Nell’immagine prevalente dello scrittore tutto politico George Orwell spesso sfugge come egli trascorresse davvero molto tempo con i fiori, dedicando loro un’attenzione che tradisce anche allorché deve allontanarsene. Come quando, in una Londra incessantemente bombardata, rivolgendosi nel 1944 ai lettori del settimanale socialista Tribune chiede se conoscono il nome di quella “erbaccia che fa fiori rosa e cresce così abbondante” tra le macerie.
Nella sua vita di molti mestieri, poi di giornalista e saggista politico e di scrittore aveva, quando possibile, scelto di vivere in campagna, allestendo giardini. Due in particolare, come ci racconta la scrittrice e saggista Rebecca Solnit nel suo Le rose di Orwell (Ponte alle grazie, pp. 342, € 20,00) in questa rivisitazione che come confessa è anche un libro sulla rosa nelle sue molte declinazioni ed è pure un libro di molte divagazioni su questioni come la politicizzazione della scienza, lo sfruttamento delle fabbriche di rose di Bogotà, le origini di uno slogan famoso che abbina le rose al pane, l’ossessione di Stalin di acclimatare limoni in Crimea, le implicazioni dell’imperialismo britannico e i benefici che ne avevan tratto le generazioni subito precedenti della famiglia Blair (il cognome di Orwell prima di assumere questo pseudonimo).
Il primo giardino, quello del cottage di Wallington, è nella campagna dell’Hertfordshire nel Sud dell’Inghilterra, dove Orwell era andato a vivere nell’aprile del 1936, raggiunto poco dopo da Londra da Eileen O’Shaughnessy che avrebbe poi sposato nella chiesa locale. Un giardino con animali allestito con rose a buon mercato – come precisa – e alberi da frutto, e di cui narra in dettagliatissimi diari domestici.
A Barnhill, il secondo e più ambizioso, dove, dopo la morte della moglie, dal 1946 tornò a seminare nel paesaggio ondulato il futuro in un orto con lupini, viole del pensiero, primule, rose, tulipani, alberi da frutto: una fattoria isolata non distante dalla costa orientale nell’isola di Jura, nelle Ebridi, di fronte alla Scozia. Luogo remoto in cui trascorse tutto il tempo che gli riusciva durante i suoi ultimi anni di vita. In uno degli andirivieni annota sul diario di esser passato, nei pressi di Newcastle, sulla tomba di Eileen: dove “tutte le rose polyantha … sono radicate bene. Ho piantato aubrezia, mini phlox, sassifraga, un tipo di ginestra della Siria, un tipo di sempervivum, e mini dianthus. Le piante non erano in buonissime condizioni, ma pioveva e quindi dovrebbero attecchire”.
L’osservazione diretta, gli incontri con il mondo materiale, l’attenzione al particolare, il rilievo anche sensoriale dell’esposizione, assumono una loro valenza politica, per farsi talvolta atti di resistenza. In un andirivieni di scala che dalla descrizione di un particolare albero di mele o di quello di tasso nel cimitero del Berkshire trascorre a questioni universali di riscatto e prospettive di posterità, nelle opere di Orwell si incontrano spesso frasi che testimoniano la sua considerazione per la natura, i fiori e i piaceri della vita, il giardino, che è anche un modo per radicarsi nel regno delle percezioni. Lo stesso, nei molti resoconti domestici – cronache e elenchi che perlopiù hanno a che vedere con le piante di cui si prendeva cura e i suoi animali, cose che aveva intenzione di acquistare e di fare – e nelle testimonianze dei contemporanei, stupiti di come conoscesse i nomi di tutte le piante. O ancora nei numerosi articoli in forma di inventario che, specialmente tra 1945 e 1946, quando nel maggio si trasferì a Jura per iniziare il romanzo che sarebbe poi stato pubblicato con il titolo 1984, scrisse celebrando i piaceri e le consolazioni della vita di tutti i giorni – sulle cartoline e il loro assortimento; i tesori nei negozi di rigattiere; i nomi delle specialità culinarie inglesi; in lode, o difesa, del clima britannico o su come dev’essere servita una buona tazza di tè.
Per quanto ricordasse come l’ultima volta in cui nella rubrica che scriveva sul Tribune, avendo menzionato dei fiori, una signora indignata gli avesse scritto protestando “che i fiori sono borghesi”, a chi gli rimproverava di esser sempre troppo critico, nel gennaio 1944 scrive: “a me piace tessere lodi, quando c’è qualcosa da lodare. E in questa occasione vorrei scrivere due righe in lode della Rosa di Woolworth”: quella anni prima piantata a Wallington.
Rebecca Solnit,Le rose di Orwell, Ponte alle grazie, pp. 342, € 20,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 13, Supplemento de Il Manifesto del 16 aprile 2023
Dal saggio del 1946 intitolato Perché scrivo: “In un periodo pacifico avrei scritto libri elaborati o meramente descrittivi, e sarei rimasto quasi ignaro dei miei doveri politici… Ma non potrei sopportare la fatica di scrivere … se ciò non fosse anche un’esperienza estetica … anche quando si tratta di vera e propria propaganda [la mia opera] contiene molto di ciò che un politico di professione considererebbe irrilevante… Finché sarò vivo e in buona salute continuerò ad appassionarmi alla prosa, ad amare la superficie della terra e a prender piacere dagli oggetti solidi e da ritagli di informazioni inutili».
Per quanto in genere le piante trasmettano di sé un’immagine mite e positiva di soggetti incapaci di rappresentare in prima battuta un pericolo di cui diffidare, esistono casi in cui per difendersi alcune di esse ricorrono a strategie fastidiose o pericolose. Pizzicano, pungono, ustionano, emanano odori nauseanti, producono sostanze irritanti che innescano reazioni allergiche, molecole che danno dipendenza e alterano (anche) le nostre percezioni, perfino veleni letali.
Non occorre immaginarle dotate di una malvagia intenzionalità, quanto piuttosto della raffinata capacità di aver messo a punto nel corso del tempo, assieme con le strategie di diffusione dei semi, straordinarie abilità per difendersi dai predatori e adattarsi all’ambiente.
Anche quello così spesso inquinato e alterato da parte di noi umani. Tanto da concorrere alla diffusione incontrollata di quelle specie vegetali esotiche che, in assenza dei loro predatori originari, diventano invasive, con conseguenze gravi in termini di perdita di biodiversità e riduzione della varietà degli organismi viventi, nonché alla crescita estrema di quelle allergeniche: con un’incidenza del fenomeno ormai di salute pubblica che vede le allergie da pollini colpire oggi il 20-25% degli europei, e che si prevede arrivi al 50% entro il 2050.
Di queste Piante cattive ci racconta con spiazzante ironia e meticolosa documentazione di casi la biologa e scrittrice Katia Astafieff (sottotitolo Storie velenose, urticanti e letali, add editore, pp. 187, € 18,00).
Se l’ossido sprigionato in forma di gas dalla cipolla per proteggersi dagli insetti ci fa piangere quando viene tagliata e l’alcaloide della capsaicina sintetizzata dai peperoncini per proteggersi dai predatori – esclusi gli uccelli in grado così di disperdere i semi – è fonte a un tempo di piacere e sofferenza, l’urticante, comune ortica cantata da Victor Hugo (amo il ragno e amo l’ortica, perché l’uomo li odia) ci si dice ha una pericolosa parente neozelandese nella varietà ferox, alta cinque metri e provvista di proporzionali peli urticanti.
Così la mancinella o manzaniglio (Hippomane mancinella) che vive sulle spiagge tropicali e produce un lattice urticante usato per avvelenare le frecce, in Venezuela vien chiamata Árbol de la muerte: è la stessa pianta che Erasmus Darwin, nonno di Charles, medico e botanico, celebra in rima come malefica e sinistra, mentre in Madame Bovary Flaubert ne evoca l’ombra come orizzonte di pericolo in una lettera di rottura inviata a Emma da Rodolphe: «Dapprima non avevo riflettuto, riposavo all’ombra di quella felicità ideale, come avrei potuto fare sotto il manzaniglio, senza prevederne le conseguenze».
Tra le piante che pericolosamente diventano invasive, l’incantevole, ma fotosensibilizzante, panace di Mantegazza (Heracleum mantegazzianum), introdotta nel XIX secolo come pianta ornamentale, divenuta famosa per aver ispirato gli artisti del movimento Art Nouveau dell’École de Nancy, e presto fuggita dai giardini botanici, come testimonia fin la canzone dei Genesis che ad essa si intitola The Return of the Giant Hogweed.
