Nella nuova, aumentata attenzione che nel complessivo affollarsi di relazioni con il non-umano riserviamo al paesaggio animale, assieme all’avvio di una ricognizione della fauna inurbata, spesso invisibile, nelle pieghe di artificiali habitat cittadini che con loro condividiamo, si affianca ora un modo diverso di guardare al selvatico.
Quello, magari, degli animali che, provenendo da universi distanti, finiscono per instaurarsi nel nostro paesaggio domestico. Transfughi involontari al seguito di merci, commerci e turismi, oppure in fuga dall’alterazione delle condizioni dei loro ambiti di provenienza, o che al viceversa, finalmente ritornano in paesaggi un tempo loro, poi però a lungo disertati. Ritenuti estinti, perché divenuti inutili o dannosi.
Perché spesso è comunque l’essere umano ad assegnare patenti del genere, a decidere chi è benvenuto e chi no.
E, proprio a partire dalla critica di questa presunzione antropocentrica di tutto poter regolare e controllare che muove la penna di Massimo Zamboni, chitarrista e cantautore, tra i padri del punk rock italiano, compositore per i CCCP e poi i CSI, fattosi da tempo scrittore e ora naturalista curioso. Che nel suo Bestiario selvatico. Appunti sui ritorni e sugli intrusi, infila una serie di brevi ritratti animali, che son anche storie dei luoghi prescelti e che ora li ospitano e delle relazioni con gli esseri umani che li incrociano e con cui variamente condividono convivenze e attenzioni, frizioni e incantamenti (La Nave di Teseo, pp. 180, € 18,00, illustrazioni dello zoologo Stefano Schiaparelli).
Si tratta di incontri tutti sul limitare, di paesi tra foreste e confini, dalla pianura padana alle risaie piemontesi, tra prime periferie, spazi residui di una natura sempre più antropizzata, borghi appenninici, aree confinanti con rettifili di strade, rive di fiumi, acque fangose di stagni di collina.
Interlocuzioni dove, consapevoli almeno a tratti delle strette relazioni di interdipendenza che, pur nell’alterità, intratteniamo con questi animali intrusi, per evocarne le fisionomie, come sottolinea Zamboni, non sappiamo far nulla di meglio che umanizzarne i tratti. Assomigliandoli a noi, non soltanto perché non sappiamo rinunciare a porci come misura di tutto, ma perché, così facendo, tendiamo a diminuirne alterità e bellezza che inconfessabilmente avvertiamo superiori alla nostra.
Così, l’airone di cui si racconta il ritorno a popolare luoghi dove da tempo era scomparso, dalle zone umide emiliane agli stagni in Toscana, ricorderebbe la fisionomia di un notabile solitario che, rimuginando, borbotta tra sé con le ali come braccia conserte dietro la schiena. Mentre se i gamberi della Louisiana, andati a sostituire i nostrani nelle acque fangose del torrente Rodano, nei pressi di Reggio Emilia, chissà come saranno arrivati lì, le cicogne sul tragitto della loro rotta migratoria hanno scelto proprio quel fazzoletto di campagna reggiana, a Gavasseto, dove al loro apparire accorrono in visita scolaresche e appassionati.
La ricognizione prosegue, tra il riapparire nella penisola, dov’era assente da cinquecento anni, di un castoro, per ora adottato dall’Austria e i progetti di migrazione assistita dell’ibis errante. Si dà conto delle implicazioni della coevoluzione evocando l’epopea del cinese Cinipide del castagno che, dopo alcuni decenni di indisturbate distruzioni, sembrerebbe sbaragliato dall’insetto antagonista, o la preoccupazione per la piralide del bosso che dall’Asia ha invaso i giardini all’italiana ridisegnandone la topiaria, ridotta all’essenza di foglie divorate e scheletriche nervature. Per approdare ancora nelle Valli di Comacchio, dove mai si eran visti prima d’ora quei fenicotteri che son diventati ormai da una ventina d’anni presenza consueta. Per quanto, ancora non al punto di aver trovato un loro nome – si sottolinea – nel dialetto locale. Ma pur sempre capaci, soltanto con la loro figura, di innescare radicali cambi d’orizzonte.
Massimo Zamboni, Bestiario selvatico. Appunti sui ritorni e sugli intrusi, La Nave di Teseo, pp. 180, € 18,00, illustrazioni dello zoologo Stefano Schiaparelli, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 29, Supplemento de Il Manifesto del 30 luglio 2023
Rivendicando in premessa l’irriducibilità di un rapporto tutto personale con i luoghi e l’improponibilità di regole universali per quanto attiene l’arte dei giardini, il paesaggista Antonio Perazzi, paradossalmente, propone poi invece un Manifesto.
Qui, con andamento apodittico e toni a tratti perentori, in una successione di affermazioni scandite contro quei pregiudizi e luoghi comuni dove così spesso si corre il rischio di scivolare, normativamente, sarà proprio la centralità del protagonismo in giardino delle piante (e di insetti, e vari animali di passaggio) e l’opportunità di frequentare da lì una natura sempre più residuale, fino a trarne una rinnovata dimestichezza, a emergere per costituire un’indicazione, anche metodologica.
Per assumere, complice, la vegetazione come una opportunità progettuale, così da ridurre la deriva diffusa verso un giardino prono all’artificio purché sia, contemperare l’ego sempre in agguato di una creatività fatta di allestimenti geometrici, arredi e accessori amorfi, dove le piante son spesso ricomprese, soltanto e se in una forma preordinata, occorre ribaltare lo sguardo prevalente che solitamente riserviamo a una natura rispetto alla quale ci pensiamo esterni.
Per praticare esercizi di lettura, anche botanica, dell’ambiente – decrittando consociazioni spontanee che si adattano alle diverse condizioni. In un’attitudine che ci consenta di comprendere meglio il carattere dei luoghi, percepire il flusso biologico del territorio, intuirne i tempi di sviluppo nel paesaggio.
Dinamiche che, poi, nel processo artificiale e nella pratica progettuale che serve a dar origine al giardino, occorre rivelare e magari rilevare. Assecondando l’energia della natura spontanea per conferirgli forma e senso, modulando il dialogo continuo tra soggetti vivi, temporalità diverse, metamorfosi.
Specialmente, nel contesto di trasformazioni incessanti dell’irrequieta flora mediterranea. Fonte di ispirazione anche nella gestione delle risorse di acqua e suolo, organismo vivo, maestra di adattamento in un apparente disordine biologico proprio di un evolvere continuo del paesaggio. A partire dall’irrefrenabile vigoria delle piante annuali, intese ad andare a seme, a quelle mediterranee, a crescita intermittente, e magari doppia fioritura, a quelle, ancora, che al nord vivono brevi stagioni calde e hanno perciò una velocità di sviluppo accelerata.
