Due processi che ci riguardano tutti, intimamente e socialmente, si avvitano in una spirale con esiti moltiplicati. Con l’incedere della crisi climatica, la distruzione degli habitat naturali e l’impoverimento dei paesaggi in gran parte imputabili al modello economico estrattivo del nostro antropocentrico abitare il mondo, è proprio il mondo naturale che sta rapidamente subendo gravi danni. E al tempo stesso noi umani ce ne stiamo sempre più marcatamente distaccando.
Vittime di un’amnesia collettiva di specie su quanto la relazione con la natura sia costitutiva della nostra storia evolutiva almeno come il comportamento sociale, perseveriamo con i nostri stili di vita sedentari, sterilizzati, rinchiusi in ambienti artificiali tanto che i bambini godono ormai dell’ora d’aria quanto coloro che son privati della libertà, separati dalle altre specie, dipendenti dalle tecnologie che mediano la maggior parte delle nostre esperienze.
Rifuggendo dalla tentazione, tutta inevitabilmente antropocentrica, del ripercorrere per analogie presunte affinità tra il mondo delle formiche – sulla terra da almeno cento milioni di anni ed evolutesi poi fino a un mirabile grado di organizzazione sociale – e il nostro umano, tutto sommato recente, affaccendarci in comunità, tra individualità e gruppo, altruismo e egoismo, nel loro Minimi giganti Susanne Foitzik e Olaf Fritsche ci introducono alla vita segreta delle formiche (Aboca, pp. 254, € 22,00). Illustrandone con penna leggera e sfacciata indiscrezione stili di vita e organizzazione in caste, associazioni in colonie – da (relativamente) pochi individui fino a costituire megalopoli da 2-3 milioni di individui, con migliaia di camere, percorsi, sistemi di aereazione, infrastrutture diversificate per utilizzi –, modalità di riproduzione e comunicazione, comportamenti e malattie che possono colpirle e la farmacopea che può derivarne ed ispirarci.
Come in un ideale portolano, gli orti botanici figurano tra gli approdi più sicuri in quel fitto dipanarsi di relazioni tra umani e piante che per loro tramite ci accompagna fin dalla metà del Cinquecento.
Centri di acclimatazione, smistamento e irradiazione, oltreché di piante, del diffondersi di idee, conoscenze e innovazioni, tra estetica, interessi economici, giochi del potere, quelli raccontati per immagini dal volume fotografico di Cristina Archinto, Orti botanici d’Europa. Un viaggio tra storia, scienza e natura, con testi di Alessandra Valentinelli, Terrimago edition, pp. 144, € 26.00, esemplificano della varietà di caratteri e funzioni assolte. Padova, Amsterdam, Parigi, Madrid, Roma, Kew Garden presso Londra, Berlino, Hambury, Bruxelles, Dublino sono volta a volta, fin dagli impianti originali, agli ampliamenti, all’incessante opera di rinnovamento di spazi e criteri, supporto allo studio dal vivo di piante medicinali, poi esotiche, alimentari e ornamentali; centro di osservazione, confronto – in terra o in serra – e classificazione per via di affinità, tassonomie, funzioni, provenienze; custodi di intere collezioni, oltreché di soggetti vivi (gli horti vivi), di horti sicci e picti – dagli erbari alle raccolte di semi, radici, cortecce, alla documentazione per via di ritratti floreali l’Atlante Moninckxad Amsterdam o il padiglione specialmente realizzato a fine 800 a Kew Garden per ospitare la pinacoteca botanica di 832 dipinti che, disposti con un originale criterio espositivo geografico, illustrano più di 900 tipi di piante e fiori raffigurati nel corso dei suoi viaggi da Marianne North e ritratti nel loro contesto naturale); evocatori, con funzione di divulgazione e studio, dell’evoluzione di ecosistemi e di interi ambienti volti a riprodurre associazioni naturalistiche, ricreare microclimi (il giardino alpino a Parigi), promuovere e farsi custodi di biodiversità.