L’ambrosia con foglie di artemisia (Ambrosia artemisiifolia), annuale originaria del Nord America, è sia invasiva, perché importata in Europa nel XIX secolo e all’inizio del XX – pianta “ossidionale” arrivata con il cibo dei cavalli trasportati con le guerre mondiali – sia altamente allergizzante
Tra le piante in qualche modo cattive, figurano le piante assassine, che contengono sostanze molto tossiche, potenzialmente letali, ma anche quelle che variamente alterano la percezione e danno dipendenza. Come il cactus di nome peyotl (o peyote), che contiene mescalina dalle proprietà psichedeliche, o il papavero da oppio all’origine di ben due guerre, o ancora la Datura stramonium conosciuta per i suoi effetti allucinogeni e capace però di alleviare problemi legati all’asma: Marcel Proust consumava grandi quantità di sigarette antiasmatiche alla datura, la cui vendita peraltro fu vietata soltanto a partire dal 1992.
Da non dimenticare il principale alcaloide dell’albero della coca, la famosa cocaina, estratto per la prima volta nel 1855, ma già usato come analgesico dalle società precolombiane e dai coloni spagnoli per far lavorare gli schiavi nelle miniere d’oro e d’argento. E il tabacco, inizialmente considerato pianta medicinale, fumato poi nella pipa, con la fine del XVII secolo, quando il sigaro progressivamente sostituisce quello da fiuto, mentre la sigaretta si diffonderà con il XIX secolo; la cannabis, una delle droghe più consumate al mondo e una delle primissime piante addomesticate dall’uomo (in Cina tracce archeologiche della pianta risalgono all’8000 a.C.), e tutte le piante che forniscono alcol – ogni paese e cultura hanno le proprie – la mora per il kir, l’agave per la tequila, le patate per la vodka e, dalla distillazione della melassa di canna da zucchero, il rum.
L’autrice evidenzia come tuttavia molte di queste temibili piante facciano una sorta di doppio gioco: dannose e persino letali, son spesso utili anche per ricavarne cibo o medicinali e, impiegate a scopo terapeutico, arrivano fino a fornire princìpi attivi anticancerogeni (è il caso del tasso). Questione di quantità e dosaggi. E a ogni buon conto, con i loro poteri insetticidi, quantomeno contro i predatori, molte piante possono diventare un’alternativa valida alla chimica.
Katia Astafieff, Piante cattive. Storie velenose, urticanti e letali, add editore, pp. 187, € 18,00 recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 12, Supplemento de Il Manifesto del 26 marzo 2023
Si rispecchia perfino nei suoi giardini l’identità plurale e continuamente ricombinata, di quel luogo dello spirito che son le terre della Sicilia orientale distese sotto il profilo del vulcano per antonomasia. Fisionomie modellate dall’incessante succedersi geologico di potenti irruzioni primordiali e colate laviche dell’Etna, sempre nuovamente colonizzate dalla paziente, pervicace dinamica della vita vegetale – dai licheni pionieri al bosco –, ridisegnate dall’opera dell’uomo che, per forza di adattamenti e convivenze, le ha trasformate in terra produttiva costruendo nuovi paesaggi in un serrato, secolare dialogo di generazioni.
Così, per campi stretti e qualche panorama, s’avanzano dalle pagine del volume fotografico di Cristina Archinto una serie di ritratti di Giardini all’ombra dell’Etna, tutti popolati d’ingredienti variamente combinati ma sotto il segno comune delle effusioni di quest’habitat aspro e dominante: scenografie basaltiche, oasi tra affioramenti lavici e relativi microclimi; tracce risignificate del passato agrario – tra canalizzazioni delle acque irrigue nelle vecchie saje, muretti a secco, terrazzamenti e pilere, i tradizionali pilastri in pietrame cilindrici del pergolato, ora ricoperti con rose banksia e bignonie –; allestimenti e condivisione di specie mediterranee con piante esotiche – vecchi carrubi e olivastri, agavi e jacarande – acclimatate dal collezionismo, tanto per gusto estetico quanto per curiosità scientifica di tassonomie e associazioni vegetali (Terrimago edition, pp. 108, € 26.00, testi, anche in inglese, di Alessandra Valentinelli).
Un’unica aria di varietà che, dai terrazzamenti, le pareti laviche e gli affacci del giardino di Giulia Gravina a Valverde sul golfo di Catania, trascorre, tra agavi, maioliche, scille peruviane e la collezione di 42 diverse specie di palme del giardino roccioso a terrazze progettato alla fine degli anni Sessanta dal paesaggista Ettore Paternò, con agrumeti e vigneti assortiti a mediterranee ed esotiche esito dello scambio di semi provenienti da tutto il mondo; occhieggia nel giardino a stanze di Rossella Pezzino de Geronimo, come pure a Villa Ortensia, tra le plumerie, il verde smeraldo dell’agrumeto e l’Etna alle spalle, tra le opere artistiche, le 18 varietà siciliane di fico di Villa Trinità Bonajuto e fin nella collezione di piante autoctone proposte nel loro habitat naturale nell’Hortus Siculus catanese.
Cristina Archinto, Giardini all’ombra dell’Etna, volume fotografico con testi di Alessandra Valentinelli, Terrimago edition, pp. 108, € 26.00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 11, Supplemento de Il Manifesto del 19 marzo 2023
Nell’incessante produzione editoriale del forestale, divulgatore e attivista Peter Wohlleben – fenomeno letterario di successo, ora anche come autore di programmi televisivi, conferenziere globetrotter e inspiratore della Forest Academy – si assiste a un cambio di passo nel senso della relazione. La prospettiva del suo sguardo si dilata dagli alberi a Il legame segreto tra uomo e natura. Come recita l’originale del titolo, con un sottotitolo che rende bene il carattere di zibaldone del suo lavoro: Incredibili intuizioni sui 7 sensi umani, sul battito cardiaco degli alberi e sulla questione se le piante abbiano una coscienza (edizione italiana per Garzanti, Il battito del cuore degli alberi, pp. 264, € 18,70).
Al di là del ruolo dell’albero come protagonista che consente la vita sul pianeta, dell’analisi di tradizioni e riti legati agli antichi culti, dei rimedi medicamentosi che ci mette a disposizione la foresta, Wohlleben evidenzia, anche sulla base delle nuove acquisizioni della neurobiologia delle piante, il confine sempre più indistinto tra animali e piante. E in relazione a ciò, inanellando episodi e osservazioni sulle interazioni della foresta con la psiche umana, richiama testimonianze sulla capacità auditiva delle radici e quella degli alberi di registrare fenomeni visivi, domande sul perché le foreste siano verdi, almeno per noi umani, sul tema del fuoco nella relazione tra uomini e alberi, sottolineando come, messi alla prova nella foresta, e magari allenati dall’esperienza, i nostri sensi si rivelino ancora oggi del tutto funzionanti come lo erano migliaia di anni fa, anche se non sempre ne siamo consapevoli.
L’illustrazione di fenomeni come l’abbassamento e innalzamento della pendenza dei rami di alcuni alberi (perlopiù betulle) rilevati durante la notte e ogni tante ore, sorta di vero ciclo del sonno, una sorta di lento battito cardiaco si alterna a considerazioni sullo stupore dei bambini nella scoperta delle pieghe della foresta, al racconto della visita all’albero ritenuto più antico nei boschi della Svezia, l’abete rosso Old Tjikko di circa 9500 anni, alla critica dell’espansione vertiginosa dell’industria del legno – erroneamente considerato una delle materie prime più ecologiche, e invece affatto neutrale dal punto di vista climatico, alimentando in realtà l’effetto serra – con mode e tendenze anche in ambito di piante forestali e gli alberi trattati come pezzi di arredo per la decorazione del territorio (il grande successo dell’abete bianco americano).
Impegnato a sostegno delle battaglie degli attivisti per la tutela delle foreste, quella di latifoglie di Hambach vicino Colonia, con escursioni guidate e costruzione di casette sugli alberi, o quella di Bialowieza, al confine della Polonia colpita con abbattimenti triplicati presentati come una operazione di salvataggio, Wohlleben calcola in almeno 500 gli anni necessari perché si possa riconfigurare una foresta che possa idealmente definirsi primordiale autentica.
Se molte delle questioni poste restano domande senza risposta, il tema della comunicazione tra uomini e alberi è opportunamente posto anche in termini di storia evolutiva.
In un contesto dove il fenomeno di una crescente attrattiva per la natura si sposa con la sempre maggiore mescolanza di specie dagli esiti inediti a partire dal diffondersi indotto dall’uomo di batteri, patogeni e funghi tra i continenti, una serie di cambiamenti si determinano anche nelle foreste.