Spesso, difatti, “il progetto di un giardino consiste nel dare forma al tempo” piuttosto che non alle cose, ricorda Perazzi.
Momento di contatto tra natura pensata e natura interpretata, sintesi tanto di potenzialità inespresse dei luoghi quanto di necessità e usi sociali, nonché della dimensione estetica, il giardino così concepito, oltre a esser tramite e occasione per recuperare un qualche perduto senso di appartenenza rispetto al mondo circostante, introduce a una consapevolezza ecologica, che si dilata al paesaggio. Una pratica e frequentazione del giardino a partire dalle piante, una botanica per paesaggisti, percorsa, oltreché come approccio ed elemento ispiratore, anche come strumento operativo nella realizzazione di un giardino accogliente, tollerante. Che si prende cura di luoghi e piante, come noi, tendenzialmente cosmopolite, per farne un ponte nel dialogo tra artificiale e naturale.
Sapere allora vedere la bellezza che risiede nell’ordinario e nell’imprevisto dei molti giardini invisibili di cui è pieno il paesaggio naturale, affilarsi a riconoscerne tratti e sviluppi, va assieme alla capacità di metterli in luce, dar loro un nome e farne un’indicazione per un “paesaggismo ecosistemico”, dove le molte interazioni tra dimensione economico funzionale, estetica ed etica possano coabitare.
Antonio Perazzi, I giardini invisibili, Un Manifesto botanico, Utet, pp. 191, € 16.00 , recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 27, Supplemento de Il Manifesto del 9 luglio 2023
Addentrandosi nel parco della reggia di Versailles, magari un po’ fuori mano rispetto ai soliti circuiti, dallo scorso 30 maggio è possibile imbattersi in un nuovo spazio dove passeggiare. Un giardino ulteriore, al centro della tenuta del Trianon, tutto dedicato ai profumi, alle fragranze ricavate dalle piante, il Giardino del profumiere (Jardin duParfumeur). Allontanandosi verso destra rispetto al grande asse prospettico del canale d’acqua, oltre il bacino detto del Trifoglio, una serie di aiuole di essenze profumate si dispongono ai lati del percorso che conduce sullo sfondo all’orangerie di Châteauneuf. Sono oltre 300 piante selezionate per il loro utilizzo in profumeria che, raccolte in aiuole, crescono tra la grande Paulownia dai fiori blu-lilla e gli agrumi in vaso disposti sui vialetti. Sulla destra, questa distesa di curiosità è costeggiata da un viale di ciliegi giapponesi da fiore dal lieve sentore di mandorle, intervallati da sbuffi, volta a volta, di gelsomino e arbusti di lillà e filadelfo. Da qui, infine, traversando un piccolo frutteto, si accede ancora a un ambiente conchiuso tra mura, uno spazio meditativo, un giardino segreto, dove, alla mezz’ombra di un grande lauroceraso, svettano esemplari di Cardiocrinum giganteum, o giglio gigante dell’Himalaya, una liliacea dai profumati fiori campanulati, tra rose e orchidee.
Così, articolato in tre ambienti distinti, il Giardino del profumiere appena inaugurato dopo alcuni anni di lavoro di ricerca e messa a punto da parte dei giardinieri del Trianon è stato concepito con la collaborazione del profumiere Francis Kurkdjian e il sostegno della sua Maison.
Formatosi alla scuola di profumeria di Versailles, nella sua carriera Kurkdjian aveva già incrociato diverse volte questo luogo e la sua storia. Ricostruendo il profumo di Maria Antonietta sulla base di documenti d’epoca o ispirandosi per le sue installazioni olfattive come Midnight Sun per il festival Versailles Off del 2006 alle sontuose feste del Re Sole, quando bacini e fontane dei giardini della reggia venivano colorate e inondate di profumi.
Oggi, la scelta del tema del nuovo giardino sta tutta nelle molteplici risonanze di luoghi, protagonisti (anche vegetali) e temporalità.
Luigi XIV, colui che volle Versailles, era particolarmente appassionato di profumi e, al tempo stesso, di fioriture. Quando, nel 1668, decise di acquistare e demolire il piccolo villaggio medievale di Trianon, che confinava con la tenuta reale per farvi costruire come riservata ed elegante residenza di campagna un piccolo castello rivestito di porcellane bianche e blu in onore della sua amante di allora, la marchesa di Montespan, questo luogo si caratterizzava specialmente per la sua ambientazione. Il suo fascino, tutto racchiuso nei suoi giardini di fiori fatti arrivare da ogni dove dalla Francia e non solo. Un’enfasi, nel rapporto diretto con questo esterno fiorito, confermato anche un decennio dopo, con la ricostruzione del Trianon, questa volta di marmo, in stile italiano.
Qui i fiori diventano alla moda. E si tratta di fiori dai profumi pronunciati: gelsomini, tra gli altri, e una serie di bulbi in fiore spesso anche fuori stagione per via di serre e forzature. Di pari passo, poi, con quelli delle fioriture nei giardini, sono i profumi in sé, che di quei giardini si servono, a divenire però a corte sempre più oggetto di una vera e propria mania. Fragranze forti, spesso indicate anche per camuffare certi cattivi odori viste le precarie condizioni igieniche di vita.
A partire dalla fine del 600, si afferma a Versailles la professione di profumiere. E nel corso del secolo successivo, prodotti di profumeria e trucco – polveri, pomate, fard – diverranno componenti essenziali per gli apparati della sfarzosa vita di corte.
Si assiste a una sorta di rivoluzione olfattiva. I profumi più intensi vengono abbandonati per fragranze più sottili. Lo stesso re finirà per prediligere l’acqua di fiori d’arancio.
In linea con il movimento igienista, nel 700 la cosmesi conosce una grande diffusione e la professione di profumiere assurge a un rango di rilievo. Il profumo è un lusso che viene ora anche utilizzato per il puro piacere di sentirsi a proprio agio.
Per restare al Trianon, se, da metà secolo, Luigi XV, appassionato di botanica, aveva creato in quei pressi alcuni giardini con perfino una serra, innovazione rara per l’epoca, facendone luogo di sperimentazione scientifica per gli studi di orticoltura, con la costruzione del nuovo Petit Trianon nel 1761 e poi con la destinazione della tenuta alla regina Maria Antonietta da parte di un Luigi XVI appena incoronato re, nel 1768, tutto cambia. Incuriosita dalla moda dei giardini anglo-cinesi, Maria Antonietta decide di far realizzare lì un nuovo giardino “naturale” e, volendo ispirarsi alle idee sostenute da Rousseau, negli anni 80 fa costruire una simil fattoria, Le Hameau de la Reine, dove mimare una spensierata vita campestre.