Di là dalle mode più recenti, il variegato e diffuso fenomeno degli orti urbani denota un forte potenziale paesaggistico, specialmente se indagato alla grande scala, metropolitana e oltre. Rivelandosi a un tempo strumento di lettura e occasione di sperimentazione proprio per il suo accompagnarsi al processo di espansione e risacca che incrocia, spesso oltre i confini amministrativi, periferie e conurbazioni del territorio, infrastrutture di collegamento, vie d’acqua, spazi incerti delle campagne urbane, nonché tutta la serie di usi sociali e pratiche abitative e di vita che vi si dispiegano.
E, proprio incrociando la dimensione territoriale estesa con l’osservazione da presso della specifica realtà di singolari orti e ortisti muove lo studio promosso da Italia Nostra e dal Centro per la Forestazione Urbana Boscoincittà dedicato da Mario Cucchi, Daniela Gambino, Antonio Longo e altri a La città degli orti. Coltivare e costruire socialità nei piccoli spazi verdi della Grande Milano, Quodlibet, pp. 204 € 28,00.
Propriamente intesi alla produzione e al sostentamento alimentare o colonie di recinti destinate a ospitare molteplici, eterogenee pratiche d’uso, spontanei o disegnati, pianificati o irregolari, differenti per tipologie, dimensioni, coltivazione e gestione, gli orti figurano comunque come elemento connettivo nella fitta trama di opportunità e contraddizioni e nella fluida compresenza e permeabilità di usi e funzioni che sprigionano: spesso in aree degradate e marginali, sul crinale tra precarietà e abbandono, accoglienza e cura, risultano occasioni di recupero e rigenerazione, di socialità che incrocia un’utenza variabile, dalla prevalente presenza maschile di anziani a bassa scolarizzazione a miscele di popolazioni differenti per provenienza, età, culture.
Opportunamente sgombrato il campo dall’equivoco per cui non si tratta più tanto di salvare la natura o il sistema vivente Terra, emerge chiaramente come occorra invece riattivare – nel senso dell’averne cura collettiva – quell’ambiente dell’uomo che nel territorio, in una continua sovrascrittura di tracce e configurazioni fisiche, culturali, immateriali, si è andato ciclicamente rigenerando rendendolo vivente patrimonio collettivo di città, paesaggi, infrastrutture, modelli, saperi contestuali. Specialmente se quel sistema in equilibrio di relazioni coevolutive fra abitanti e ambiente abitato si è ormai seriamente ingrippato con l’affermarsi della civiltà delle macchine, del fordismo, con la crescita smisurata delle megacities, con la concentrazione ipertecnologica dei poteri e l’urbanizzazione globale del pianeta, con la polverizzazione di habitat interscambiabili, omologanti, esito di una mercificazione estrattiva, del dominio delle leggi economiche e finanziarie.
Argomenta con ricchezza d’analisi la diagnosi, prospettando una radicale cura alternativa Alberto Magnaghi nel suo Il principio territoriale, Bollati Boringhieri, pp. 328, € 30,00. Dove riconsidera il lavoro di una vita, e assieme quello della scuola dei territorialisti, per articolare fasi e processi di una ipotesi di nuova civilizzazione che abbia il suo centro nel territorio come patrimonio di beni comuni, materiali e immateriali.
Per paradosso distrattamente onnipresenti come alimenti nei mercati e sulle tavole, ridotte a fondali nelle nostre proiezioni dell’altrove nelle mitologie e nel viaggio, surrogato dell’esperienza di natura, ornamenti dei paesaggi ricreati nei giardini, le piante invece, se osservate da presso, in situ o nelle pagine illustrate, sanno catalizzare un’attenzione primordiale, trasversale al punto da innescare, nel disegno delle minuscole spore nascoste come nei panorami di interi ecosistemi da esse determinati, una visione del mondo patente eppure ogni momento inedita, illuminata di trasmutazioni, eterogeneità, interrelazioni.