Consapevoli che il forte legame che abbiamo con la foresta echeggia fin nel linguaggio, toponimi, modi di dire,e che l’abbattimento del 20 % degli esemplari del bosco viene definito “manutenzione forestale”, occorre chiedersi ad esempio cosa intendiamo con l’espressione Aree protette, se il riferimento non è ad altro che a una protezione della natura che serve soltanto al mantenimento del nostro benessere.
Il consiglio è allora quello di provare ad assumere anche un punto di vista arboreo – per noi – ribaltato, di un essere capovolto, con il cervello nelle radici.
Peter, Il battito del cuore degli alberi, Garzanti pp. 264, € 18,70, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 10, Supplemento de Il Manifesto del 12 marzo 2023
Non è certo inedito l’espediente narrativo di dar voce sulla pagina a un protagonista vegetale, direttamente o per interposto narratore, magari in forma autobiografica o romanzata, come ad esempio nel journal intime diun tricentenario albero di pero immaginato da Didier Van Cauwelaert e delle considerazioni che gli vengon prestate quando è precipitato al suolo dalla famosa tempesta che sconvolge il paesaggio, specialmente francese, allo scoccare dello scorso millennio.
In questo caso è invece il biologo e ingegnere forestale Laurent Tillon a raccontare, con lo sguardo affilato da una lunga dimestichezza, come si possa Essere quercia. Come recita il titolo del volume proposto da Contrasto ad avvio della sua collana Tracce, dedicata a ripercorrere con un approccio biografico esperienze di animali e vegetali assortite con immagini in relazione diretta. In questo caso, le foto dell’artista svizzera Irene Kung, tese a restituire l’essenziale di un soggetto per noi così fuori scala, dimensionale e temporale, com’è l’albero (pp. 263, € 21,90).
Laurent Tillon ripercorre la vicenda del suo prediletto, Quercus, una giovane, quantomeno nella misura del suo tempo biologico, quercia di circa 240 anni, nel primo terzo cioè della sua vita possibile, che oggi svetta a più di 30 metri di altezza su tutti gli altri alberi nella foresta di Rambouillet, nelle Yvelines e che da decenni lui torna periodicamente a visitare.
Si tratta, in parallelo, di un resoconto per tappe di biologia vegetale che scandisce anche una storia più ampia e poi quella del mutare nei secoli della nostra attitudine verso la foresta. A partire dalla nascita nel 1780 – data che Tillon fissa per l’origine di Quercus dalla ghianda tra le migliaia prodotte dall’albero madre che riesce a lanciarsi con successo verso la luce opponendosi alla gravità in un paesaggio, allora di radi alberi e brughiera vicino alla palude, – ai 12 metri di altezza (e 10 cm di diametro) raggiunti nel 1810 per i suoi 30 anni. Proprio quando Napoleone I istituisce di nuovo un servizio forestale per regolare l’uso dei boschi dopo che con la rivoluzione francese le norme di gestione della foresta fissate per la prima volta da Colbert erano state sconvolte dalla necessità di far scorte di legna.
Una crescita impetuosa questa compiuta dagli scarsi 10 centimetri nel 1787, quando aveva 7 anni , dopo una lunga stasi che l’aveva vista a lungo immersa tra i rovi, protetta dal morso degli erbivori, in attesa di lanciarsi verso il pozzo di luce apertosi con la caduta nei pressi di un grande albero.
Mentre a 70 anni, Quercus inizia a riprodursi e porta già ben più di 10.000 foglie (un albero anziano e rigoglioso arriva a quasi 800.000), siamo a metà 800: si modifica la fisionomia del sottobosco che si infittisce con la fine della pastorizia nella foresta, esplode la richiesta di legname con la rivoluzione industriale (ma anche le emissioni di carbonio, almeno all’inizio, dal punto di vista degli alberi risultano un beneficio che concorre a una loro più rapida crescita) ed episodi come la guerra di Prussia nel 1870 (Quercus ha oramai 90 anni ed è alto 25 metri) e grandi incendi costellano la vita della foresta. Per la prima volta, assieme a una legislazione e formazione dedicata, si afferma l’idea della programmazione di lunga durata, la pianificazione forestale. Un impegno che, agli inizi del pensiero ecologico, si inquadra nel più ampio dibattito sulla natura e sul posto dell’uomo.
Cento anni dopo – nel 1970 Quercus, alto oltre 30 metri, non cresce più ma dispiega una superficie di scambio con l’atmosfera di 700 mt quadrati – è l’intera foresta che invecchia più di quanto non sia stato per secoli: la meccanizzazione determina il paradosso per cui si posson ora far diventare anziani e più grandi gli alberi senza temere di non poterli poi sfruttare. Tornano i vecchi faggi: alberi tipici delle ultime fasi della successione ecologica della foresta e così le specie collegate, come il picchio nero,
Con l’uso “rivoluzionario” di lasciare sul terreno il legno morto cambia anche il modo di guardare al bosco, mentre con il diffondersi di patogeni e malattie sconosciute, effetto anche degli incroci della globalizzazione, nasce la cultura del monitoraggio internazionale delle foreste. Si cerca insomma nel contempo di estrarre il massimo dalla produzione del legno e però proteggere la biodiversità, di conservarla intatta anche per assolvere alla funzione sociale di accogliere il turismo di visitatori sempre più sensibili
Nel racconto di Tillon, Quercus si svela come un essere unico e a un tempo plurale. Nel succedersi delle età, una specie di colonia vegetale dove ogni parte della chioma assume forma di una quasi indipendenza dalle altre, dove la corteccia stessa è un ecosistema di cui approfittano diverse specie di insetti. Al centro di numerose forme di negoziazione con uccelli, pipistrelli, coleotteri, lucertole, Quercus sostiene l’attività di numerose specie
Parte di un superorganismo in continuo movimento, in relazione con gli altri protagonisti vegetali del bosco dove, sempre in equilibrio negoziatore tra competizione e condivisione e aiuto reciproco, si opera in una dimensione collettiva e vicendevolmente ci si avverte dei pericoli, inviando segnali elettrici e mutualmente ci si sostiene stringendo alleanze, simbiosi, scambiandosi molecole di difesa o zuccheri per via diplomatica attraverso i sistemi di reti radicali.
Registrando ogni reazione al modificarsi dell’ambiente, ogni squilibrio, gli alberi continuamente scrivono la propria autobiografia.
Negli anelli di accrescimento di primavera, come pure nel disporsi dei rami, con la loro crescita inarrestabile nutrita di luce – che conserva tuttavia, per alcune specie, tra cui Quercus, la capacità, di mantenersi a una distanza di rispetto sufficiente per evitare che i rispettivi rami si sfreghino: la cosiddetta timidezza delle chiome.
Così, anche nella loro architettura si può leggere, nella misura dei secoli, la loro storia e gli indizi del dialogo con il paesaggio
In una simultaneità di relazioni ecologiche, messaggi chimici, processi fisiologici che si fa ispiratrice sinfonia di vita.
Laurent Tillon, Essere una quercia, foto di Irene Kung, Contrasto, collana Tracce, pp. 263, € 21,90, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 9, Supplemento de Il Manifesto del 5 marzo 2023
Un libro sulle piante che viene dalle piante, una fitobiografia condivisa. È questo il modo in cui Monica Gagliano, professoressa di Ecologia evolutiva alla Southern Cross University in Australia dove dirige il Biological Intelligence Lab, presenta il suo Così parlò la pianta. Un viaggio straordinario tra scoperte scientifiche e incontri personali con le piante, Nottetempo, pp. 216, € 17,50. Una lettura multilivello dove non è sempre facile districarsi, che vede il racconto dei progetti di ricerca condotti nell’arco di un decennio con esiti di rilievo, oggi acquisiti ma a lungo snobbati dalle riviste accademiche, svilupparsi tra dettagliati resoconti del dietro le quinte di ipotesi di lavoro e sperimentazioni di laboratorio ma anche di incontri da presso con mediatori e sciamani delle piante, guide cerimoniali, divinatori di diverse estrazioni e, tramite lucidi sogni, visioni, apologhi, canti medicinali (icaros), direttamente, con le piante stesse, o il loro spirito.
Una raccolta di storie, dice, scritte ciascuna insieme con e per conto di una persona-pianta. A partire dalla convinzione dell’opportunità di muoversi al confine tra scienza convenzionale e saperi tradizionali, associando all’oggettività di metodo e canoni di quello scientifico la soggettività dell’intuizione, l’esperienza personale del corpo e quella trascendentale dello spirito, profittando dell’insegnamento diretto delle piante proprio all’intersezione tra due modi di conoscenza. Una prospettiva integrata con cui ripercorrere alcune tappe dei più recenti studi sui comportamenti delle piante e relative, nuove dimostrazioni empiriche dell’esistenza qui di veri e propri canali di comunicazione.
