L’Atlante del paesaggio di Michael Jacob

Facendo perno sul concetto chiave di paesaggio, irriducibile e polisemica definizione di campo che sotto il segno della dimensione estetica si costituisce attraverso il nostro lo sguardo (corporeo) come ritaglio di natura, e che assieme opera però praticamente a cavallo di ambiti e scale di intervento e all’intersezione di saperi, Michael Jakob, docente, saggista, curatore di mostre, torna a distillare le sue riflessioni su L’architettura del paesaggio (Silvana editoriale, Mendrisio Academy Press, pp. 48, € 10.00).

Procedendo a evidenziar paradossi su come il paesaggio s’imponga come esperienza per la sua qualità folgorante, tanto quanto incondivisibile (l’incomunicabilità evocata dalle figure di spalle delle tele di Caspar David Friedrich), su come il paesaggio sussuma a un tempo eventi mentali ed artefatti, sia reazione radicalmente individuale eppure quanto collettiva nei modelli culturali che la originano, Jakob introduce qui la proposta di un Atlante critico che descriva e interpreti le opere realizzate durante la, tutto sommato, breve vita della disciplina (almeno a farla partire dal paesaggista moderno Frederick Law Olmsted con il suo fondativo Central Park).

Per tappe infinite di riformulazioni e ritocchi, in un crescendo che – come il progetto (che pensa l’insieme in termini processuali) e l’insegnamento teorico – non arriva mai, la forma Atlante, proprio nella sua incompiutezza strutturale, consente di avanzare elaborando conoscenze per via di composizione critica di oggetti. In un corpus che, all’insegna della differenza piuttosto che non dell’identità, possa ibridare il modello produttivistico dell’architettura e le logiche ricettive di una trasversale prospettiva paesaggistica. Nella misura breve delle Quarantotto pagine che intitolano la collana, un catalogo ragionato necessario per dar conto di una storia non ancora scritta, di cui si lascia intravedere l’andamento nella ventina di progetti inanellati nelle immagini delle tavole a corredo.

Michael Jakob, L’architettura del paesaggio, Silvana editoriale, Mendrisio Academy Press, pp. 48, € 10.00,  recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica X, 44, Supplemento de Il Manifesto dell’8 novembre 2020

Contaminazioni gesuite nel giardino cinese

Tra godibili digressioni erudite e complesse vicende di debiti e attribuzioni, ma con l’oriente sempre attento a cogliere e illustrare gli snodi rilevanti della non proprio risaputa storia delle relazioni tra giardino orientale e occidentale, tra Cina e Europa, muove la penna di un maestro come Luigi Zangheri conducendoci, da osservatori privilegiati, Nel Giardino cinese della Luminosità Perfetta (Yuan Ming Yuan), Olschki, pp. 234, € 38.00.

Facendo perno sul regno dell’imperatore Qianlong, che dal 1735 a fine secolo segna l’apogeo della dinastia Qing, e sulla sua figura di poeta e pittore, calligrafo e mecenate, accorto nell’uso politico della cultura e attento alla ricezione della sua immagine, raffinato collezionista e, oltre che stratega militare e protettore delle religioni tradizionali, costruttore di giardini e palazzi, Zangheri esplora la trama di scritti e testimonianze iconografiche sui giardini cinesi, pervenutici da parte delle poche figure europee attive in quella fase nel rarefatto sistema di relazioni con la Cina regolato dall’impervia etichetta di corte.

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Il bosco processuale di Hansjörg Küster

Come quella dei paesaggi dei quali è componente fondativa, imprescindibile, l’identità del bosco promana dall’esser parte di processi in continuo, ininterrotto divenire.

Ecosistema dinamico e tutt’altro che immutabile, assoluto – come talvolta mitologizzato nell’endiadi di bosco naturale – in interazione pressoché continua con l’agire sempre più invadente dell’uomo che nei millenni l’ha modellato e coltivato, il bosco figura dal punto di vista della biologia, come pure delle proiezioni dell’immaginario, essenza stessa della molteplicità, fisionomia composita, fatta piuttosto che di individui, del trascolorare progressivo di margini e gradienti.