Proprio a partire dalle sontuose illustrazioni di Lucille Clerc che si vogliono a un tempo documento e evocazione, è a questo soffermarsi distinguendo e misurando le infinite varietà di caratteri e forme, colori e profumi, soluzioni evolutive suggerite dalle piante, a questo affilarsi dell’attenzione, a questo tipo di percorso conoscitivo, di viaggio botanico ordinato dall’origine per continenti – e continuamente rimescolato dalle loro migrazioni, dagli usi e dal riverbero nei processi culturali – che ci invita Jonathan Drori nel suo, Il giro del mondo in 80 piante, Ippocampo, pp. 216, € 19,90.
Che i labirinti, tralasciando quelli immaginari, fatti di citazioni, teorie di stanze, intrichi di lettere e memorie, siano, specialmente nella loro declinazione vegetale, un universale che pervade epoche e culture lo dimostra, ancora oggi, la loro fisica presenza e diffusione trasversale.
Simbolo archetipico, fin dalle incisioni rupestri, dell’incertezza e dello smarrimento della condizione umana in relazione al mondo, strumento di rivelazione del divino, dalle primitive raffigurazioni circolari monocursali al modello geometrico quadrato a sette involuzioni, dalla funzione funeraria in epoca romana a quella penitenziale che dai mosaici policromi li vede trasferirsi in percorsi percorribili nelle cattedrali gotiche, e già strumento magico tra cristianesimo e leggende pagane nei labirinti di erbe e pietre, con l’umanesimo si fanno poi modello ornamentale, dedalo, simbolo di potere e ricchezza, con fine ludico, amoroso, filosofico, esoterico, conoscitivo. Impreziositi, tra volute e snodi vegetali, di meridiane, statue, torri panoramiche, giochi prospettici, ma poi anche passeggi romantici con inizio 800, di nuovo, dopo molte demolizioni e abbandoni, saranno oggetto di ricostruzioni ed entusiasmi da parte dei ceti medi. E, dal secondo dopoguerra, protagonisti di un ulteriore rinascimento, di sperimentazioni di forme e materiali, che li vede diffondersi fino ai nostri giorni nei più diversi contesti e latitudini, entroparchi a tema, scuole, aziende, zoo, resort, aeroporti, memoriali; sul litorale atlantico dell’Argentina come in Alaska o in Australia, esportati, come già prima complice il fenomeno del colonialismo in Africa, America, Asia, ora per ogni dove nel rimpallarsi di mode tra stilemi omologanti e locali reinterpretazioni di modelli.
Nel suo Labirinti vegetali. La guida completa alle architetture verdi dei cinque continenti, Pendragon, pp. 247, € 25,00, Ettore Selli ripercorre ora in rassegna 188 di questi dispositivi catalizzatori a un tempo del timore di perdersi e dell’ingaggio nella sfida della scelta a ogni bivio di una meta che ci sfugge, illustrando (su un censimento di 420 complessivi) con singole schede di dettaglio molteplicità di disegni, complessità di tracciati singolarità e rilevanze storica e artistica. Volta a volta recensendo il variare delle forme, da quelle di base a incroci di maggiore complessità, organiche (piedi, mani, cuori), ispirate a animali (cigni, buoi, cicale, tartarughe, cervi, serpenti) e simboli nascosti nel disegno come quelli runici, punti interrogativi, chiavi di violino, stelle, interi paesaggi astrali; schemi architettonici, stratagemmi progettuali (come la regola della lettura, che considera la tendenziale – in occidente – predilezione della direzione di lettura, verso destra, indicazioni volutamente errate, vicoli ciechi, corti circuiti, cancelli mobili che consentono di trasformare il tracciato, vortici a scelta multipla, come a Longleat in Gran Bretagna); diverse tipologie di specie vegetali impiegate per realizzare le pareti verdi, da quelle classiche come carpino, bosso, tasso, tuia, differenziate in funzione dei climi e per le sfumature di colore del fogliame (differenti varietà di tasso, verde smeraldo e dorate, come nel Music Maze nei pressi di Cambridge) a quelle più diverse, edera arrampicata, rose, azalee, vite, lavanda cactus (in Costarica), bambù, dall’uso raro degli alberi da frutto ai labirinti su scala paesaggistica, fatti di alberi, come quello composto di 50.000 abeti in Danimarca, sull’isola di Samsø, o ospitato all’interno del bosco, di per sé “labirinto naturale”, nel castello di Gabiano in Monferrato.
