del vento e della luce accecante, nell’inalberarsi dei profili di monti e scogliere, nel convergere e variare di paesaggi di rocce e gessi, grotte e vallate con quelli delle tradizioni e delle scienze agronomiche, nell’immobile ondeggiare di colline indorate dal grano come nel rigoglio dei margini dei giardini fruttiferi, nella varietà di spine, siepi e profumi come nell’incontro scontro di popoli, tradizioni, culture lungo il distendersi di chilometri di coste chiamate, oltre i confini e i conflitti, a mescolare e connettere, trasferire merci, idee e saperi.

Così, tra varietà e mutevolezza, nei contrasti e nella convivenza di diversità tra loro estreme, si costituisce l’identità plurale di quella Sicilia mediterranea che, come per l’accrescimento del tronco dell’olivo – suo rilevatore ecologico e costante contrassegno simbolico – per via del riprodursi continuo di gemme avventizie, procede negli anni e nei secoli, nella torsione di singolarità indistinguibili in successione.

A narrarci di queste commistioni di asprezze e consonanze, disegnando come in un portolano di approdi e cimenti una cartografia fitta di relazioni, debiti, incroci (e scontri), Giuseppe Barbera esplora ora le diverse tessere di quel mosaico che costituisce Il giardino mediterraneo. Storie e paesaggi da Omero all’Antropocene, (il Saggiatore, pp. 282, € 22,00, con un inserto fotografico di Margherita Bianca). Che sia la vicenda del paesaggio delle grotte e delle coste dello Zingaro, con la sua grande biodiversità di mille erbe effimere che prima del secco si affrettano ad andare a seme (finalmente protetta con l’istituzione della Riserva), o quella della varietà e dell’ininterrotta produzione del “giardino mediterraneo” per antonomasia dell’antica Alesa, sulle coste del Tirreno, di Maredolce o dei recuperati giardini fruttiferi della Kolymbethra nella Valle dei Templi.

Da appassionato scrutatore di paesaggi e scrittore facondo di colture arboree – e delle culture che le ospitano e se ne nutrono –, Barbera inanella considerazioni esito di molteplici lenti e curiosità in un’ininterrotta interrogazione di testimonianze convocate a moltiplicare e collegare, oltre le occasioni e i tempi, punti di vista e linguaggi: dagli echi dell’Odissea alle testimonianze di Diodoro Siculo, dalle indicazioni di Plinio ai bagliori accesi nel verso dei poeti siciliani in lingua araba, dalle visioni evocate da scritti e disegni dei viaggiatori del Grand Tour al realismo ottocentesco dei popolari dipinti del palermitano, “ladro del sole”, Francesco Lojacono. E poi via, Pirandello, Quasimodo, Sciascia, ma anche il Goethe del paradossale “deserto di fecondità” delle colline interne nei pressi di Caltanissetta, il Bernard Berenson dell’apparizione dell’Etna, il Cesare Brandi, che del paesaggio pantesco scrive come di un lavoro “fissato con un’opera più di giardinaggio che di agricoltura”.

Con un’evidenza flagrante, le diverse geografie dei luoghi – rilette all’indietro, fin dalla loro più remota evoluzione geologica – si tengono insieme così, nel giardino del Mediterraneo, con le storie della loro continua riscrittura, nel mutare nella percezione dello sguardo interiore che li coglie, fino all’oggi. Tra paesaggi a terrazza e latifondi senza orizzonti della Sicilia interna, bianche fioriture di mandorli sullo sfondo della Valle dei Templi e coltivazioni in interstizio tra la lava dell’Etna o nelle pantesche torri di pietra attorno al giardino ch’è lì ogni singolo agrume. Ma, anche, tra la selva di raffinerie presso coste cementificate e gli sfregi del sacco edilizio, lo stridere di migrazioni e squilibri ambientali con cui misurarsi, nella lezione appresa, in rinnovati paesaggi futuri.

Giuseppe Barbera, Il giardino mediterraneo. Storie e paesaggi da Omero all’Antropocene, il Saggiatore, pp. 282, € 22,00, con un inserto fotografico di Margherita Bianca, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XI, 29, Supplemento de Il Manifesto del 25 luglio 2021

Orti botanici presidio di biodiversità

Nella collana de il Mulino Ritrovare l’Italia, che di volta in volta ci invita ad andar per abbazie, città sepolte, caffè storici (ma anche per luoghi di confino, o … del ’68), è ora il turno per restituire la mappa del patrimonio delle diverse decine di quei condensati di incanto e scienza, memorie e avventure, innesco e disseminazione di conoscenze nelle relazioni tra uomini e piante che sono gli orti botanici.