Nell’ambito dell’ecologia vegetale, negli ultimi vent’anni numerose ricerche sono andate difatti confermando ulteriori aspetti di un’intelligenza delle piante articolata in meccanismi complessi e modalità distintive. L’esistenza di un’ampia varietà di sistemi impiegati per comunicare e condividere informazioni attraverso il tatto e il contatto meccanico, ma anche mediante la trasmissione di diverse lunghezze d’onda della luce o segnalando per via chimica attacchi di insetti, nonché la capacita di individuare campi elettromagnetici, vibrazioni a bassa frequenza, suoni, di acquisire informazioni sulle risorse disponibili nei paraggi, apprendere dall’esperienza, ricordare.
Monica Gagliano ripercorre le relazioni tra la radice di osha (Ligusticum porteri), un’importante pianta nell’etnobotanica, e la sua determinazione nel perseguire le sperimentazioni sulla comprensione della comunicazione sonora tra le piante che la porterà a registrare gli schiocchi vegetali di chicchi di granoturco, dimostrando come le piante – lungi dalla convinzione che le vuole silenti – emettono suoni, li odono e, sulla base di ciò che odono, modificano il loro comportamento. Mentre, seguendo le istruzioni dell’albero tropicale ayahuma (Couroupita guianensis), avrebbe poi testato l’abilità di alcune piante di apprendere per associazione e le capacità delle radici di individuare l’acqua che scorre sottoterra anche attraverso le vibrazioni acustiche.
Come sostiene l’autrice, si tratta di storie che nascono da un’impresa collaborativa umana-pianta in uno stile narrativo misto, che propone di definire scrittura piantifica. Questo, per dire altrimenti, quanto occorra ormai andar oltre una visione delle piante quali oggetti del materialismo scientifico – costrutto che svalutando loro e il sapere tradizionale a esse correlato e ignorando la storia evolutiva, condiziona, limitandole, molte nostre domande – verso una conoscenza scientifica che le identifica invece come soggetti autonomi, organismi viventi altamente sensibili.
Si tratta in effetti di una storia parallela dove, di là dalle divisioni in un’interminabile serie di polarità, l’incontro con le piante ci invita a confrontarci con una realtà intessuta dai fili della continuità, perché, come esse ci insegnano, “non esiste una soluzione unica per ogni sfida … la diversità e l’accettazione dell’altro sono elementi chiave in qualsiasi strategia di sopravvivenza efficace … un approccio onnicomprensivo permette che affiorino diverse possibilità”.
Le Giornate internazionali del paesaggio alla Fondazione Benetton
Dopo le due ultime svoltesi online, ritorna in presenza a Treviso, presso la Fondazione Benetton la diciannovesima edizione delle annuali Giornate internazionali di studio sul paesaggio, dedicate in questa occasione a rileggerlo Dalla parte del fuoco. Analizzandone quindi Riti, visioni, pratiche di coltivazione nel paesaggio, come recita il sottotitolo. Ad articolare le diverse prospettive che vedranno confrontarsi sul tema geografi, vulcanologi, paesaggisti, botanici e forestali, ma anche antropologi, filosofi ambientali, registi e artisti sonori.
Specialmente alla luce delle urgenze poste dalla sempre maggiore consapevolezza delle ricadute dei nostri comportamenti sul pianeta, il fuoco viene indagato nelle sue molte declinazioni attorno al ruolo trasformativo che questo elemento da sempre svolge, di per sé e nelle invenzioni, nelle pratiche dell’uomo come nel suo nell’immaginario. Dall’arte del fuoco nascosto dei carbonai al ripristino sperimentale di sistemi piro-pastorali nell’isola della Riunione, recuperandone la funzione di catalizzatore della vita sociale, la forza ordinatrice, oltreché distruttrice, nel paesaggio australiano come in alcuni tornanti di svolta nella costituzione delle identità urbane, passando per la millenaria coevoluzione dei nostri paesaggi vulcanici.
Come sottolineano i curatori delle giornate, Luigi Latini, direttore della Fondazione Benetton, e Simonetta Zanon, responsabile ricerche e progetti, occorre ricollocare il fuoco nella discussione sul futuro della Terra, riconsiderandone il ruolo svolto da sempre e anche oggi, diversamente, con urgenza, nella gestione, cura e rinnovamento del paesaggio, “assumendo un nuovo approccio che si basi su un’idea di coesistenza e non su forme di contrapposizione. Ed è necessario promuovere questa vicinanza in termini di visioni progettuali e di cura capaci di tener conto dell’ecologia del paesaggio, recuperando in modo inventivo conoscenze e pratiche tradizionali”.
Intervista a Robin Winogrond
Seguendo un approccio ormai da tempo consolidato, le Giornate internazionali di studio sul paesaggio organizzate ogni anno a Treviso – siamo alla 19a edizione – dalla Fondazione Benetton, incrociando relazioni di taglio scientifico, riflessioni teoriche e esperienze di professionisti dedicate al paesaggio, si avvalgono però anche di una serie di interventi ibridati sul versante artistico.
Così, attorno al tema di quest’anno, Dalla parte del fuoco. Riti, visioni, pratiche di coltivazione nel paesaggio, oltre alla partecipazione del regista Carlos Casas, che tenterà di catturare in un suo viaggio audiovisivo le qualità atmosferiche del paesaggio del fuoco, o dell’artista sonoro basco Xabier Erkizia, che proporrà l’incommensurabile esercizio di ascolto di Un vulcano nell’orecchio, figurano interventi a cavallo tra sperimentazione artistica e progettazione del paesaggio
È il caso di Robin Winogrond,architetta paesaggista e urbanista, cofondatrice dello studio Vulkan con base a Zurigo e docente alla Harvard School of Design, nonché artista ambientale e autrice di installazioni che si misurano con giardini e spazi aperti pubblici.
Nella sua ricerca, avvalendosi anche di concetti guida come geografia dell’immaginazione e reincanto geografico (Alastair Bonnet), lei riserva un’attenzione particolare a cogliere la molteplicità di aspetti dell’atmosfera degli spazi sociali, scegliendo spesso di integrare nei suoi progetti l’esperienza del tempo che passa, come pure quella del senso del movimento, affinché divengano catalizzatori d’immaginazione. A tal proposito cosa avviene con un elemento pervaso da una pluralità di percezioni e significati come il fuoco che è al centro di queste Giornate di studio?
È un punto interessante. Gli antichi greci parlavano dei quattro elementi naturali Fuoco, Terra, Acqua e Aria. Ciò che li accomuna è essere inafferrabili: non hanno un significato o un’identità visiva o spaziale fissa. Questa è la loro magia. Il fuoco ci ipnotizza, ci permette di perderci nel suo immaginario, di fissarlo per ore, senza nessun bisogno di parlare. È un materiale incomprensibile e crea immagini che non possiamo prevedere. È quindi un potente catalizzatore dell’immaginazione. Ci solleva da ogni necessità razionale di “fare” e ci permette, invece, di entrare nel regno dell’essere.
Come architetti del paesaggio abbiamo la fortuna di poter disporre di una tavolozza di materiali magici, ma anche insidiosi, nel senso che è difficile usarli nello spazio pubblico in modo compiuto, tale da far emergere la profondità del loro potere. Dobbiamo sempre fare attenzione a muoverci con leggerezza e a lasciare che sia il materiale a parlare, con l’accortezza di non esser direttivi nei nostri progetti, ma attenti a rendere questi materiali accessibili al nostro subconscio.
Con il suo contributo Falene attratte dalla luce. L’anello di fuoco come calamita sociale, lei illustra il suo progetto di un anello del fuoco di dieci metri che, tra le altre funzioni, ha quella di strumento attrattore, innesco di socialità. Può descriverci come funziona nello spazio pubblico e a quali modelli, a quali vissuti rinvia questo dispositivo?
L’Anello di Fuoco è intenzionalmente multicodificato nelle esperienze che cerca di far emergere da dentro di noi. Questo lo aiuta a sfuggire alle nostre menti razionali e ci permette di sperimentarlo più e più volte, per molti anni, senza avere quella sensazione di “l’ho visto, lo capisco, e né io né la mia mente abbiamo bisogno di tornar lì”. Il progetto opera su una varietà di livelli che parlano a diversi aspetti del nostro essere. Cerco di farlo il più spesso possibile nei miei progetti.
L’anello di 10 metri di diametro interpreta in modo nuovo il tradizionale falò. Basato sul “falò del cowboy” americano, questo Fire Ring di grandi dimensioni è uno spazio di aggregazione sociale sia per gli amici che per coloro che non si conoscono, che crea un senso di comunità su larga scala e al tempo stesso di calda intimità.