Tra borghi e paesaggi, parchi, palazzi, fonti, abbazie e panorami, archeologie e giardini procede con passo di danza allungato in passeggiata l’esplorazione di quanto di intrigante ricade nell’area ritagliata allontanandosi a compasso da Roma … non oltre i 60 chilometri.
Fuori dai prevedibili binari di un modo solito di guardare alla conservalorizzazione dei patrimoni del territorio, ci invitano in questo gioco in progressione, come in una sorta di mandala con vizio centrifugo, Ida Tonini e Marta Salimei nel loro Toccata e fuga. Borghi e giardini nel paesaggio laziale, Palombi Editori, pp. 193, € 15,00.
Dopo averci accompagnato in Adagio per giardini per inusuali epifanie alla scoperta in città di giardini, corti, orti, chiostri e ninfei e poi subito oltre, in Andante tra le mura, eccole ora esplorare in rondò con il pedale steso sul registro del paesaggio le tante diversità di una regione crocevia di morfologie e biodiversità, ecosistemi e stratificazioni in palinsesto di vicende e culture, dove i sincretismi, tra classicità, cristianesimo, rinascimenti e via, le specificità e i contesti, anche minori, d’un tratto si riassociano, come personificati in quadri d’insieme.
Episodi da sfogliare nel succedersi di mode e consuetudini sociali, distillarsi del gusto, nuovi utilizzi. Sezioni geologiche e restituzioni stratigrafiche di aspirazioni di potere, allegorie. Affacci da Grand Tour, panorami che si colgono dall’alto, tracce e indizi disseminati in rovine, incastellamenti, abbandoni, riconversioni di fortilizi in giardini e residenze di piacere, paesaggi dipinti in gioco di reciproci rispecchiamenti.
Nove scenari-itinerari di questa lieve, festosa paideia al saper guardare, all’apprezzamento.
Dove certo non mancano i giardini – da quelli formali delle note ville a corona, a quelli dei maestri del 900 come dei raffinati giardinieri dell’oggi che increspano di tessiture e colori le geometrie sottese del paesaggio, dalle collezioni di rose al micro orto botanico sorto sul travertino di risulta delle cave, variopinte presenze floreali compagne degli onnipresenti resti e monumenti.
Ida Tonini e Marta Salimei, Toccata e fuga. Borghi e giardini nel paesaggio laziale, Palombi Editori, pp. 193, € 15,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica X, 48, Supplemento de Il Manifesto del 6 dicembre 2020
È alla ricerca delle tracce di quella fitta trama di corrispondenze e relazioni che gli alberi disegnano fin nei recessi del pianeta e nelle radure del nostro immaginario che muove l’impresa di Jacques Brosse, eclettica figura di naturalista e storico delle religioni, maestro zen e enciclopedista trasversale, nel suo Storie e leggende degli alberi, traduzione di Anna Zanetello, ora riproposto da Edizioni Studio Tesi, pp. 254, € 19,00.
Intesa a restituirne tessere in risonanza in una rassegna di caratteri, usi e simboli che procede in alfabeto di ritratti di un intuìto sistema d’insieme. Ripercorrendo tra epoche e continenti i tragitti dei diversi alberi in nostra compagnia, risalendone le tracce per etimologie, vernacoli, derivazioni lessicali, forme intermedie, accostamenti, assimilazioni, dalle figurazioni mitologiche all’araldica, dai culti al folclore, evidenziando epifanie, evoluzioni in parallelo, passaggi di testimone dalle più antiche credenze alle nuove religioni e a contrappunto evocando nella cultura materiale, alimentare, farmacologica, come nell’evoluzione delle tecniche le testimonianze dei loro diversi utilizzi e assieme delle citazioni disseminate
dalla presenza e dal rilievo degli alberi nei toponimi come nella letteratura (dall’odore ronzante dei biancospini di Proust al gelso nero di Piramo e Tisbe nelle Metamorfosi di Ovidio).