Ridisponendo i tasselli del gioco delle intersezioni tra natura e paesaggio culturale, incrociando fonti diverse, dalla storia della vegetazione alla paleobotanica, dall’analisi di fossili e diagrammi pollinici all’archeologia e alle fonti scritte della storia economica, tecnica, o culturale, procede così sui tempi lunghi e nel confronto tra ambiti e contesti Hansjörg Küster in questa sua Storia dei boschi. Dalle origini a oggi, riproposta da Bollati Boringhieri, pp. 288, € 23,00.

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Perino. Autobiografia per interposto giardiniere

Procede per intendimenti e predilezioni questa autobiografia per interposto giardiniere scritta da Giorgio Rolando Perino ora sulla pagina e prima, in lunghi decenni, sul crinale scosceso dov’è affacciato, rivolto a sud sulla valle, eppure tutto in sé compreso, Il Giardino Gaudente (Editris Duemila, pp. 142, € 12.00).

Una continua dichiarazione di poetica che si dispiega negli anni e che sempre dura, precipitando ogni volta in un corpo a corpo di episodi, temi, stacchi, riprese.

Per frammenti e dettagli di un complessivo fluire ecco susseguirsi nel racconto e stratificarsi assieme verticalità d’alberi e arbusti da correlarsi al pendio, reinterpretando il classico giardino formale in una frana di scomposti bossi topiati, percorsi immaginati sempre per come al vice versa disvelano diverse prospettive, sentieri interrotti, svolte, alternanza teatrale di luci e ombre in un proscenio naturale pure negato dal trasparire soltanto di ben precisi scorci di paesaggio. Oltre la galleria della doppia fila di noccioli (unica, illusionistica concessione alla geometria) è un succedersi di piccoli spazi raccolti, con fogliami vaporosi e nuvole di rampicanti, segni circolari, panche diverse per carattere e materiali, per guardare e da guardare, multiformi usi dell’acqua, riusi – di materiali, fossili di conchiglie, scarti ripensati in artificio sui tempi lunghi delle modificazioni, citazioni di ruderi, ninfei –, cascate d’erba che si piegano in discesa, erbe spontanee, specie rustiche, ma anche licenze, come nel giardino dei fiori di vetro.

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Farfalle, mania colorata

Nel brulicante, spesso da noi malvisto mondo degli insetti, che da 400 milioni di anni popolano la terra in stragrande maggioranza (oltre 900.000 le specie catalogate contro 400.000 piante e 5.400 mammiferi), le farfalle godono di uno statuto eccezionale.

Certo, per l’attrazione indotta dalla metamorfosi che permea il loro ciclo di vita. Da uova a bruchi, da bruchi a crisalidi, per trasformarsi ancora poi nello stadio finale adulto, detto immagine. Ma, prima ancora, per la speciale reazione che i colori delle farfalle scatenano sui nostri meccanismi di visione e elaborazione neuronale.

Primordiale e universale, il linguaggio delle farfalle è per antonomasia il linguaggio del colore. Un volteggiare palpitante di ali iridescenti che ci colpisce in maniera diretta, viscerale. Una fascinazione irriducibile che si impone all’anima (psiche, che in greco vale anche farfalla), in una relazione travolgente, spesso fin da bambini. Con punte estreme che si spingono fino all’estasi o alla dipendenza.

