L’essere immersi nel flusso costante di relazioni del vivente che chiamiamo natura, ci invita a riflettere su un inedito incrocio di pratiche e saperi – necessariamente, assieme scientifici e umanistici – in una consapevolezza nuova che si accompagna a una diversa attenzione al paesaggio animale e alle società dei vegetali, e specialmente – inevitabilmente – all’evidenza dell’interdipendenza nelle relazioni che con essi intratteniamo. E che, assumendo la vertigine di una reciprocità che riconsidera la tradizionale distinzione tra soggetto e oggetto, ci invita ad analizzare i modi in cui questi altri mondi ci orientano e ci condizionano sui più diversi piani.
Da sempre attento ai temi che indagano le nostre reciproche relazioni con le piante – come le usiamo e come ci usano – è il percorso del giornalista Michael Pollan, autore di diversi libri di successo, da Il dilemma dell’onnivoro, sul rapporto tra cibi naturali, industriali e salute, a La botanica del desiderio dove, a partire dalla premessa che i desideri umani (come il nettare) facciano parte della storia naturale, incrocia botanica, letteratura, storia sociale e la poco convenzionale prospettiva dell’assunzione del punto di vista delle piante, indagando i modi in cui le specie domesticate hanno impiegato gli ultimi diecimila anni a escogitare modi per nutrirci, guarirci, vestirci … impressionarci. Com’è certo il caso di quelle considerate nel suo ultimo testo, Piante che cambiano la mente, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, Adelphi,pp. 293, € 20,00.
In questo volume Pollan si concentra su tre di quelle che si rivelano produttrici di sostanze che, se dal loro punto di vista nascono perlopiù come strumento di difesa o di conferma, noi umani utilizziamo invece normalmente per modificare la nostra coscienza: calmare, manipolare o alterare, stimolare.
Sostanze psicoattive fortemente presenti nella nostra storia, impiegate per usi rituali e cerimoniali, o per stimolare il nostro metabolismo e entrate talmente ormai nel quotidiano da aver smarrito la percezione del loro potere alterante. Come la caffeina – contenuta, oltre che nel caffè, anche nel tè, e in misura minore in diverse altre essenze, tra cui il cacao – che, assieme alla morfina, derivata dal papavero da oppio (Papaverum somniferum), e alla mescalina (ricavata dal cactus Lophophora williamsii, noto come peyote e da quello detto di San Pedro-Trichocereus macrogonus var. pachanoi), vengono raccontate con uno stile affabulatorio che mira a coinvolgere, tra domande condivise e l’irrompere di spiazzanti provocazioni, allineando dati puntuali di ricerche, interviste a testimoni e variamente esperti – di orticoltura, giurisprudenza, nomenclatura chimica, venditori di sementi, esponenti del dipartimento antidroga e della controcultura, botanici e etnobotanici, indigeni portatori di medicina –, esperienze ed esperimenti, anche su di sé, e verifiche dirette nel proprio giardino.
Il resoconto delle sperimentazioni giardiniere, estetiche e farmacologie sui papaveri effettuate da Pollan nel contesto della guerra alla droga del 1996-97, viene così riproposto in una versione integrale, allora autocensurata. Dalla semina allo sfrontato fiorire, alla descrizione funzionale della serica friabilità dei petali di quei fiori così spesso soggetto prediletto da tanti pittori, all’incisione delle capsule incoronate da cui trarre l’amara linfa lattiginosa da essiccare. Tra riletture delle Confessioni di un mangiatore d’oppio di De Quiencey e le descrizioni dei sogni avuti da Coleridge sotto il suo effetto, nonché la sottolineatura dell’importanza nella medicina fin dalla sua versione ottocentesca, sotto forma di laudano, si evidenzia il paradosso per cui acquistare semi e coltivare papaveri, non di per sé illegale, lo diventava quando il coltivatore sa come ricavare l’oppio.
Alla narrazione de Le porte della percezione di Aldous Huxley si richiama poi l’esperienza della partecipazione a una cerimonia di condivisione della mescalina tratta dal cactus peyote – pianta condannata già nel 1620 dall’inquisizione messicana – che, rimuovendo il filtro della coscienza che normalmente modula le enormi quantità di informazioni di cui siamo inondati, induce una radicale immersione della mente in un presente dalla vastità inestinguibile, sensorialmente dilatato, con la capacità di percepire centinaia di sfumature di colore.
Apprezzata invece da Antonin Artaud per cui aveva il “potere di re-incantare un mondo che gli dei avevano lasciato”, ma adoperata da almeno 6000 anni dalle popolazioni dell’America del nord, viene abbracciata come religione negli anni 80 dell’800 dagli indiani nativi confinati nelle riserve, che, secondo una legge del 1994 son gli unici ad avere il diritto di consumare il peyote.
Nel caso della caffeina, ricavata invece perlopiù a partire dalle piante di Coffea e, per il tè, di Camellia sinensis, che nel corso della loro evoluzione hanno imparato a produrla per dissuadere gli animali dal mangiarle, disorientandoli o rendendoli inappetenti, o per amplificare la memoria di impollinatori resi così più affidabili nel tornare sui fiori, l’esperimento di Pollan è quello di smettere di assumerla. Rinunciando all’incremento che anche in noi umani induce nella capacità di attenzione e concentrazione, memoria, prontezza, vigilanza.