Il progetto risponde anche alla necessità sempre maggiore di sperimentare simultaneamente il proprio corpo, la cultura locale e gli stili di vita globali. La sensuale installazione in legno del Fire Ring sulla spiaggia del lago funziona come un enorme divano per i corpi nudi dei bagnanti. Nella cultura svizzera, la grigliata è uno degli sport nazionali più amati, praticato però soltanto tra amici e familiari. L’intervento la traspone in evento pubblico. Esprime allo stesso tempo la storia glaciale del sito lacustre, incorniciando le viste sui paesaggi circostanti e diventando in tal modo specifico per il luogo. Fornisce inoltre una collocazione per il dispiegarsi di una globale “cultura dell’evento urbano” della città.
Il luogo è molto frequentato dai giovani che, stando tra i loro amici si sentono parte di una comunità più ampia e si riuniscono con persone sconosciute, cosa praticamente estranea alla cultura svizzera.
Come convivono nello specifico del progetto, il dialogo e le relazioni legate alle particolarità di un luogo, alla sua dimensione pubblica, al suo paesaggio e quindi alla cultura che lo abita, interpreta, alimenta, con la dimensione assoluta, archetipica, scultorea – tra produzione di luce e ombre, calore, dimensioni magiche – propria del fuoco?
È una domanda meravigliosa. Proprio questa tensione costituisce il fondamento del progetto. La stessa forma archetipica, scultorea e circolare avvolge l’utente in molte storie o sensazioni, agisce come catalizzatore di molte immaginazioni, ma allo stesso tempo ha la capacità di creare vari significati all’interno di specifici contesti socio-culturali e paesaggistici.
La forma primordiale del cerchio esprime intrinsecamente un “incontro” di spazio, energia, concentrazione e percezione. Quindi questo anello di 10 metri di diametro ci dice immediatamente che è destinato a riunire. Segna inoltre un luogo specifico nel grande spiazzo destinato a prendere il sole. È una sorta di strumento di puntamento e diventa una meta, un luogo dove andare, incontrarsi. La sua forma circolare permette all’anello di stabilire un proprio indirizzo nel paesaggio urbano, se così si può dire.
A livello sociale, ha un carattere informale, come per un mobile da salotto gettato nel paesaggio. Gli svizzeri di solito non si mescolano con gli sconosciuti. Se si vuole grigliare da soli, ci si potrebbe sentire in imbarazzo a presentarsi in una delle postazioni vicine, occupandola in modo che gli altri non possano usarla. Ma proprio per le sue dimensioni, l’anello è ovviamente pensato perché molti possano abitarne lo spazio. L’atmosfera informale, da arredo gigante, del Fire Ring, invita a passare, sedersi per qualche istante o stare, vedere chi c’è, restare nei dintorni, fare un pisolino o una grigliata, e offrire qualcosa al vicino che non conosci. Accanto ai lunghi tronchi d’albero della forma principale, una serie di tronchi tagliati servono come tavoli o poggiapiedi, creano spazi più intimi per riunirsi in tanti piccoli gruppi. Così tanto il singolo che una compagnia numerosa si sentono egualmente benvenuti.
Infine, perfezionando la dinamica dei piccoli spazi, materiali e superfici diverse permettono di differenziare le consistenze e i livelli di comfort termico. In caso di falò o grigliate serali, l’anello di pietra funge da tappeto riscaldato sul terreno, uno spazio di calore dove, ancora molto tempo dopo il tramonto è possibile sdraiarsi in bikini sul terreno caldo.
Pubblicato da Andrea Di Salvo su Il Manifesto del 22 febbraio 2023
Appena un mese dopo la marcia su Roma, tra i primi atti del governo Mussolini, nel novembre del 1922 viene disposta la realizzazione in tutti i comuni del territorio nazionale di parchi definiti della Rimembranza. Dove si prevede che a ogni nuovo albero piantato debba corrispondere l’identificazione tramite un’apposita targhetta di un caduto della Grande guerra.
Fortemente voluta dal sottosegretario alla Pubblica istruzione Dario Lupi, al punto di renderlo poi noto come “l’apostolo degli alberi”, si tratta di un’operazione dalla forte valenza simbolica che inserisce una variabile botanica nel più ampio processo di una politica della memoria tesa a recuperare consenso nella rielaborazione collettiva del lutto per la morte di massa del primo conflitto mondiale.
Nella costruzione di un mito unificante che si faccia elemento identitario non mancano certo luoghi deputati a mantener viva la memoria dei 600.000 caduti. Nel generale trionfo iconografico ispirato al tema della morte, iniziative autonome dedicate a singoli soldati – non più i personaggi protagonisti della stagione risorgimentale – si affiancano a obelischi, lapidi e alla spettacolarizzazione di opere scultoree in pietra e bronzo
E mentre, su scala nazionale, si assiste alla monumentalizzazione del paesaggio e dei luoghi della guerra, con i sacrari sui teatri del fronte, e il meticoloso rituale che in cinque giorni di viaggio attraverso il Paese conduce il soldato senza nome verso il memoriale del milite ignoto, i Viali e i Parchi della memoria, da realizzarsi invece nei luoghi di provenienza di quei soldati che lì hanno parenti e amici – e che saranno poi affidati alla custodia perlopiù delle locali scolaresche –, rendono merito in modo egualitario al perdurare dell’identità dei singoli.
Come bene evidenzia l’avvolgente ricerca di Vincenzo Cazzato intitolata Natura aere perennius. Parchi della Rimembranza e luoghi della memoria, questo avviene nel segno dell’associazione uomo-albero, di una metamorfosi di ogni caduto in un corpo vegetale che – sentimentalmente, ma anche fuor di metafora – a ogni stagione riprende vita in primavera nei luoghi che lo hanno visto crescere e per la cura di chi dal loro esempio rileva la staffetta delle generazioni (per l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione – Associazione Parchi e Giardini d’Italia, Montanari, pp. 456, € 30). Una retorica che restituisce dimensione nazionale al lutto individuale e, oltre i simboli minerali, cippi e croci, recupera il vitalismo della natura.
L’aspirazione di Lupi è che da questo nuovo rito patriottico derivi anche un maggior rispetto per le piante e il risveglio di una “coscienza forestale” [del 1923 è la nuova legge in materia] che, come dice, è ben sopita in un popolo che ignora e disprezza gli alberi mentre dopo le vicende belliche occorrerebbe favorire i rimboschimenti – anche contro la recrudescenza delle febbri malariche – e rilanciare l’agricoltura. L’operazione si innesta su un terreno in certo modo già da tempo predisposto da un’altra iniziativa: la Festa degli alberi, istituita nel 1899 su impulso dell’allora ministro della Pubblica istruzione Guido Baccelli nel solco di analoghe esperienze del precedente ventennio che in Nord America traducevano il diffondersi di un sentimento nuovo di rispetto per la natura.
Resa poi celebrazione annuale obbligatoria in tutti i comuni di Italia con l’inizio del 900 – dal 1911, con l’individuazione di una data comune per tutti: l’11 novembre, genetliaco di Vittorio Emanuele II, – la Festa degli alberi prevedeva che li si piantasse sui margini delle pubbliche vie, intorno alle piazze dei mercati, su terreni comunali o proprietà private, coinvolgendo il futuro corpo forestale e soprattutto le scuole, in funzione educatrice.
Con la creazione dei viali e parchi della memoria e la dedica di un albero a ogni singolo caduto, pur nella diversa natura dei due messaggi avviene la saldatura della Festa degli alberi con i Parchi della rimembranza, tanto che negli spazi urbani le due realtà spesso si incontrano e sovrappongono.
Per altro verso i parchi della memoria evidentemente non si pongono come un duplicato della sepoltura. Il loro linguaggio esalta la vita, il reintegrarsi in una matrice universale. Rispetto a cippi, obelischi, croci, lapidi, l’obiettivo è qui glorificare un nome e il linguaggio dei parchi ne esalta la vita che perdura per il tramite dei portavoce vegetali.
Così, nelle dichiarazioni programmatiche del regime e nei tanti discorsi di inaugurazione dei vari Parchi della rimembranza su e giù per la penisola raccolti nel volume – con relative citazioni da Ovidio, Dante, Ariosto, Tasso –, è costante il richiamo sin dall’antichità al tema della metamorfosi dell’uomo in albero, dall’alloro di Dafne a Ciparisso, da Mirra alle Eliadi del pioppo.
Mentre, reso tramite nella relazione guerra-resurrezione – fondativa per il fascismo –, l’albero della rimembranza, simbolo della vittoria sulla morte, finirà per ospitare oltre i nomi dei martiri per la vittoria della prima guerra mondiale, quelli dei fascisti della prima ora. E, ancora, sempre sulla scia dei parchi della rimembranza, altri episodi di appropriazione strumentale dell’antico simbolismo degli alberi si avranno poi con l’istituzione dei Boschi del littorio (1927 con circolare a tutti i prefetti che affida localmente un ettaro all’Opera nazionale balilla) o di quelli dell’Impero, costituiti per celebrare la presenza coloniale nell’Africa Orientale con la guerra di Etiopia 1937.