È così che le collezioni botaniche vengono sfrattate, trasferite al Jardin du Roi di Parigi (l’attuale Jardin des Plantes).
Ma nel frattempo, con le innovazioni tecniche e l’affinarsi delle competenze dei profumieri, sarà possibile ottenere via via oli essenziali molto più fini e concentrati che si riescono a conservare nel tempo, dato che le molecole di profumo – spesso descritto in base alle le sue note di testa, di cuore e di fondo – tendono invece a evaporare, disvelando in successione le sue diverse espressioni. Da allora i profumieri possono comporre le loro fragranze combinando le diverse essenze floreali disponibili nelle varie stagioni dell’anno. E provenienti da luoghi distanti, dato che con lo sviluppo dei commerci internazionali sarà più facile e veloce importare materie prime coltivate all’estero.
Nascono nuovi profumi e la tavolozza del profumiere si arricchisce con l’ampliarsi della scelta di dosaggi e materiali.
Di tutto ciò, a cavallo tra evoluzione del gusto dei giardini, specie al Trianon di 6 e 700, e storia del profumo e dei suoi usi alla corte di Versailles, racconta questo nuovo Giardino del profumiere.
Dove le differenti piante selezionate vengono raggruppate in base alle materie prime utilizzate dal profumiere per comporre le sue fragranze: foglie, cortecce, fiori, scorze, legni, bacche o radici.
Tra queste, i fiori delle rose di varietà centifolia e damascena, il bergamotto dalla cui scorza si estrae per spremitura a freddo l’olio essenziale, gli iris con i suoi rizomi, l’orchidea vaniglia o, ancora, i semi della carota, da cui si ottiene un’essenza dalle note dolci, terrose appena zuccherine, utilizzata come base per dar profondità e calore alle creazioni. Piante storiche, da tempo utilizzate nei giardini di Versailles, come verbena, rosa e gelsomino, magari dal valore emblematico, come il giglio della monarchia francese, o dal profumo originale, come i gerani che sanno di mela o il cacao evocato dal fiore del Cosmos atrosanguineus proveniente dal Messico. Ma qui si incontrano anche piante dall’odore sgradevole, come i fetidi iris o, ancora, fiori come giacinti, peonie, viole, cosiddetti silenti, almeno dal punto di vista del profumiere: che se cioè in giardino profumano, eccome, non rilasciano tuttavia estratti che possano essere tradotti in profumi. Per cui le loro fragranze devono essere ricreate artificialmente dai profumieri.
Insomma, oltre le straordinarie, effimere esperienze olfattive come quelle innescate proprio dal profumiere Kurkdjian ancora nel 2007 e 2008, durante le Grandes Eaux Nocturnes, quando dispose nei giardini di Versailles sedici macchine spara bolle di sapone, facendo volteggiare intorno ai visitatori migliaia di bolle profumate di fragola, pera e melone, i frutti preferiti da Luigi XIV, quello del profumiere, è oggi un giardino in grado di dar voce a molte, persistenti, quotidiane sinestesie.
Annotate mese per mese e raccolte in quadernetto, le esperienze del prender via via dimestichezza con la cura dell’orto ne replicano sulla pagina la vicenda e la trama circolare, ripetuta in una ricorsività che include però l’imprevisto.
Un tempo ciclico, organico, dove per piccoli segni osservare il concorrere di una molteplicità di organismi entro un sistema vivo, un nuovo inizio nel gonfiarsi delle gemme, come nel fiore dove si intravede il frutto o nel seme che incuba ripartenze. Un tempo rotatorio, di cui magari la pigrizia tende ad amplificare il raggio, fatto di storie con varianti infinite, da tenere a bada venendo a patti con la luna, inventando rituali. Un tempo ciclico, quello dell’orto, anche perché al terreno riporta quanto è stato tolto.
Un tempo reale, parallelo al fare di ogni giorno, al considerare via via il domani, che Barbara Bernardini viene ripercorrendo da inizio primavera a fine inverno nel suo volumetto Dall’orto al mondo, in una dettagliata fenomenologia del sovrapporsi e intrecciarsi di crescite, estinguersi e rinascite, che, empaticamente sincronizzata, dal tecnico scivola nel racconto, accordandosi alle movenze dei suoi interlocutori vegetali (sottotitolo, Piccolo manuale di resistenza ecologica, Nottetempo, pp. 262, € 17,00).
Dal suo minuscolo osservatorio, una striscia di terra in lieve pendenza dove tra gli ortaggi riaffiorano a tratti i tralci di un vigneto dismesso, tra provinciale e ferrovia, a mezzo tra campagna e area industriale, tra palude di bonifica e sostrato vulcanico, tra Latina e Roma, si dispiega a raggera e dilata verso temi più ampi un almanacco di lavori, progetti, buoni propositi e riflessioni ancorate alla terra.
E se da sempre le piante han viaggiato, anche prima dell’uomo, attraversando spazi e poi millenni di progressive selezioni, adattandosi e modificando le terre dove sono arrivate, cambiando il paesaggio, influenzando le abitudini degli animali e la linea di demarcazione tra erbe spontanee e coltivabili, il procedere è qui in un ciclo stretto, privo di confini netti. Secondo i tempi delle lune – che alternamente favoriscono crescita di radici e parti aeree – e i calendari delle semine. Quelli, tra divagazioni su zuppe invernali di broccoli e legumi, fantasiose etimologie di piante e consigli di manutenzione degli attrezzi, che dal lontano 1762 ancora annualmente pubblica il glorioso Almanacco Barbanera per accompagnare le stagioni.
A partir da quando la primavera stenta ancora a partire e si procede nella scelta di sementi di varietà diverse, per arrivare ai primi raccolti. Finito il tempo dell’attesa, d’un tratto la crescita accelera al punto che, dopo la raccolta del mattino, occorre tornare a vagar nell’orto per vedere quel che maturerà nell’arco della giornata.
Considerazioni su temi generali, come redistribuire l’accesso a coltivazione e riproduzione delle sementi, recuperare aggiornandoli alle nuove necessità e scoperte i saperi contadini, opporsi alle pratiche dell’agricoltura intensiva, della grande distribuzione e delle logiche dei brevetti sul vivente, si avvicendano a passeggiate di osservazione serali in un orto fitto di nascondigli. Dove la comunanza con animali e piante ci aiuta a rimettere in prospettiva le nostre posture, fatte di illusioni di controllo e dominio, riguardo a una natura troppo spesso percepita come separata, esterna, frequentabile nella forma residua di esperienze confezionate come prodotti di mercato.