Valutando così per sottrazione gli effetti di alterazione di stato, che sembra tuttavia normale proprio perché così diffuso e condiviso, in una forma di dipendenza regolare che coinvolge il 90% delle persone di tutto il mondo. Anche se, in realtà non ci dà nuova energia, mentre non fa che nascondere o procrastinare l’assalto della stanchezza. Magari fino al prossimo caffè. Quella tazza di “sole concentrato”, come lo definiva il naturalista Alexander von Humboldt.
L’incontro tutto sommato recente delle piante che producono caffeina con l’Occidente data intorno alla prima metà del 600, quando, sul modello delle città arabe le prime botteghe di caffè (solo a Costantinopoli se ne contano 600 nel 1570, dove esso costituisce per il mondo islamico una valida alternativa all’alcol) si diffondono a Venezia (1629) e poi in Inghilterra (1650, Oxford). E lo stesso per il tè dall’oriente, ricco di rituali e accessori, per quanto associato specialmente alla vita domestica. Per i Caffè, si tratta spesso di luoghi distinti in base alle diverse tipologie dei frequentatori – scienziati, assicuratori, mercanti, cerchie letterarie – e non sarà un caso se una delle prime riviste inglesi, The Tatler (1709), definirà le diverse rubriche in cui articola, proprio con i nomi dei vari Caffè, volta a volta identificando il tema in base all’interesse dei suoi habitué.
Per quanto Alexander Pope nel Ratto del ricciolo renda omaggio al potere dell’infuso “che lo statista rende saggio”, oltre a somministrare bevande, i nuovi spazi pubblici, sono occasione di scambio d’informazioni e opinioni tanto da meritare, seppur inutili, molti tentativi di chiusura come focolai di dissenso. Con Defoe, Swift, Sterne si sostiene addirittura che la cultura dei Caffè abbia modificato il tono formale della prosa inglese nel segno dell’introduzione del parlato. Ma in ogni caso, certo un po’ estensivamente, si sostiene che “la caffeina ha influenzato l’illuminismo, l’esplosione della scienza e il razionalismo … ha contribuito alla rivoluzione scientifica e quella industriale”. Tra i suoi fans, ferventi sostenitori della bevanda, Voltaire, Diderot e Michelet, per il quale “accresce la purezza e la lucidità … illumina in un istante la realtà delle cose con il lampo della verità”, nonché il consumatore di impensabili dosi di caffè Honoré de Balzac (che suggerisce anche una ricetta di somministrazione “a secco”, in un resoconto su come ci si sente quando si consuma troppa caffeina).
Con la caffeina e il diffondersi di un nuovo tipo di pensiero, piuttosto lineare e astratto, si innesca una serie di effetti trasformativi su economia, vita quotidiana, sviluppo della scienza, stili di vita (non ultimo il valore aggiunto in termini di salute pubblica di bevande che prevedevano la bollitura, con l’acqua, dei microbi).
Rimpiazzando almeno parzialmente l’uso dell’alcol, caffè e tè aumentano la resistenza e la memoria, incoraggiano la concentrazione, esaltando lucidità e potenziamento cognitivo, ideali nel passaggio dal lavoro fisico dei campi a quello di precisione del tenere registri e manovrare macchinari
Nuovi rituali scandiscono la giornata – se Thomas Stearns Eliot farà dire a un suo personaggio “Ho misurato la mia vita con cucchiaini da caffè” (J. Alfred Prufrock, ne Il canto dell’amore) – assieme a una nuova disciplina temporale del lavoro che induce l’aumento della produzione, e il lavoro notturno, consentito dal mantenersi svegli e vigili di là dai ritmi del sole. Mentre spiccano episodi come l’affermarsi a metà anni 50 del 900 del moderno concetto di pausa caffè (a lungo in dubbio se da retribuirsi per l’aumento indotto della produttività).
Fino a far della caffeina un nuovo bene di lusso quotidiano, ancora oggi, specialmente per quanto riguarda il caffè, in gran parte stretto dentro una filiera fondata su un piccolo numero di multinazionali in un regime di sfruttamento economico – “droga perfetta … anche per l’ascesa del capitalismo”.
Resta da dire dei molti temi via via incrociati in un racconto a prospettive multiple, con letture storiche, antropologiche, biochimiche e botaniche che variamenti interloquisce con esperti. Della natura bifronte di sostanze considerate in diversi periodi e orizzonti, volta a volta tossiche e illegali, strumento per pratiche spirituali, mercanzia; dei diversi significati che a queste piante psicoattive attribuiamo spesso piuttosto in forza del contesto culturale di partenza che delle loro qualità intrinseche; del vantaggio di una loro felice strategia evolutiva che, utilizzando la specie umana come vettore in ragione della nostra predilezione per gli effetti psicoattivi delle sostanze da loro offerte ha consentito loro – una volta sottratto agli arabi il monopolio del commercio di caffè, da allora coltivato dapprima a Giava, dalla Compagnia olandese delle indie orientalie dai francesi alla Martinica – di accrescersi mirabilmente in termini di numeri e habitat conquistati.
Dalle tutto sommato ristrette zone di origine in quasi 11 milioni di ettari per il caffè e più di 4 per il tè. E ciò, malgrado l’esigente necessità di particolari condizioni di crescita – molta pioggia in altitudine – peraltro sempre più insidiate dal cambiamento climatico.
Michael Pollan, Piante che cambiano la mente, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, Adelphi,pp. 293, € 20,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 47, Supplemento de Il Manifesto del 4 dicembre 2022