Trasversale si conferma la presenza degli alberi, oltreché nel diffondersi di metafore e metamorfosi vegetali, nel loro farsi compagni e protagonisti già in guerra. Associati agli uomini al fronte, si ritrovano nella pittura e nella poesia come testimoni violentati e resistenti di un paesaggio di desolazione, monconi frantumati, tra il filo spinato dei reticolati, tronchi rinsecchiti, emblematici. Ma, pure, raddoppiati nella familiarità dei loro nomi che i soldati danno, per distinguerle, alle trincee o come simulacro, alberi artificiali, protezioni utili a nascondere postazioni di tiro realizzate in forma, appunto, di finto albero da appositi reparti di soldati giardinieri, maestri del mascheramento.
Nel volume, ricco di oltre 500 immagini documentarie, Cazzato si appoggia a circolari, leggi, discorsi inaugurali, note ministeriali, lezioni, nonché su di un ricchissimo corredo di cartoline d’epoca – che ben dimostrano la rilevanza identitaria del fenomeno nell’auto raffigurazione dei piccoli centri – e sui riscontri della stampa, perlopiù, com’è ovvio, plaudente – fatto salvo l’Osservatore romano pronto a denunciare la “paganizzazione idolatra” del culto degli alberi che sostituirebbero la croce.
Rilevante la restituzione documentaria e narrativa di quel momento topico che sono i rituali delle cerimonie inaugurali dei Parchi della rimembranza: studiate nei dettagli, con schizzi planimetrici a indicare gli spazi assegnati ai vari partecipanti, la presenza delle personalità, la sincronizzazione di inaugurazioni multiple (a Firenze il 26 febbraio 1923 si inaugura un gran numero di parchi e viali rionali), con banda musicale, messe da campo, benedizione e la retorica dei sermoni in serrata commistione tra codici civili e religiosi.
Significativo è poi il ruolo dei parchi nel ridisegno degli spazi urbani, fin dalle indicazioni per la scelta dei luoghi, né lontani, né scarsamente frequentati, per i piccoli comuni spesso in prossimità del cimitero o di edifici scolastici; nei centri maggiori, occasione di razionalizzazione, come viali di raccordo tra elementi urbani o in coincidenza con la villa comunale (specialmente nel Mezzogiorno). Luoghi panoramici, belvederi, sul limitare murato delle città o in relazione con la presenza di resti archeologici; in convivenza con statue di santi, personaggi illustri, glorie cittadine (a Pistoia il legame è tra eroi della guerra e Puccini); con luoghi già contrassegnati da un qualche peso memoriale (il parco di Villa Glori, a Roma, progettato da Raffaele de Vico e inaugurato nel 1924 sul colle dello scontro, nel 1867, tra truppe pontificie e garibaldini). Fino a casi di valorizzazione in chiave turistica di Parchi come quello di Torino, con la pubblicazione di una Guida dei suoi alberi commemorativi, di pari passo con la rivalutazione di quella zona collinare.
Indicative della cultura botanica del tempo sono le raccomandazioni diffuse con apposite circolari tecniche a proposito di scelta degli alberi, con specie arboree diversificate per clima, altitudine, ma intese a restituire un aspetto uniforme (e quindi la stessa specie e età) e caratteristico dei luoghi (in ogni caso, con la preferenza per cipressi, lecci, pini); tecniche e accortezze nei trattamenti pre trapianto, piantagione, annaffiamento; individuazione del momento migliore per l’impianto – spesso sacrificato al dettato poco stagionale di esigenze tutte politiche; modalità della messa a dimora (buche, tutori, distanze); cure successive.
E qui, rivelatore è il coinvolgimento, sia in fase di organizzazione e inaugurazione dei parchi che poi di manutenzione, di associazioni, circoli, amministrazioni locali, cooperative, comunità di emigranti, associazioni combattenti – oltre alle famiglie dei caduti e agli orfani di guerra –, comitati di raccolta fondi attraverso lotterie, tombole, fiere di beneficenza, spettacoli teatrali, conferenze a pagamento e poi, soprattutto, circoli scolastici, scuole, insegnanti, studenti.
Sempre nel senso dell’auspicato passaggio di consegna tra generazioni e all’interno di quel processo di indottrinamento politico della società che ha nella scuola un suo snodo fondamentale. Fino a fare dell’edificio scolastico un teatro della memoria, un sacrario, con la dedica dell’aula a un eroe della patria e della rivoluzione fascista, con l’introduzione del crocifisso, l’obbligo del saluto alla bandiera e la promozione, oltreché di più convenienti gite campestri, del pellegrinaggio scolastico alla tomba del milite ignoto.
E, sempre in relazione ai Parchi della Rimembranza si inserisce in questo programma l’istituzione di una Guardia d’onore (1923) che, associando le due ricorrenze, con la Festa degli alberi è dedicata alla custodia di parchi e monumenti ai caduti.
Non sarà un caso se, nell’ambito del diffondersi di una sensibilità alla tutela del paesaggio che si avverte minacciato dai rischi derivanti dallo sviluppo dell’industrializzazione, l’universo della scuola, tra stampa e associazioni, sarà ancora una volta coinvolto nell’azione di tutela delle bellezze naturali che dal 1921 prevede vengano segnalate tramite una scheda, propedeutica alla stesura di un vero censimento, quelle da salvaguardare. Per quanto, ancora, tutto ciò secondo una valenza prevalentemente estetica, come di un quadro, un panorama.
Caratterizzati in genere da un disegno semplice, aspetto severo, spesso monotoni, i Parchi della rimembranza propongono nei differenti contesti ambientali perlopiù piccole variazioni sul tema, tra impianto formale, all’inglese, o misto; con eccezioni come nel caso della tipologia di piazza-viale di Lambrate, o disegnati a forma di emiciclo (Grottaferrata), quinta vegetale rispetto a emergenze orografiche o scultoree (Mondolfo), esedre con viali a raggera (Gorizia), o vere e proprie allegorie di trincee, come per il Parco di Vignale Monferrato che riproduce il disegno di camminamenti, gallerie, fortilizi.
Dopo l’indubbio successo che l’iniziativa dei Viali e parchi della Rimembranza riscuote, specialmente al Settentrione, nei suoi primi anni (nel febbraio 1924 se ne contano oltre 2200), e anche se nel 1926 essi vengono dichiarati pubblici monumenti, presto perdono di attrattiva.
Tra danneggiamenti, carenza di fondi e vandalismi, talvolta di segno politico in quanto identificati come strumento del regime, molti parchi della Rimembranza scivolano nel degrado, sopravvivendo a fatica. Ancor più con la seconda guerra mondiale e la caduta del fascismo. E per quanto poco si possa dire che abbiano contribuito alla crescita di una sensibilità civica nel favorire cura e manutenzione degli spazi verdi pure come testimonia quest’indagine condotta in occasione del centenario della loro istituzione, continuano a costituire, tra molti esiti diversi, un patrimonio che va comunque conosciuto e tutelato.
Vincenzo Cazzato, Natura aere perennius. Parchi della Rimembranza e luoghi della memoria, per l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione – Associazione Parchi e Giardini d’Italia, Montanari, pp. 456, € 30 recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 6, Supplemento de Il Manifesto del 12 febbraio 2023
Da sempre al centro di una serie di reciproche attenzioni e convenienze, l’affascinante e complessa vicenda coevolutiva delle relazioni variamente intrecciate tra uomini e rose non può certo prescindere dalla condizione duplice di queste ultime. In quanto soggetto vegetale e assieme icona culturale.
Difficile spesso districare questa dualità. Che individua le rose come emblema di bellezza, dalla purezza di quelle bianche scaturite dalle onde alla nascita di Afrodite alla pericolosa seduzione di quelle evocate nell’Inghilterra vittoriana de La leggenda della Rosaspina del preraffaelita Edward Burne-Jones (1885-1890). Fiori capaci di farsi tramite con il divino per via di offerte e ghirlande, come nei Rosaria, celebrati dai Romani in primavera con gran dispendio di rose appositamente coltivate e commercializzate, e di reinventarsi, nei passaggi tra religioni, alla maniera della poi tradizionale pioggia di petali lasciati cadere sui fedeli riuniti per la messa dall’oculus del Pantheon, oramai consacrato chiesa dei martiri. Rosa pre-monoteistica che nel credo islamico diviene modello botanico del divino e che, per quanto assente nella Bibbia, anche se autoctona del Medio Oriente, finirà poi per essere emblema della conversione dei pagani al cristianesimo. Dove, se la rosa rossa indica il sacrificio e l’espiazione di Cristo – la croce stessa è di legno di rosa – quella bianca, emblema di purezza, rosa senza spine, sarà centrale nella devozione mariana.