Al ritratto tributato all’amarena prediletta, s’alternano un excursus sui carciofi, pianta che eccezionalmente traguarda le stagioni, come pure i lamponi, o la storia della zucca. Delle varie specie diffuse dall’antichità in Europa, per quanto piuttosto utilizzate per conservare e trasportare liquidi, e soppiantate dalle varietà introdotte qui da noi dagli spagnoli e provenienti da Messico e Perù dov’erano diffuse da oltre 6000 anni. Per via di incroci, anche quella a forma di turbante, detta Marina di Chioggia, innesco delle Baruffe chiozzotte del Goldoni.
Finché con l’orto estivo, sospeso per il caldo ben oltre l’annaffiare, tutto appare andar da sé: è un’esagerazione continua, un tripudio, un affannarsi a raccogliere. E, finita la frenesia dell’estate, dopo la giungla ormai inselvatichita di quello estivo, l’orto invernale comincia lentamente a prender forma per un nuovo inizio. Mentre il terreno si rigenera, a febbraio ancora svettano i finocchi, lasciati crescere per arrivare al seme.
In vari gradi di approssimazione, dai cortili di case e palazzi progettati con svettar di piante su aiuole rialzate, così da poterle osservare dall’interno, a quelle trapiantate tra le mura domestiche, in vasi e urne, serre e terrari, le presenze vegetali disseminate nei più diversi spazi abitativi vantano una loro lunga storia. Fino all’attuale, talvolta incoerente, pervasiva febbre vegetale per le piante da appartamento.
Così ci racconta, pur senza troppe pretese, Molly Williams nel suo volume La tua casa botanica. La strana e sensazionale storia delle piante da appartamento e tutti i segreti per prendersene cura, Aboca, pp. 244, € 19,50. Dall’uso romano di abbellire case e spazi pubblici con fiori recisi posti in contenitori in ceramica e fioriere rinvenute dagli scavi archeologici, anche negli atrii delle case minori, all’arte orientale di ricreare scenari naturali in miniatura, che si tratti dei cinesi penjing sistemati su scaffali di librerie o bassi tavolini, del vietnamita hòn non bô, o di quelli ormai noti come bonsai, presenza essenziale nella cultura giapponese, ma divenuti fenomeno diffuso di segno globale. Testimonianza di un esito tra gli altri della svolta costituita dall’imperialismo botanico avviato con la scoperta dei nuovi mondi, è, degli inizi del 600, la pubblicazione del primo manuale di giardinaggio con una sezione interamente riservata alle piante da appartamento. Perlopiù da quei mondi provenienti. Con fiori profumati che hanno allora anche la funzione di contenere l’assedio dei miasmi cittadini. E il grande favore che riscuotono gli agrumi che profumatamente fioriscono d’inverno – indice peraltro della ricchezza dei loro proprietari, in primis Luigi XIV con la sua collezione di oltre 3.000 piante per l’Orangerie –, o i bulbi da fiore che possono essere forzati al chiuso, anticipando le stagioni.
Di pari passo con il commercio delle piante rare, in particolare poi di quelle “resistenti”, capaci cioè di adeguarsi ad habitat così diversi, si va diffondendo nel 700 un vero mercato dei vasi, nonché, in epoca vittoriana, di terrari sempre più elaborati, giardini di inverno e serre riscaldate.
Fino alla realizzazione ad esse ispirata del Crystal Palace disegnato da Joseph Paxton nel 1851 per l’Esposizione universale di Hyde Park, a Londra.
Con la nuova febbre delle orchidee prosegue anche la mania per i bulbi, anche se il tulipano è stato ormai soppiantato dal giacinto. E sullo sfondo delle foto d’epoca, silhouette di palme kentia (Howea forsteriana) o aspidistre campeggiano onnipresenti tra gruppi di famiglia, e perfino tra gli sfarzosi arredi del Titanic in partenza nel 1912,dove, ovunque sui tavoli e negli angoli, figurano anche filodendri, edere e palme, indice anch’esse di un lusso consonante.
In questa fase, molti libri sulle piante da coltivare in casa vengono scritti da donne per le donne. Così come spesso saranno poi le donne, con il loro nutrito ingresso nel mondo del lavoro del secondo dopoguerra a portare con sé le piante in ufficio.
Già con la fine degli anni ’20, le piante destinate a essere coltivate all’interno risultano per la prima volta facilmente disponibili sul mercato al dettaglio, a un prezzo abbordabile. Mentre, di pari passo con i mutamenti di stile, costruttivi e di arredo, delle abitazioni – finestre più grandi, soffitti più alti, nuovi sistemi di riscaldamento –, si determinano differenti atmosfere di coltivazione. Se il liberty porta anche negli interni linee e forme naturali spesso ispirate alla vegetazione, le successive tendenze si inscrivono in un sempre più stretto rapporto tra natura e sviluppo urbano. Anche le piante si adeguano: al modernismo, nelle loro varianti più scultoree; con la Monstera deliciosa negli anni ’60; e, per i ’70, con ficus, filodendri tropicali e terrari, nonché l’iconica pianta ragno, il falangio (Chlorophytum comosum). Crescendo senza radici nel terreno, quelle epifite risultano perfette per gli uffici (assieme all’introduzione per le altre dei vasi con riserva d’acqua). Dopo la giungla domestica anni ’70, con la mania dei portavasi in macramè, rifluisce il rarefatto, disimpegnato (nella cura), minimalismo anni ’80. Fino all’emergenza delle orchidee anni ’90 e, più di recente, delle piante da lockdown, con la domanda che sale alle stelle, e l’impazzare sui social di plantfluencers di vario conio.
E con sullo sfondo la preoccupazione di come pericolosamente funzionino, oggi come ieri, pur tra reti di biosicurezza e normative doganali, le dinamiche del commercio delle piante. Magari di quelle rare, o a rischio; illegalmente sottratte al loro habitat naturale in una sorta di nuovo bracconaggio.
Come per pochissime altre piante, l’incrocio felice tra alcune delle incredibili specificità botaniche delle orchidee e l’addensarsi su di esse di significati simbolici e proiezioni culturali ha caratterizzato assieme la loro diffusione sul pianeta e la nostra consuetudine e fin dimestichezza con almeno alcune di esse.
In un lungo percorso evolutivo, affinato in una mirabile vicenda di ingegnosi intrecci e diversificazioni, questa enorme, variegata famiglia composta da migliaia di specie differenti – circa un decimo di tutti i fiori che popolano il pianeta – ridotta sotto il termine ombrello di orchidea, è riuscita, come ci racconta Alessandro Wagner nel suo Fare l’amore come un’orchidea, a colonizzare i più diversi habitat attraverso un incredibile numero di varianti in diversi formati, dai pochi grammi ai diversi metri di altezza e qualche tonnellata di peso (Storia e mirabilia del fiore più intelligente del mondo, Ponte alle grazie, pp. 246, € 18).