Nati in stretta connessione con le università, come luoghi di supporto alle professioni mediche dove ospitare e conoscere dal vivo le specie vegetali utilizzate nella farmacopea, con l’affermarsi della botanica come scienza a sé diventano assieme strumento di supporto al rinnovato anelito classificatorio del vivente e custodi del bottino delle spedizioni e delle scoperte dei cacciatori di piante nei nuovi continenti tra XVI e XIX secolo, sempre all’incrocio di una complessiva acclimatazione di costumi (ornamentali) e usi (materiali) delle piante nel quadro di un articolato gioco di interessi economici e geopolitici per l’utilizzo delle specie “utili”.

Motivo spesso di prestigio e di vanto per istituzioni e comunità promotrici, per quanto sempre a rischio in un’esistenza che viaggia tra trasferimenti, abbandoni e ristrutturazioni, gli orti botanici punteggiano orami da secoli la vita delle nostre città e ne accompagnano la vicenda. Almeno a partire da quando, nel 1545, viene inaugurato l’orto botanico di Padova, il più antico del mondo ancora nel suo luogo di fondazione (altrimenti, Pisa poco prima). Ancor più, dal momento delle prime aperture al pubblico e in osmosi con il territorio del quale spesso illustrano flora e endemismi.

Nel suo impianto descrittivo, Andare per orti botanici, per la penna di Manlio Speciale, botanico e curatore di quello di Palermo e Alessandra Viola, sempre intrigante divulgatrice scientifica (pp. 145, € 12,00), si presenta, come una guida efficace che di questa vicenda illustra ragioni condivise e singolarità da non perdere.

Oltre l’elenco delle specie e delle collezioni custodite, gli esemplari rilevanti per rarità ed età, le testimonianze di visitatori illustri, la lezione estetica, seppur nel travestimento della sistematica, si ripercorrono protagonismi (umani e vegetali) ed episodi salienti. Evidenziando come per ciascuno di questi poliformi protagonisti dalle molte funzioni – sperimentatori e divulgatori di ordinati saperi e nuove estetiche (assieme laboratorio, aula, museo vivente) –, si aggiunga, a fronte delle sempre maggiori urgenze della crisi ecologica, il ruolo sostanziale di presidio di biodiversità.

Manlio Speciale, botanico e Alessandra Viola Andare per orti botanici, il Mulino, Ritrovare l’Italia, pp. 145, € 12,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XI, 28, Supplemento de Il Manifesto dell’18 luglio 2021

Tutto è foglia

Nel loro inafferrabile polimorfismo le foglie sono ovunque sulla terra elemento pervasivo. Matrici di vita, non foss’altro che per la loro capacità di assicurare la fotosintesi. Da quelle dell’acanto, maestose fino a ispirare i fregi dei capitelli corinzi a quelle delle felci, dapprima circinnate e che si srotolano poi, per pinne e pinnule, assieme al pastorale, da quelle a sei lobi a forma di ombrello del Podophyllum, alla verticalità degli equiseti, fino agli oltre tre metri di larghezza di quelle della Gunnera manicata.

“Tutto è foglia” diceva Goethe riferendosi a quel concentrato modulare di capacità plastico funzionali e alle correlate estrinsecazioni estetiche. E lavarietà di attributi che fin dal nome qualificano gli individui vegetali tramite il richiamo alle loro foglie ci dice del rilievo che questo elemento assume come loro tratto distintivo. Oltre il gioco dei nomi, che procedono spesso per travestimenti, analogie e somiglianze – da acerifolius a rosmarinifolius, quando si tratta invece di ben altri soggetti –, nella classificazione binomia è spesso indicato proprio il richiamo alle loro forme, dimensioni, cromatismi, tessiture, variegature (cordifolia, alba, aurea, capilliformis, maculata, picta, marmorata).

E se di volta in volta queste diverse caratteristiche sono espressione di adattamenti funzionali al contesto ecologico prediletto in natura, in giardino – con questa consapevolezza – possono essere occasione d’ispirazione: soluzioni compositive come su una tastiera dove, oltre le stagioni delle fioriture, procedere per accostamenti, affinità, contrasti.

Giardini di foglie è, per la Libreria della natura (pp. 402, € 30,00), la proposta a cura di Laura Pirovano di una riflessione complessiva e una puntuale rassegna illustrata sul mondo delle piante da foglia. Suddivise per forma e colore e corredate da note colturali e d’uso, ma all’interno di un corale incrociarsi di punti di vista, spunti e suggestioni, tra anatomia botanica e collezionismi, indicazioni di sperimentatori, vivaisti e paesaggisti. Con annessa selezione di ricette dove lo chef Michele Maino ci invita a mangiare la foglia esplorandone i più imprevisti usi culinari.