Riferimento già di aspirazioni mistiche, percorsi iniziatici, tradizioni esoteriche, alchemiche e veicolo di messaggi in letteratura, dalla Persia classica alla Grecia, a Roma, al mondo cristiano, a quello islamico e infine alla cultura occidentale moderna, in una compresenza di condizioni che la vede associata all’amore fin nel linguaggio, dalla nascente tradizione dell’amore cortese, con il Roman de la Rose (1230), alla florigrafia d’inizio 800 – che a ogni emozione faceva corrispondere un fiore –; oggetto di attenzione estetica e volta a volta, espressione del sentimentalismo romantico, della trascendenza simbolista; simbolo di vita ma anche indicatore decadente di un erotismo trasgressivo e morboso (nell’immaginario gotico vittoriano), presagio di falsità e delusione dietro la splendida apparenza, come pure, invece, rara forma tangibile capace di comunicare, oltre l’analisi razionale, l’ineffabile del processo creativo, di emozioni ed esperienze interiori (Rainer Maria Rilke).
E, ancora, pianta per ricreare mondi da coltivare nei giardini, come pure protagonista e indicatore dell’evoluzione del gusto in pittura – basti percorrere a tema una qualsiasi pinacoteca – nel suo pervasivo diffondersi, nel suo riapparire tra momentanee sparizioni e mutamenti di senso, scivolando nel decorativismo e in perdite di credibilità simbolica.
Ma, pur nel variare e succedersi di funzioni e significati accumulati in differenti contesti e culture, questa pluralità di segni e interpretazioni, la polisemia dove ambivalenze e dualità coesistono nella rosa, deve fare i conti con alcune importanti scansioni che riguardano la sua specificità ecologica e biologica in quanto pianta.
In realtà, le rose del nostro più diffuso immaginario, quelle che oggi abitualmente riconosciamo come tali, la maggior parte delle varietà coltivate e praticamente tutte quelle da taglio che impieghiamo nei mazzi – quelle caratterizzate cioè da grandi infiorescenze, fioriture ripetute, dalla forma del bocciolo densa di petali a spirale, turbinati, dagli steli dritti, di aspetto perlopiù ordinato, spesso quasi prive di spine, dai colori sgargianti e il profumo lieve o inesistente – risultano perlopiù esteticamente ben diverse da quelle conosciute dall’antichità fino a inizio Novecento in Europa.
Con alcune, poche eccezioni – tra cui la Rosa moschata, in fiore tra fine estate e inizio autunno e la damascena, o rosa delle quattro stagioni – prima della seconda metà dell’Ottocento difatti la maggior parte delle rose europee, come gran parte delle altre piante, fiorivano brevemente, soltanto per qualche settimana tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate; avevano corolle più semplici, meno globose, si aprivano in maniera più appiattita, lasciando in evidenza lo stame centrale, spesso profumate, erano caratterizzate specialmente da colori tenui.
Di questo tipo dovevano esser, pertanto, i referenti vegetali evocati da Anacreonte nelle sue Odi, o da Shakespeare in Giulietta e Romeo.
Mentre, le rose tenute in mano dal giovinetto che nell’Allegoria di Venere e Cupido di Agnolo Bronzino simboleggia il Piacere e che sta per inondare la coppia di petali mentre sembra non accorgersi della spina che gli trafigge il piede destro (c. 1545, Londra, National Gallery), difficilmente possono essere associate a un gruppo di rose cinesi attestato in Europa soltanto a fine Settecento. In un improbabile attribuzione che quindi scardinerebbe datazioni consolidate in rodologia, dato che è soltanto nel corso dell’800 che, a opera specialmente degli inglesi, si compie la rilevante migrazione delle rose dell’Estremo Oriente verso Ovest – assieme alla pratica di ribattezzarle all’occidentale, spia ulteriore della pervasiva attitudine imperialista del tempo.
È con l’arrivo in Occidente delle rose cinesi che si introduce qui in maniera massiccia anche il tratto distintivo della rimontanza, ovvero della loro capacità di fiorire ripetutamente per un lungo periodo. E che, più in generale, per via di ibridazioni e incroci con esemplari europei e mediorientali, si determina un’importante rivoluzione nei tratti del corredo genetico della rosa, nel suo aspetto e nelle caratteristiche complessive. In un più ampio processo di esperimenti sistematici e piani di coltura, guidati questa volta da una Francia presto all’avanguardia nella coltivazione delle rose a partire dall’impulso datole a cavallo tra Sette e Ottocento da Joséphine de Beauharnais, moglie di Napoleone Bonaparte e imperatrice, con la sua collezione nella tenuta di Malmaison, e dalla scoperta delle leggi dell’ereditarietà biologica.
Si affermano così le rose moderne che discendono perlopiù da questi incroci, dalle famiglie degli ibridi di tea – boccioli lunghi e snelli, retti singolarmente da fusti verticali che conferiscono alla pianta la sua forma – poi, con gli anni 50 del 900, delle floribunda – un arbusto molto alto, con fiori compatti a grappolo.
Fisionomie quindi con fattezze tutte ben distanti, per dirne una, dall’esemplare di gallica semidoppia legata a un sostegno sul quale si poggia un usignolo negli affreschi di epoca romana della Casa del bracciale d’oro di Pompei, o da quelle della siepe che spartisce la scena della Battaglia di San Romano di Paolo Uccello (Londra, National Gallery, 1438 c). O ancora da quelle intese come memento della caducità della vita nel seicentesco dipinto di Jan Davidsz De Heem, Vanità di natura morta con teschio, libro e rose (Stoccolma, National museum 1630 c.), o altrimenti oggetto d’attenzione scientifica, negli stilemi del genere del disegno botanico, come nell’imponente corpo di fedeli riproduzioni naturalistiche all’acquarello che Pierre-Joseph Redouté, il cosiddetto Raffaello dei fiori, realizza dal vero proprio a partire dalle piante fisicamente raccolte nel parco della Malmaison. Finché, alla fine dell’Ottocento, di pari passo con il loro declinare come riferimenti simbolici immediati, queste protagoniste vegetali risulteranno piuttosto occasione per impressioniste sperimentazioni cromatiche, dov’è difficile, nello specifico, individuare quali siano le rose raffigurate. Per quanto nel Cesto di rose di Henri Fantin-Latour (1890) Morley suggerisca di riconoscere “delle centifolie, delle tea, delle Noisette e quello che parrebbe un ibrido perpetuo o un ibrido di tea”.
Allevate per assecondare un gusto che predilige ormai i colori chiari e accesi di una modernità che impone anche a loro il passo continuo dell’innovazione, le nuove rose si affermano nel quadro di un sistema socioeconomico dove, tra fiere di floricultura e competizioni tra coltivatori, nella loro diffusione e commercializzazione entrano in gioco anche il marketing – con episodi di svolta come il successo decretato dall’intitolazione, nel 1945, a «Peace» di una rosa immessa sul mercato distribuendone una piantina a tutti i delegati della sessione inaugurale delle Nazioni Unite –, il diritto d’autore e le leggi sui brevetti (il primo su un vegetale, dell’agosto 1931, riguarda proprio una rosa ibridata), con relativi obblighi legali sugli impieghi onomastici. Che comunque riflettendo il sentire comune, in un processo di democratizzazione anche onomastica, dal riecheggiare titoli e cognomi nobiliari trascorre verso nomi che riecheggiano il glamour del cinema e la cultura pop. Dove la rosa è protagonista costante, dalla canzone alla letteratura di intrattenimento.
A complicare le cose, nel gioco incrociato delle tendenze e delle mode, mentre cresce il successo per le rose moderne di cui si è detto, si assiste però di converso a una minoritaria ma qualificata reazione contro l’estetica tutta formale di queste nuove varietà. Anche in relazione all’eccesso di segni, interpretazioni, significati di cui le rose si sono andate caricando nel tempo, si sostiene che occorre invece tornare alla pianta in sé. Non a caso, nel dopoguerra si torna a parlare di rose selvatiche, rose «classiche» da giardino, di vecchie rose, per come erano fino all’avvento degli ibridi di tea: spesso più adatte alla coltivazione, oltre che più resistenti e più longeve, con profumi più forti e differenti tra loro, come pure ricche in varietà di forme, per quanto limitate nella gamma di colori tenui, epperò ben più raffinati rispetto a quelli chiassosi, innaturali, delle moderne.