Per altro verso, l’assidua frequentazione tra umani e orchidee si conferma nella loro presenza nelle più remote culture. In quella orientale e nella sua estetica, già da Confucio, come emblema di purezza e di innocenza, forza d’animo, nobiltà di carattere e modestia, grazia e gentilezza. Nonché di bellezza dai tratti essenziali ed eleganti ispirata specialmente dai Cymbidium, un genere allora diffusissimo di orchidee miniature con piccoli fiori cerosi, caratterizzati da profumi soavi, colori intensi, eppure discreti, molto spesso stilizzati e raffigurati in pittura.
Poi in Occidente, dove il termine orchidea appare nella Historia Plantarum di Teofrasto, con riferimento all’aspetto dei bulbi che ricordano quello dei testicoli umani, con annessa, presunta associazione al seguito di proprietà afrodisiache. E non a caso, la bellezza dei suoi fiori verrà poi spesso collegata alla dimensione erotica e all’arte della seduzione, fino allo stereotipo che collega bellezza femminile e orchidee. Ma questo, solo in secoli recenti. Le orchidee europee, difatti, quelle conosciute dai popoli mediterranei sin dall’antichità, erano piante ben diverse da quelle oggi solitamente evocate con questo nome. Erano molto rustiche, piante annuali, minute, perlopiù terricole, che crescevano da un bulbo o un rizoma, poco vistose e interessanti sotto il profilo estetico.
È soltanto con l’epoca dei grandi viaggi di esplorazione che l’Occidente conoscerà quelle invece eleganti, appariscenti, spesso strabilianti e in gran misura rare, provenienti dalle foreste tropicali, fin lì perlopiù inesplorate, che nell’arco di pochi decenni, sbarcate dalle navi di botanici e cacciatori di piante sconvolgono, per vastità e variabilità impreviste, il panorama delle categorie vegetali europee e i tentativi di ordinamento delle tassonomie linneiane. Nuove specie, con nuovi nomi da inventare
E, proprio nelle foreste tropicali, 35 milioni di anni fa si era attuato uno dei principali snodi del percorso evolutivo delle orchidee che avevano cominciato ad arrampicarsi sugli alberi liberandosi dal vincolo di uno spazio affollato di concorrenti vegetali e animali. Anche se già un paio di milioni di anni prima, dopo la grande estinzione del Cretaceo, quando esisteva una sola linea evolutiva di orchidee, queste avevano messo a punto un’altra invenzione, quella dei pollinia, aggregazioni di polline, poi specializzati per essere affidati alla consegna esclusiva ad altri fiori della stessa specie da parte di diversi corrieri del mondo animale.
Sarà proprio ripercorrendo l’evoluzione dei diversi stratagemmi congegnati dalle orchidee per attirare i grandi insetti e i colibrì delle foreste tropicali, sviluppando fiori dalle forme e colori vistosi e dall’ingegnosa morfologia dei meccanismi funzionali all’impollinazione, che Darwin appassionato di orchidee, tra quelle selvatiche dei dintorni e una discreta collezione di tropicali, risponde, poco più di due anni dopo L’origine della specie, a quanti avevano criticavato la sua teoria. Nel 1862, pubblicando il volumetto sulla Fertilizzazione delle orchidee, sottolinea proprio nel funzionamento del loro apparato riproduttore, il rilievo della fecondazione incrociata.
Risultato, lo sviluppo di una vertiginosa differenziazione in nuove specie – fissato nelle cinque sottofamiglie – per arrivare alla più diffusa, quella delle Epidendroideae, tra le epifite, che oggi sono l’80% delle specie delle orchidee.
Con l’inizio dell’800, il massiccio arrivo in Europa delle inconsuete, spettacolari orchidee tropicali si innesta su una diffusa passione tributata alle piante del nuovo mondo, soprattutto quelle tropicali, tra l’aristocrazia e la borghesia finanziaria e mercantile, specialmente inglese.
Ma, in ragione della loro difficoltà ad acclimatarsi e dato che allora non si conosce ancora il modo per riprodurle, le orchidee risultano spesso, rispetto alle altre piante, esemplari unici, rare presenze evanescenti da collezionare. Un bene di valore da vantare e mettere in mostra, presto diventato status symbol.
La maggior parte non sopravvive alle lunghe traversate oceaniche e per mantenerle in vita replicando le condizioni dell’ambiente di origine occorrevano serre estremamente costose. Almeno fino all’abolizione della tassa sul vetro nel 1845, a partire da quando, per almeno cinquanta anni, il collezionismo di orchidee conosce un grande incremento, alla frenetica ricerca di rarità. E al tempo stesso, una sorta di democratizzazione, dato che per ospitarle non occorrevano vasti possedimenti.
Ai cacciatori di piante inviati alla loro ricerca dagli orti botanici nelle foreste tropicali, si affiancano presto quelli delle prime ditte specializzate in orchidee che ne promuovono la vendita in aste specializzate, ricorrendo anche a spregiudicate trovate di marketing come l’enfasi sulla storia della Cattleya labiata ‘vera’, a lungo ritenuta perduta e di cui si annuncia sulle maggiori testate dell’epoca il ritrovamento in Brasile nel 1891, o sul rarissimo Dendrobium phalaenopsis varietà schroederianum, battuto, in forma macabra, per esser venduto come rinvenuto, assiema al teschio umano sul quale cresceva.
Un episodio dai tratti romanzati che ben si inscrive nel genere letterario allora agli esordi dell’Orchid horror. Dalla omonima novella di John Blunt, pubblicata sulla rivista popolare da 500.000 copie The Argosy nel 1911, dove si anticipa il filone centrato sull’identificazione fra orchidea e femminilità escogitatrice di inganni malvagi, con vere e proprie propaggini cinematografiche e un inedito intersecarsi di territori con la scienza, talché le piante finiscono per esser guardate sotto una nuova luce.
Se anche Marcel Proust utilizzerà le orchidee per due memorabili metafore, è soprattutto nel genere poliziesco che l’orchidea si ritrova associata a crimini e delitti, sulle pagine e sugli schermi. A partire da Marylin Monroe di Orchidea bionda (1948, nella traduzione italiana), Wagner sostiene non esista un altro fiore così di frequente citato nei titoli dei film (dove spesso con la trama poco davvero c’entrano le orchidee). Si tratta perlopiù di utilizzi “botanicamente” approssimativi e incongrui.