Scienziati, ladri e collezionisti che hanno inseguito e raccontato l’insetto più bello del mondo è non a caso il sottotitolo parlante del volume che la giornalista scientifica Wendy Williams dedica a La vita e i segreti delle farfalle, Aboca, pp. 300, € 24.00, traduzione di Maurizio Riccucci. Intrecciando i fili della storia evolutiva e delle specificità biologiche di questa prediletta creatura con quello di questa nostra irriducibile passione. Dal postino cacciatore di farfalle che all’inizio del Novecento scoprì e descrisse la Fender’s blue, al leggendario banchiere Walter Rothschild collezionista di oltre 2 milioni di esemplari, passando per il romanziere e lepidotterologo Vladimir Nabokov e per il contrabbandiere di farfalle Hisayoshi Kojima sorpreso ancora nel 2006 a vendere rarissimi esemplari, fino alla moltitudine di appassionati, oggi partecipi dei progetti di monitoraggio e rinaturalizzazione delle farfalle sempre più minacciate dalla riduzione degli ecosistemi loro congeniali.

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Funghi come gioco combinatorio

Da Alice nel paese delle meraviglie – che il fungo indicato dal bruco renderà volta a volta più grande o più piccola – a Boleto. Da John Cage – compositore, ma specialmente micologo e gran raccoglitore di funghi – a Etnomicologia e Micorisanamento, passando per Funghi dell’inchiostro ma anche per Musica e Narrativa (si intende, ispirate dai funghi, fino all’astromicologo della serie TV Star Trek Discovery), si può ben dire che la Funghipedia messa in fila da Lawrence Millman in oltre 180 voci, con sottotitolo Miti, leggende e segreti dei funghi, si presenta come una sorta di gioco combinatorio, dove la rete dei rinvii ad altri temi suggeriti alla fine di ogni lemma dà il senso della pervasività della presenza dei funghi nel mondo naturale e nella nostra umana esistenza. E al tempo stesso della variabilità e incertezza di un ambito di indagine, descritto ad oggi per meno del 5%, dove a prevalere sono le eccezioni (il Saggiatore, pp. 236, € 16.00, illustrazioni di Amy Jean Porter e traduzione Elisa Favarelli).

Pirofili, bioluminescenti, acquatici, con proprietà allucinogene, viola, neri, arancioni o gialli, dagli odori pestiferi o dal sentore che va dalla noce di cocco al geranio, dalla candeggina al granchio cotto, il variegato regno di funghi, lieviti, ruggini, polipori, muffe, vesce, lignicoli, viene indagato a partire dalla chimica dei substrati naturali e per la rilevanza ecologica nelle relazioni con piante (tramite le reti di radici) e insetti (coltivatori di funghi) , per la loro capacità di riciclo nel decomporre la materia e assieme per le valenze simboliche, gli usi rituali, alimentari, medicinali che li connotano nelle più diverse culture.

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La rinascita del ginkgo, fossile vivente

La caratteristica foglia a forma di ventaglio e il disporsi dei rami come lunghe dita spigolose fanno del ginkgo un albero inconfondibile nella sua essenziale eleganza. Che lo si incontri in Oriente, maestoso nei suoi esemplari più longevi, nei pressi di antichissimi templi o santuari e, più tardi, ovunque nella fascia delle regioni temperate, come punto focale in parchi, giardini o come alberatura stradale da Manhattan a Seul a caratterizzare ormai tanti nostri paesaggi urbani.

Considerato un fossile vivente, una stranezza botanica, unico sopravvissuto di una stirpe un tempo assai diversificata, è giunto fino ad oggi in forma pressoché immutata dopo aver prosperato per oltre duecento milioni di anni e aver poi subito un significativo, misterioso, declino sfiorando l’estinzione e riducendosi in aree ristrette della Cina, per incrociare infine la sua vicenda con quella ben più “recente” di attenzione e cura da parte della nostra specie di Homo sapiens.

Di questi sviluppi evolutivi e intrecci culturali ci narra ora il paleontologo vegetale Peter Crane, già direttore dei Giardini botanici di Kew, sul filo di una singolare biografiaintitolata al Ginkgo. L’albero dimenticato dal tempo,  traduzione di Gianni Bedini, revisione di Fabio Garbari, Olschki, pp. 256, € 25,00. Dove incrocia reperti fossili, specificità anatomiche, biologia riproduttiva, etnobotanica e biogeografia culturale.