In un rispecchiamento dove i tratti della fisionomia – volta a volta mirabilmente evocata nel colore, portamento, drappeggio, nei singoli individui come nel loro modo di farsi commensali tra specie, di addensarsi nei boschi o infittirsi a schiera lungo argini di fiumi e passeggiate cittadine – vanno assieme alla ricognizione di quegli universali – verticalità e simmetria della connessione cielo terra, rigenerazione della vita oltre la morte, inconoscibilità apparente e a un tempo evidenza rivelata dell’amigdala (del mandorlo), proibizione rituale del frutto, duplicità delle piante spinose, funzione salvifica di talismano e assieme mediazione con le più temibili potenze avverse – che in tante, differenti culture e religioni gli alberi hanno costantemente finito per simboleggiare.
Jacques Brosse, Storie e leggende degli alberi, traduzione di Anna Zanetello, Edizioni Studio Tesi, pp. 254, € 19,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica X, 46, Supplemento de Il Manifesto del 22 novembre 2020
Sospinte fra i diversi continenti, perlopiù per interposta, umana passione o interesse, e per il tramite di avventurosi botanici che tra XVII e XX secolo si fanno veicolo della loro scoperta, identificazione e quantomeno metaforica ridisseminazione, le piante ci affascinano per il loro viaggiare intorno al globo. E, come in un corale romanzo d’appendice, l’inesauribile filone che si ispira a questi resoconti di viaggio si arricchisce di ulteriori puntate. In questo caso, con il racconto di dieci storie, per dieci piante e dieci predilezioni di botanici sul campo, messe in fila da Katia Astafieff, dell’orto botanico di Nancy, nel suoLe incredibili avventure delle piante viaggiatrici, prefazione di Francis Hallé, traduzione di Sara Prencipe, Addeditore, pp. 200, € 16,00.
Dalla vicenda principe della Camellia sinensis, sottratta in Cina per conto degli inglesi a opera del botanico spia Robert Fortune a metà dell’Ottocento sullo sfondo della guerra dell’oppio, per coltivarla in India e imporre così un nuovo ordine commerciale (dalle sue foglie si ottiene il tè), a quelle più eccentriche del rabarbaro dalle grandi, appariscenti foglie amate dal naturalista Simon Pallas, nonché della specie canadese del ben altrimenti noto, e apprezzato in tutto l’Oriente, gingseng. Dal caso del fiore più grande del mondo, la Rafflesia arnoldii a quello dell’albero più alto, la sequoia, “scoperta” in nord America dalloscozzese Archibald Menzies, e oggetto tra i primi di campagne d’opinione per la salvaguardia. Passando per piante in grado di segnare intere culture ed epoche, dal tabacco alla Hevea, l’albero che piange e dal cui lattice si estrae la gomma naturale o caucciù.
E via così, in prospettiva inevitabilmente eurocentrica, con qualche ammiccamento e digressione di troppo. In una sorta di accelerata retrospettiva etnobotanica che di tante piante diverse, spesso venute da lontano (qui, prevalentemente dalle Americhe e dall’Oriente), ripercorre usi e apprezzamenti. Nei diversi contesti sociali, dai luoghi d’origine fino alle nostre latitudini, anche culturali, e ai nostri tempi.
Katia Astafieff, Le incredibili avventure delle piante viaggiatrici, prefazione di Francis Hallé, traduzione di Sara Prencipe, Addeditore, pp. 200, € 16,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica X, 45, Supplemento de Il Manifesto del 15 novembre 2020
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