Diverso è il caso del personaggio dell’investigatore Nero Wolfe (dal 1934) e del suo creatore Rex Stout, entrambi esperti competenti (Wolfe, raffinato ibridatore, ha 10 mila piante di orchidee, Stout ‘solo’ 300) e espressione del fenomeno di un nuovo, diffuso collezionismo di orchidee che si stava sviluppando, in particolare negli Usa, tra associazionismo, concorsi, esposizioni e la corsa alla creazione di nuovi ibridi. Che nell’ultimo secolo infatti vedono aggiungere alle 30.000 e oltre specie in cui le orchidee sono andate differenziandosi nei miei primi cento milioni di anni di vita, altre 100.000 nuove, differenti orchidee create dall’uomo.
Per quanto spesso travisandone l’essenza, i successi romanzati contribuiscono alla fama delle orchidee – nonché a un protagonismo finalmente vegetale – e dal secondo dopoguerra, ben oltre il mondo di ibridatori e collezionisti amatori, l’orchidea diventa estremamente diffusa e popolare nelle sue forme più gestibili, specialmente delle Phalaenopsis, anche come pianta di appartamento, con le sue generose fioriture, economica e poco ingombrante con il suo andamento monopodiale.
E chissà che anche questa relazione non sia che una variante di un più ampio meccanismo.
Wagner sottolinea come nella specificità delle orchidee, fragilità e successo vadano insieme. In un percorso di superspecializzazione e simbiosi stretta, sempre specifica, con animali impollinatori e funghi simbionti che, soli, consentono ai semi di germinare. Con una capacità di mimesi multipla che, dall’assunzione da parte dei fiori delle Ophrys delle sembianze specifiche delle femmine dell’imenottero che hanno scelto come impollinatore (fiori che, quindi, i maschi ingannati finiscono per impollinare in una pseudocopulazione ‘mimetica’), arriva perfino, con il genere Dracula che deve attirare i suoi moscerini impollinatori,a imitare nei disegni, nella consistenza nei tessuti e nell’odore, il regno dei funghi dove questi ultimi vivono.
In questo caso, una mimesi multipla, indiretta e ancor più sofisticata. Intesa non tanto a imitare un soggetto (l’imenottero femmina) ma a ricreare un intero ambiente. E neanche copiandolo da un modello preciso, ma creando una nuova versione di fungo gradita al moscerino. Inventando un nuovo mondo, inesistente in natura.
Come a riprodurre una percezione del tempo che in giardino scorre sempre indistinto, malgrado le stagioni, magari con accelerazioni e rallentamenti, in un divenire che prescinde dagli obiettivi, così le annotazioni ricavate da Miki Sakamoto in quel che definisce il suo percorso di accompagnamento, al giardino raccolte sotto l’impegnativo e, s’Immagina, dissacrante titolo Lo zen e l’estasi del giardinaggio. Una guida poetica alla cura consapevole della Natura, si susseguono sulla pagina come una sorta di flusso di coscienza. Un porsi domande in un dialogo di molteplici compresenze dove la descrizione delle esperienze personali, osservazioni, dubbi e intuizioni, le immagini raccolte e conservate anno dopo anno, tentano piuttosto di supplire alle parole nell’intenzione di trasmetterci l’essenza del suo comunicare con il giardino (Mondadori, pp. 192, € 13,50).
Per illustrare come lo zen vi si realizzi, prendendo in prestito dalla natura i suoi motivi, contribuendo a rivelare il paesaggio di esperienze interiori in una armonia più grande, verso una più ampia consonanza. In giardino, sostiene l’autrice con leggerezza e a tratti ironia, piccoli accadimenti, epifanie, sensazioni, confluiscono in una lettura del mondo, e quindi di noi stessi, che si fa riflessione contemplativa, esercizio di meditazione. Con un atteggiamento che consente di inserirci nella complessità di rapporti, processi, interazioni, accettarne l’impermanenza, prender parte nella pluralità del gioco dei compagni di strada al fluire di un continuo, differente rigenerarsi, del crescere e decomporsi, dell’aspettare, nell’avvicendamento di nascita e morte, di un tempo invariato.
Trapiantata ormai da molti anni in Germania, provenendo da un’antica nobile famiglia giapponese, Miki Sakamoto, che si è formata a Tokyo e poi come antropologa culturale a Monaco, scrive del suo giardino con orto nella periferia di una cittadina della Baviera sudorientale, a cinquanta chilometri dalle Alpi ma con un clima relativamente mite, a quattrocento metri sul livello del mare, tornando spesso ai suoi anni giovanili nel giardino dei nonni con annesso padiglione per la cerimonia del tè, cui si accedeva, inchinandosi, dai quattro i punti cardinali, da piccole porticine, allora ben adatte alla sua statura infantile. Oggi, il suo personale padiglione del tè consiste in un gazebo esagonale in legno nell’angolo nordoccidentale del giardino.
Le connessioni con la cultura del giardino giapponese tornano spesso nelle riflessioni, a partire appunto da questa cerimonia, uno dei possibili percorsi del buddhismo zen, così strettamente collegato al giardino con i molti suoi luoghi dove soffermarsi, fino i concetti di shakkei, il paesaggio preso in prestito, oltre i suoi confini, alla sensibilità per la cosiddetta bellezza dell’imperfezione, e fino alle differenti predilezioni, qui per la rosa, invece di quei crisantemi arrivati forse in Europa da troppo poco tempo (nel 1789) per esser considerati come in Oriente pregiate piante da giardino, espressione di raffinata modestia con cui augurare una lunga vita e divenuti invece addobbo tombale.
Spesso impigliate negli attimi, le annotazioni svisano nel volume tra considerazioni sulla vita delle pratoline, nate dove meglio credono, al mistero del come lo sbucare dei bucaneve tra il muschio e la neve conosca il suo momento propizio, su come si possa dedurre dal volo delle api che le piante di ribes e lamponi han cominciato a sbocciare, fino alla traduzione affettuosa, da lessico familiare, delle Bellis perennis come fiori “perennemente belli” e all’osservazione delle infiorescenze uscite dalle grosse gemme sui rami dei noccioli, come minuscoli polipi, e di come i fiori femminili dai filamenti rossi catturino il polline che passa loro vicino con vischiose zampette da ragno.
Un inventario dove, per quanto neanche nel ristretto del giardino si colga intera la complessità di rapporti e interazioni, pur ci si dice come in essa ci si senta immersi, coinvolti, contemporaneamente osservatori e coprotagonisti nella differenza e interconnessione.
E allora vale il profumo del terriccio come respiro della terra, la consapevolezza di come la maggior parte degli alberi e dei cespugli sia una specie di lascito (e che il nocciolo è venuto su da solo), di come i giardini siano spesso tra gli ultimi spazi vitali rimasti ad api selvatiche e farfalle.