Giardini di foglie a cura di Laura Pirovano, Libreria della natura, pp. 402, € 30,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XI, 27, Supplemento de Il Manifesto dell’11 luglio 2021

Giardini paesaggio. Con le spine

Se collezionare piante significa sempre anche un po’ accumulare paesaggi e reinventare mondi, collezionarle “con le spine” vale a evocare le condizioni spesso estreme degli habitat dove solitamente si trovano a vivere in natura fieri protagonisti vegetali come agavi e opunzie, lithops, ferocactus, mammillarie. Si tratta di solitudini riarse, deserte distese ininterrotte, ritmate soltanto dalla verticalità di monoliti spinosi, dall’inciampo di vegetali che a terra mimano pietre, dalla soggezione che aggressivi incutono gli aculei che li ricoprono, dal disporsi a corona dei frutti sulle loro sommità, dopo l’improvviso rapimento di incongrui fiori annuali che, appariscenti, ci adescano dal nulla.

Capita così che a furia di trapianti e innesti dagli altopiani africani, o del nord o sud America, queste acuminate formazioni colonnari o a rosetta, figure ispirate, forme primarie che paiono scolpite in un limbo a cavallo tra i regni, minerale, vegetale e animale assieme , finiscano per disporsi custodite in conchiuse oasi artificiali: giardini ma del tutto particolari.

E se le attestazioni dell’avvicendarsi di storie e piante son davvero frequenti tra gli appassionati, scrittori e coltivatori dei giardini più consueti, quelli di ombrosi, morbidi fogliami e rigogliosi rincorrersi di fioriture, rare sono invece per quelli di spine, da parte della particolare congrega dei loro curatori – perlopiù schivi, a imitazione della predilezione per piante tutte concentrate a lottare per la sopravvivenza. Rare le confessioni della vicenda che tra storie di scoperte botaniche e incontri con individui vegetali con cui si intesse poi un rapporto d’elezione che dura negli anni della vita, li ha portati a ricreare, in un’analogia con paesaggi interiori temprati dalla confidenza con l’austerità dei sensi e della mente , questi singolari mondi in miniatura.

È il caso del medico e pittore, collezionista e giardiniere autodidatta Agostino Muratori, narratore capace di evocare, per archi progettuali, succedersi di stagioni e trascorrere delle ore del giorno, il divenire e gli snodi del farsi e disfarsi del suo giardino di Anzio, che va ben oltre la collezione e la sola Collezione di spine del titolo del volume dove racconta le sue Storie di un giardino (Bompiani, pp. 165, € 17,00).

Assecondando una tendenza alla miniaturizzazione, qui si procede per quadri e microhabitat. Oltre le spine delle succulente e i drenaggi con cui amministrarne con parsimonia la sete, c’è la zona delle piante tropicali e subtropicali , e, con grande varietà di datteri, le palme esotiche che si carezzano a vicenda, il viale maturo di olmi, bagolari, querce, pini e ginepri, l’eco delle paludi delle Everglades con il ricadere degli aghi del cipresso calvo. A costeggiare il laghetto, poi, l’angolo del Giappone dove collocare in equilibrio un giardino di bonsai, isolati su sfondo neutro per non mortificarne le potenzialità illusionistiche nella confusione prospettica e, ancora, gli angoli bui, luoghi segreti e ritrosi dove alberga, sempre soltanto intravisto, il genius loci. E il vecchio susino esausto che, misurandoci, sembra imbalsamato, assieme ai cento tronchi delle cycas – tra sudafricane (Encephalartos), messicane, australiane (macrozamie e zamie), disseminate per raccordare le varie zone del giardino: piante ancestrali, totemiche testimoni immutate dal giurassico, più vicine alle conifere che alle palme di cui a prima vista sembrerebbero le progenitrici.

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Panzini. Fenomenologia degli orti urbani

Il fenomeno degli orti urbani su cui spesso si scrive e dibatte con l’approssimazione indotta forse dalla multiforme varietà del loro diverso, volta a volta, precipitare in campo e nelle realtà sociali, ricombinando e reinventandosi ogni volta in utilizzi e forme diverse, meritava da tempo di essere messo a fuoco e contestualizzato.
Ne ripercorre ora finalmente la genealogia e l’enuclearsi dei tratti distintivi sui piani più diversi della storia sociale, economica e del costume Franco Panzini nel suo Coltivare la città. Storia sociale dell’agricoltura urbana nel XX secolo, per la collana Habitus di DeriveApprodi, pp. 218, € 16,00.

Con l’affilata sensibilità che da paesaggista interpola saperi e discipline, capace di interrogare un ampio spettro di fonti – che si riverberano anche nel ricco corredo documentario di progetti, fotografie, manifesti, vignette di fumetti, opuscoli – Panzini indaga questo snodo essenziale dell’interazione, sempre stretta e travagliata, tra città minerale e coltivazione di suoli, tra pratiche e immaginari che si disvelano in questi particolari spazi atmosferici spesso occasione di condivisione, connettori di relazioni, cibo, bisogni, aspirazioni.


Batman, Robin e Superman coltivano un Victory Garden, copertina del giornale a fumetti «World’s Finest Comics», n.11, settembre 1943
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