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Un giardino veneziano, e inglese

L’impermanenza dei giardini può paradossalmente farsi perno di soddisfazioni e piacere nel corso breve delle nostre umane vite. È il caso, nell’imprevedibile irrequietezza d’arie, nel capriccio dei suoli, nel trascorrere delle molte velature di luce in laguna, di Un giardino a Venezia. Sull’estremità dell’isola lunga della Giudecca, in fondo al rio della Croce, dove, fin dalle testimonianze della cinquecentesca veduta a volo d’uccello di Jacopo de’ Barbi, tra gli argini e i panorami d’acque, si concentravano inattesi spazi verdi murati.

Allora poco più di un orto, quello acquistato a fine Ottocento da Frederick Eden e signora – la Caroline, sorella maggiore di quella Gertrude Jekyll che in seguito diverrà protagonista del rinnovamento del giardino inglese. Poi da costoro reinventato – come ideatori e “capo giardinieri” – pur nel rispetto dello schema tradizionale di percorsi e nella scansione di spazi tramite siepi, pergole d’uva, spalliere di rose, ibridandone con sensibilità la fisionomia per via di reminiscenze inglesi e suggestioni mediterranee e, soprattutto, nel segno di un giardino di fiori. Di fioriture in ogni stagione, come già segnalato da Ida Tonini. Infine, un giardino raccontato in volume.

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Clima, diritti, gustizia ambientale

Clima e biodiversità, ma anche ecosistemi civili, diritti, beni comuni. L’interconnessione tra stili di vita, ecologia e giustizia sociale si è fatta negli anni sempre più palese. E con l’aggravarsi degli esiti del cambiamento climatico e del riscaldamento globale il nesso tra questione ambientale e povertà, disuguaglianza, esclusione, matura nella consapevolezza diffusa – e affatto evidente fino a non molti anni fa – della necessità di operare contestualmente sul piano dello sviluppo sostenibile e dei diritti umani e assieme della giustizia ambientale.

Climate Justice è il titolo del volume che Mary Robinson – prima presidente donna dell’Irlanda ad inizio anni Novanta, poi dal 1997 al 2002 Alta commissaria Onu per i diritti umani e quindi promotrice di una fondazione attenta alle ripercussioni sociali dei mutamenti climatici – propone ora per dar voce proprio a quei soggetti e collettività più vulnerabili che in prima battuta e in misura maggiore subiscono gli effetti dello sfruttamento intensivo delle risorse del pianeta, essendone spesso peraltro tra gli agenti meno responsabili (Donzelli editore, pp. 221, € 15,00).

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I piccoli quadri floreali di Matilde Serao

Tra predilezioni, raffigurazioni d’ambiente e rimembranze, notazioni sul gusto e movenze degli affetti, la multiforme teoria dei capitoli che compongono L’anima dei fiori di Matilde Serao si dipana come una serie di epifanie ben assortite, con l’andamento anfibio e fulminante degli scritti d’occasione. Che si tratti dell’eco di profumati idilli, innescati a partire dagli umili balconi di sartine e modiste – trasformati in giardini pensili per via di mentucce, violette e malvarose acquistate per pochi soldi dalle contadine dei dintorni che, dalle ceste sul capo, le porgono avvolte soltanto in una foglia di cavolo –, o che si riesumi invece alla memoria l’allegoria della vecchia statua che tra i profumi e mormorii di un vasto, assopito, giardino abbandonato evoca silente, di fiore in inghirlanda, l’altrove e l’altrimenti, i versi e i sogni del Benvenuto maggio.

Piccoli quadri, temi, ritratti, spunti, argomenti, raccolti in un dialogo che intreccia curiosità e partecipazione a interrogarsi e spiegare il sentimento dell’amore per i fiori (o del disamore, così spesso rimproverato alle sue conterranee).

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