Vale, la lode di farfalle e forbicine, un fare in giardino intriso del saper aspettare e di pazienza, che pure include l’imprevisto e l’inatteso, che del giardino son propri, vale il seguire il tracciato del volo delle lucciole, che impegnando gli occhi, rallenta i pensieri, o il tempo di osservare come gli orli del calice dell’ipomoea, aperti già di primo mattino, verso mezzogiorno si riattorcigliano, per appassire al più tardi la sera. Vale il restare ad ascoltar le cinciallegre, o i richiami di un ciuffolotto che presto divengono parte di quella pacatezza attiva che il giardinaggio aiuta a sviluppare.
Protagonista dello studio della canopia delle foreste tropicali – delle sommità cioè dei grandi alberi, indagati a partire da un laboratorio sospeso tra le loro cime, il Radeau des cimes, una zattera-pallone aerostatico che fluttua nel verde – il botanico esploratore controcorrente Francis Hallé prova a definire qualcosa di così familiare, eppure irriducibile nelle sue molteplici fisionomie, funzioni e relazioni impersonate nelle realtà ambientali più diverse, com’è l’albero, suggerendo di tener conto di molti caratteri arcaici che presentano quelli delle latitudini molto basse, a configurare una sorta di “paleobotanica attuale” e fin anche una norma tropicale, una doxa cui sarebbero naturalmente soggetti gli esseri viventi sulle terre.
Nel suo In difesa dell’albero, Nottetempo, pp. 216, € 25, analizza con un approccio architettonico il meccanismo fondamentale della crescita per reiterazione, che lascia intendere come l’albero divenga, via via, una vera e propria colonia. Con le proprietà di competizione, messa in atto tra le diverse unità architettoniche che costituiscono uno stesso albero, e collaborazione, quando queste, smettendo di svolgere le stesse funzioni, adottano specializzazioni diverse. Fino a interrogarsi sulla possibile variabilità e eterogeneità del genoma all’interno di uno stesso albero e quindi su come lo si possa considerare un organismo unitario la cui individualità si attenua a vantaggio di una condizione coloniale, o piuttosto una nuova individualità che va acquisendo caratteri d’individuo da una colonia in corso di integrazione.
Con partecipazione contagiosa Hallé racconta di specifici incontri. Della biologia come dell’importante ruolo sociale in tutta l’Asia tropicale del Durian, della sorprendente plasticità ecologica dell’Eucaliptus e della sua globalizzazione, frutto di una sfrenata arboricoltura produttivista, dell’epica storia dell’Albero del caucciù che, oltre gli amerindi, lungo cinque secoli, è andata cambiando la faccia del mondo. Dal dominio sulla foresta amazzonica e i suoi abitanti da parte dei “baroni del caucciù”, taluni famosi come Fitzcarraldo, ai tentativi di produrre gomme sintetiche… ai ritorni alla raccolta forestale durante gli embarghi imposti dalla la seconda guerra mondiale, con il collegato rilievo negli armamenti dell’impiego della gomma (tanto da imporne il riciclaggio di guerra).
Oltre a interrogarsi sulle fitopratiche tradizionali (relative alla conservazione dell’acqua, l’aumento del rendimento di fruttiferi, da salvaguardare e promuovere, generalizzandole), fenomeni come la crescita elicoidale, le saldature radicali, l’avvolgimento dei ceppi, ripercorre le tappe della stretta coesistenza tra albero e uomo, indagando, tra ipotesi concorrenti, di caratteristiche riconducili anche a un modo di vita arboricolo, a partire dalla verticalità o la vita diurna, la nostra eredità arboricola, esito di una storia evolutiva comune. E l’idea che gli alberi abbiano significativamente contribuito a plasmarci.
Francis Hallé, In difesa dell’albero, Nottetempo, pp. 216, € 25, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 17, Supplemento de Il Manifesto del 14 maggio 2023
Malgrado il progressivo convergere di ripensamenti in prospettiva critica da ambiti disciplinari diversi, stenta ancora a farsi strada nel dibattito e nel senso comune l’urgenza di ridefinire altrimenti il binomio oppositivo natura-cultura, così a lungo e costitutivamente preso a paradigma del mondo, quantomeno nella cultura occidentale. Con tutte le ricadute a cascata di un dualismo, quando non antitesi, che vede l’uomo separato dalla natura con il suo porsi al di fuori e sopra di essa, autoescludendosi dalle comunità biotiche. Ritenendo perciò la cultura un fatto esclusivamente umano e riducendo la natura a materia, oggetto inerte, sfondo per le proprie attività e, conseguentemente, giustificandone lo sfruttamento senza limiti. Una natura altro da noi, che può esser mercificata e messa a profitto, resa privatizzabile, brevettabile, vendibile
Nell’ambito degli studi delle humanitates ambientali che considerano invece l’uomo immerso nella trama di relazioni con il vivente in un sistema di interdipendenze ecologiche – e, sempre più consapevolmente, in implicazione profonda con un mondo non-umano, studiando quindi modi interconnessi e impatti trasformativi delle connessioni che vi si danno –, l’antropologia evidenzia al riguardo come questa concezione oppositiva natura-cultura sia una costruzione culturale (come peraltro già anche quella sia di natura che di cultura). Una soltanto delle possibili visioni. Occidentale, antropocentrica.
Una concettualizzazione della natura come oggetto esterno, da dominare, da Aristotele alla proiezione umanocentrica del sacro delle religioni monoteiste, da una teologia cristiana che vuole l’essere umano a immagine di Dio dominante all’umanesimo della prospettiva, al dualismo cartesiano tra soggetto conoscente e oggetto della conoscenza e, via illuminismo e positivismo degli stati nazione, con relativa riduzione della natura a spazio quantificabile a disposizione per uno sfruttamento razionale. In una costruzione culturale, spesso motore del colonialismo, che esporta e impone questa visione anche alle popolazioni indigene. Anche là dove questa distinzione non rileva senso, dove son diffusi altri modi di intendere il vivente come sistema di relazioni (di cui si è parte) da conservare, mondi abitati da piante, animali, montagne. Soggetti, persone non umane, in un’irriducibile parentela in metamorfosi continua.
Di questi temi, con l’esperienza della sua ricerca etnografica, specie nel sud est asiatico, e lo guardo di antropologo applicato, ripercorre da capo a grandi balzi i termini del dibattito Andrea Staid nel suo volume Essere natura. Uno sguardo antropologico per cambiare il nostro rapporto con l’ambiente, UTET, pp. 131, € 15,00. Considerando le classificazioni delle diverse visioni culturali riguardo alla natura, da Bruno Latour a Tim Ingold, da Philippe Descola a Eduardo Viveiros de Castro, ad Anna Lowenhaupt Tsing ed Eduardo Khon. E tenendo presenti le acquisizioni della neurobiologia vegetale di Stefano Mancuso o le suggestioni di Emanuele Coccia, del “fare mondo” ispirato dalle piante.