A sua volta, la moda delle vecchie rose produce, a partire dagli anni Ottanta, l’aspirazione per «nuove» rose che mantenessero però anche alcune delle migliori caratteristiche delle vecchie varietà da giardino: vere e proprie “varietà storicizzate o postmoderne”, dette rose inglesi, che, stilisticamente, hanno significativamente corretto la nostra concezione delle rose odierne.
Elemento vivo, che accompagna nascite, corteggiamenti, matrimoni e anniversari, fino ai riti funerari, la rosa è una pianta che con tutto il suo portato culturale si è fatta e si fa presenza comune nella nostra vita. Farmaco, distillato per oli e profumi, ingrediente culinario, accessorio per abiti femminili o da appuntare all’occhiello, fiore da taglio diffuso a livello globale (250 milioni sono le rose vendute soltanto negli Stati Uniti, nel 2018, per San Valentino, nonostante la festa cada nel freddo febbraio), emblema nazionale o eponimo al punto di individuare in molte lingue un colore, strumento, perfino, di espansionismo (assieme al modello con cui si identifica), è il fiore più amato al mondo, almeno in Occidente, e oggi il più coltivato anche in Cina dove pure per secoli non ha certo ricevuto le attenzioni riservate a peonie, crisantemi e bambù.
La moltiplicazione e il diversificarsi nei secoli delle varietà delle rose in quanto soggetti vegetali e la pluralità di usi e funzioni che noi abbiamo assegnato loro, anche in quanto catalizzatori di senso, sono state e sono volta a volta esito di prolungati, reciproci interessi incrociati. Quello umano nei confronti della natura delle rose, che, inducendo e cogliendone le mutazioni, ne valorizza caratteri estetici come la rifiorenza, ma anche fisiologici, di robustezza e capacità adattativa a condizioni difficili e perfino all’incuria, contro la presunzione della fragilità che sotto il loro aspetto raffinato le rose lasciano ingannevolmente supporre; e viceversa, quello della rosa, con le sue importanti trasformazioni morfologiche adottate per andare incontro a gusti e disponibilità dei nuovi interlocutori umani, in modo da suscitarne e mantenerne l’attenzione, per poterla poi sfruttare nella logica della selezione naturale.
Che la si indossi come gioiello floreale, sia colta per decorare le case o significare messaggi religiosi, valori o sentimenti, che sia raffigurata in dipinti, oggetti d’arredo, carte da parati o che si affolli a crescere nei grandi e piccoli giardini, anche quelli suburbani o delle villette per nuovi appassionati di giardinaggio, per la rosa, essere ritenuta bella è un vantaggio evolutivo che ne aumenta e garantisce la diffusione.
A partire dai primi anni Novanta, anche alla luce dell’aggravarsi delle problematiche ambientali e nel quadro di un complessivo, paradigmatico ripensamento critico dei comportamenti dell’uomo nei confronti del vivente, si è andata affermando un’attitudine neonaturalista che, privilegiando attenzione e valorizzazione anche nell’estetica del giardino ai processi spontanei e associativi in natura, sembrerebbe per alcuni versi minacciare il ruolo della rosa, e la sua postura, molto artificiale.
Una messa in crisi dell’estetica e del valore attribuito al ruolo simbolico tradizionale della rosa che l’arte contemporanea testimonia con l’insistenza sulla sua continua metamorfosi, anche di significati. Nelle opere di Cy Twombly (Analysis of the Rose as Sentimental Despair,1985, con citazioni poetiche, e la serie di enormi quadri intitolata semplicemente La rosa, 2008), nelle rose di legno policromo del Grande vaso di fiori (1991) di Jeff Koons o in quelle gigantesche (alcune addirittura alte otto metri) disposte da Will Ryman nel 2011 lungo dieci isolati di Park Avenue a New York.
Ispirazioni per una re-invenzione della rosa al futuro, da restituirsi magari invece al suo carattere più spontaneo e disordinato. Quello delle varietà più irregolari, di rovi rampicanti o copri suolo
Quando nel 1967, Josephine Johnson inizia a lavorare a L’isola nell’isola – resoconto di un anno dal suo ritiro tra le colline del nativo Ohio sud-occidentale che, stagione per stagione, si squaderna in un brulicare condiviso di esperienze nel paesaggio e relazioni con protagonisti e compagni di vita, perlopiù piante e animali, pochi gli umani –, a muoverla è assieme l’urgenza dichiarata di registrare tutto quanto tien caro tra quel che in natura la incanta e per converso l’incapacità di separare il senso di tanta bellezza dall’incipiente, drammatica consapevolezza della distruzione che se ne andava facendo.
Sempre soltanto evocate restano qui le correlazioni tra povertà, guerre, costrizioni, disuguaglianze, in primis il razzismo, e sfruttamento sconsiderato delle risorse e dell’ambiente, che la avevano vista promuovere antesignana diverse campagne a livello locale e comunitario e che nel 1969, anno della pubblicazione del volume – ora riproposto da Bompiani nella sua nuova collana Gaia, pp. 253, € 18, traduzione di Beatrice Masini e illustrazioni di Chiara Palillo – la Johnson evidenzierà esplicitamente in un editoriale sul New York Times. Tematiche in qualche modo già incrociate nel suo primo romanzo Ora in novembre – con sullo sfondo le difficoltà innescate dalla dust bowl, la serie di tempeste di sabbia che negli anni Trenta colpirono le grandi pianure degli Stati Uniti – romanzo che nel 1935 la aveva reso la più giovane vincitrice del Premio Pulitzer per la narrativa, a 24 anni, per quanto sarebbe poi rimasta autrice per molti versi dimenticata.
Osservatrice curiosissima di ogni fremito del vivente, incantata dalle creature compagne (e specialmente dagli uccelli), senz’esserne – dichiara – una fanatica, attorno a quel luogo amato che si fa snodo identitario e innesco creativo, ci fa partecipi di un presente che dal tempo fulminato nel gelo d’inizio d’anno alla luce vetrificata del febbraio che lo segue, sfoglia le stagioni, magari in compresenza sui versanti differenti di due colline vicine, fino agli incantesimi agostani del nero occhieggiare di semi dell’aglio selvatico, passando per l’aprile, con quel troppo di tutto,
Mentre si arrampica sulla collina delle lumache, o passa a trovare le tre grandi pietre o, ancora, in cerca di un nido, attraversa il boschetto dei noci e la piccola forra della marmotta, dismesse le cesoie e “la passione bizzarra di tutto riordinare”, confessa che il desiderio d’essere una grande scrittrice a tutti i costi è passato. Ho capito, confida: “non posso rinunciare a tutto il resto di me, al mio affollato me”. Ma i protagonisti del suo narrare sono felci enormi che tengono insieme i fianchi della collina, scarabei smeraldini che lampeggiano sulle pietre, la tartaruga con la sua la sua antica testa di serpente, lo spiritello allegro, contro ogni vulgata, del gufo e le famigliole di procioni e opossum che mangiano insieme dalle ciotole che lascia loro attorno a casa. Ancora, le alte, delicate guglie del giacinto selvatico, le api che sciamano nella menta, come pure l’ancestrale masso consunto con cui fermarsi a discorrere.
Tra predilezioni e antipatie – le scintillanti coccinelle a puntini amate dai giardinieri e la marea dei bruchi che procede ingobbita a ondate distruttrici – in una scrittura serrata, di frasi brevi, ritmate a restituire l’incalzare molteplice di compresenti visioni incrociate, la presa diretta è sempre in equilibrio tra una resa evocativa, fortemente sensoriale, impressionista e la precisazione scientifica, entomologica, ornitologica, che si consente perfino vere digressioni botaniche.
Abile nel restituire i molti strati di vita dei luoghi, come per il mondo magico racchiuso nella pozza sotto il ghiaccio o nelle fenditure sui tronchi ripiene di funghi come ostriche, o anche per il sentiero di trillium bianchi che si buttan giù dalla china verso il torrente dove quell’enorme albero si protende come un ponte di muschio, … fino ai territori invisibili che i corvi volando separano in cielo, o a quelli disegnati dai percorsi tra i rami dallo scoiattolo che, voltandosi, balza, corre, salta, la Johnson trascorre con disinvoltura dalla scala ravvicinata degli interpreti della vita minuta a quella distante, d’insieme, dei loro orizzonti ecologici. Accordandosi a ritmi, suoni, colori e profumi dell’incedere naturale.
Josephine Johnson, L’isola nell’isola, Bompiani Gaia, pp. 253, € 18, traduzione di Beatrice Masini e illustrazioni di Chiara Palillo, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 2, Supplemento de Il Manifesto del 15 gennaio 2023
Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice.Ok