Decolonizzare il nostro pensiero dalla dicotomia di cui sopra – che rischia altrimenti di condizionare anche il nostro modo di pensare l’ecologia, immaginando di preservare una natura come oggetto, con l’illusione securitaria di zone inviolate o scivolando in forme di ecoturismo e vario green washing – relativizza la conseguente idea di progresso e sviluppo infinito del capitalismo, donde derivano degrado di suoli agricoli, per monocolture intensive e deforestazione, esponenziale crescita edilizia e di grandi infrastrutture, produzione incontrollata di rifiuti tossici. Con esiti devastanti, dalla frammentazione e trasformazione dei paesaggi e perdita di biodiversità determinate da un imperante estrattivisimo a un vero e proprio ecocidio, con la distruzione consapevole di interi ambienti naturali. Insomma, tutta una serie di fattori corresponsabili dell’accelerazione del cambiamento climatico con le ricadute in termini di interrelazioni tra conflitti sociali e giustizia ambientale e di genere.
Al centro del volume resta la difficoltà di pensare a ciò che chiamiamo natura come una totalità, organismo vivente di cui facciamo parte imparando a fondarne i diritti, come comincia a essere nelle costituzioni di alcuni stati: la difficoltà di condividere questa scoperta e il racconto della soggettività plurale in una consapevolezza che sappia farsi traduzione pratica.
In questo, nella sua dimensione molecolare, il giardino ci aiuta come occasione di presa di coscienza di un continuo, inesausto negoziato con i vari protagonisti del vivente, dove sperimentare e coltivare contraddizioni, alla ricerca di nuovi equilibri e in una complessiva riconsiderazione critica delle forme di stare, assieme agli altri, al mondo.
La moltitudine di giardini storici distribuiti sul territorio italiano in fitta trama testimonia, anche nella loro dimensione minore, magari in piccoli centri, realtà laterali, snodi secondari, del loro ruolo nella storia culturale e del gusto della penisola, nella dialettica sempre attiva tra ampi orizzonti, mode, processi e tendenze generali, da un lato, e specificità locali, tra sodalizi di prossimità e sistemi di relazioni internazionali.
Come primo volume di una nuova collana di monografie dedicata appunto ai giardini storici italiani aperti alla visita, la paesaggista Irma Beniamino indaga con dovizia di documentazione, tavole e disegni, e felice capacità narrativa le vicende di quello piemontese, sulla collina del Chivassese, de Ilcastello di San Sebastiano da Po, con la scelta che, per noi incomprensibilmente, omette però dal titolo il fulcro del tema, il giardino (e ciò, parrebbe, anche per i prossimi volumi, annunciati con firme prestigiose come quello di Alberta Campitelli e Sofia Varoli Piazza dedicato a Il Castello Ruspoli di Vignanello, ma, si immagina, ancora una volta, piuttosto ai suoi importanti giardini (Neos edizioni, pp. 192, € 24,00).
In auge particolarmente negli anni tra seconda metà del Settecento e tardo Ottocento, anche questo giardino interpreta e riflette le diverse fasi attraversate. Occasione e precipitato volta a volta di interazioni varie tra artificio compositivo, cultura botanica, collezionismo e socialità correlate, dal ridisegno barocco a opera di Bernardo Antonio Vittone – che lo amplia con bordure, parterre simmetrici, un asse visuale prospettico, tipicamente terminante con un’esedra semicircolare, la terrazza affacciata sul panorama collinare – al dissolvimento della struttura formale operata poi, a partire dal 1815, dal progettista Xavier Kurten secondo il nuovo stile paesaggistico d’ispirazione inglese, con percorsi sinuosi, radure a prato, sistemazione della collina a boschetto, dove, improvvisa, si disvela la visuale sul paesaggio della piana del Po fino alla catena alpina.
Assieme al ruolo di progettisti (e giardinieri cui opportunamente si riserva una specifica attenzione), con particolare rilievo emerge la regia tra i proprietari del conte Luigi Raimondo Novarina, conosciuto come marchese De Spin. Alla cui competenza e passone collezionistica in progressione si deve la costituzione qui di un vero e proprio giardino botanico, presto noto ben oltre il Piemonte, in Europa, per rarità conservate e accurata organizzazione di raccolte di piante esotiche.
Scambi epistolari – nonché di semi e piante – in una fitta rete di corrispondenze scientifiche, analisi di cabrei e registri dei conti di casa ne restituiscono la vita e la fisionomia. Acquisto e posa di viti, carpini e biancospini, demolizioni, progetti per il giardino esteriore, la citroniera per ospitarle durante l’inverno agrumi e gelsomini (e utilizzata d’estate come bigattiera per i bachi da seta), la costruzione di serre a vetri inclinati ombreggiate da teleroni e della vasca circolare come riserva idrica, gli acquisti presso un nuovo mercante lionese, l’introduzione e diffusione di specie esotiche, ma anche di spalliere di fruttiferi e colture agricole di diversa utilità.
I viaggi botanici (fin anche a Londra) compiuti ogni estate dal De Spin, le relazioni intrattenute con botanici e collezionisti raccontano dell’accrescersi delle rarità nella collezione e della ricerca continua di attribuzioni sistematiche e aggiornamenti della nomenclatura, confermati nella stampa di diversi Cataloghi del giardino, con ritratti delle piante esotiche e periodiche revisioni, fino a quella del 1818 che recensisce 2.848 entità appartenenti a 708 generi (e fin anche a un Catalogo di vendita del 1825 per proporre le piante in soprannumero).
Alienate le collezioni di piante esotiche dopo la morte di De Spin nel 1833, con la metà del secolo e con il conte Camillo Miglioretti, il giardino avrà un nuovo impulso: una sistemazione aggiornata con la costruzione del tempietto neoclassico a 4 colonne collocato tra le serre, la realizzazione del “passeggio di fuori dal giardino”, la ripresa dei sistemi di spalliere e controspalliere di fruttiferi, con predilezione per le novità varietali di origine francese. Un giardino “fruttaiuolo” dove non mancano camelie, rose, calicanti, forsythia, spiree, magnolie, buddleya, ortensie. E la collezione di 130 dalie accuratamente descritte, divenute a cavallo del 900 elemento caratterizzante della veste estiva del giardino.
PS. Se una serie di interessanti contributi in apparato son disponibili nella versione digitale che arricchisce il volume, questa incorpora però anche le note al testo, che quindi occorrerà consultare in andirivieni con il cartaceo. Una vera crudeltà.
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