Dove la natura si impiglia nel riflesso del nostro guardarla

Nei suoi Voli vespertini e altri saggi su ciò che la natura ci insegna la poetessa e scrittrice inglese Helen Macdonald, che fin dall’infanzia si vuole assieme naturalista – per anni allevatrice e studiosa di falchi nel Galles – svisa sovente tra intuizioni, emozioni primigenie e quel metodo di osservazione di animali e piante che le consente di intercettare, per frammenti, segmenti, macchie intraviste e quindi raccontare quegli incontri reali, eppur sempre emblematici di storie e associazioni attribuite, dove la scienza nulla riesce a sottrarre al mistero e alla bellezza (Einaudi, pp. 312, € 20,00).

Come in una di quelle evocate guide naturalistiche, dove tra illustrazioni, tabelle, disegni al tratto lo sguardo si fa acuto e familiare nell’esperienza sul campo e tra tecniche di riconoscimento rapido degli uccelli in volo,  la fredda luminescenza delle lucciole, la magia delle lepri, messaggere della fine dell’inverno, il volo alternato dei rondoni, che per anni non si posano mai a terra, con quei loro voli vespertini – improvvise, crepuscolari, a lungo misteriose ascensioni fino a 2500 metri per riorientarsi –, ma anche la soggezione delle eclissi solari o la fascinazione dei nidi e il parlare attraverso un guscio, il battezzare quegli alberi che ospitando intere comunità di viventi danno forma ai paesaggi, fin nel rilucere delle bacche del sorbo o nei cespi di vischio, son tutte occasioni per incrociare temi che ci interpellano, individualità, diversità, selvaticità di una natura dove sempre s’impiglia il riflesso del nostro guardarla.

Giacomo Balla, Volo di rondini, 1913

Tra essenziali passeggiate nei boschi invernali dalle compresenti temporalità, o sopresi in riserve ungheresi dall’illusione ottica di stormi d’ali battenti di gru cinerine, condotti per pellegrinaggi naturalistici, tanto in oasi remote come sulla cima dell’Empire State Building dove osservare da un diverso punto di vista il volo notturno del transito stagionale di uccelli migratori sopra la città, sempre siamo avvertiti del rischio che la vertiginosa accelerazione delle conseguenze dei cambiamenti climatici in termini di distruzione degli ecosistemi finisca per diventar parte di una narrazione sulla natura che ci rende assuefatti all’idea della normalità di una continua riduzione, perdita, scomparsa.

Helen Macdonald, Voli vespertini e altri saggi su ciò che la natura ci insegna, Einaudi, pp. 312, € 20,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 36, Supplemento de Il Manifesto dell’11 settembre 2022

Varietà botaniche dal mondo arabo

Corredato di contributi che ne attualizzano i riscontri nel successivo dibattito storiografico, viene oggi riproposto lo studio dedicato alla metà degli anni Settanta da Andrew M. Watson a La rivoluzione agricola araba e la sua diffusione, 700-1100. Con uno sguardo attento alle significative ricadute di lunga durata sulla composizione del paniere delle biodiversità agricole nella storia della nostra alimentazione (sottotitolo dell’edizione per Slow Food, alle radici di ciò che mangiamo oggi, con saggi di Bevilacqua, Squatriti, Biasillo (pp. 149, € 16,50).

Con l’estensione per secoli del dominio arabo a una vasta area del mondo, in un ininterrotto trasmigrare di uomini, tecniche e saperi si trasferirono anche piante originarie delle terre di quel vastissimo impero, dall’estremo oriente del califfato, in India, per via di Persia, Iraq, Siria, Egitto, fino a Marocco, Sicilia e Spagna. Alberi, ortaggi, cereali, legumi si acclimatarono così in tre continenti, assicurando la diffusione, tra gli altri, di riso, sorgo, grano duro, canna da zucchero, melanzane, cotone, agrumi, banani, piante da cocco, in un elenco di varietà botaniche che da tempo ci suonano familiari.

dal Libro dell’Agricoltura di Ibn al-Awwam, agronomo vissuto a Siviglia tra XI e XII sec.

Associati alla disponibilità di nuove piante, una serie fattori concorsero a una complessiva rivoluzione tecnico produttiva, dalle profonde ricadute sociali. Il sapiente uso dell’acqua, le conoscenze botaniche e il sapere tecnico delle pratiche di coltivazione – dall’associazione delle piante all’incremento nell’uso dei fertilizzanti, ai sistemi di rotazione che, introducendo colture estive, moltiplicavano le stagionalità delle coltivazioni, assicurando continuità e aumento delle rese –, determinarono cambiamenti del paesaggio, si pensi a quello degli agrumi, e – riflessi nel lessico – entrarono nella farmacopea, nell’alimentazione e in cucina, arricchendo e orientando il gusto (la pasticceria).

Almeno fino alla regressione – che ancora ci interroga – da un così rilevante grado di civiltà agricola.

Andrew M. Watson, La rivoluzione agricola araba e la sua diffusione, 700-1100, con saggi di Bevilacqua, Squatriti, Biasillo, Slow Food editore, pp. 149, € 16,50, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 35, Supplemento de Il Manifesto del 4 settembre 2022

Paesaggi terapeutici. o della biofilia dei luoghi

Poste a fondamento di immaginari e cosmogonie, le relazioni che intrecciamo con la natura permeano lingue, convinzioni, fedi, e, a partire dalle molte loro tracce in miti e leggende delle culture più diverse, è evidente anche l’idea diffusa che la natura abbia virtù curative per la mente e per lo spirito.

L’ipotesi di un amore innato che ad essa ci lega, di un irrefrenabile impulso ad entrare in connessione – l’ipotesi della biofilia dell’americano Edward O. Wilson – ha trovato nel tempo una serie di conferme nell’analisi della capacità dei luoghi naturali di attenuare lo stress, ripristinare l’attenzione, abbassare la pressione e migliorare il nostro umore.

Con l’indicazione metodologica che anche l’apprezzamento di natura e paesaggio cambiano nel corso del tempo e con il bagaglio di docente di «letteratura della crisi climatica» specializzata nel legame tra natura e salute mentale, tra Coleridge e Wordsworth, la poesia della contemporanea ElizabethJane Burnett, Margaret Atwood e le sperimentazioni della scrittrice rifugiata Bessie Head, Samantha Walton, ci conduce così alla volta di una serie di Luoghi per guarire (sottotitolo, Il potere curativo della natura, Ponte alle Grazie. pp. 368, € 20, 00).

Paesaggi terapeutici, come giardini, parchi – a lungo intesi come macchine per il benessere –, ma anche foreste, montagne, e perfino luoghi ormai perduti e ambienti naturali virtuali, ricreati artificialmente a uso medico e nell’industria del benessere.

Con un taglio critico, si evidenzia come spesso una costruzione estetizzata della natura – che ad esempio si incarna nel parco paesaggistico, a lungo modello dominante – abbia un forte, negativo impatto ecologico.

Robert Burton, Anatomy of Melancholy, 1626, IIa edizione, dettaglio sullo sfondo un giardino

Mentre, nella convinzione dell’inscindibilità della salute di natura, individuo e società, una vera ricerca del ripristino dell’equilibro comporti, oltre la bellezza, un potenziale radicale. Che se da un lato i benefici psichici dell’accesso alla natura sembrano perlopiù riservati, in una sorta di gentrificazione ecologica, a chi può permetterseli, indiscriminato appare di fronte al disastro della catastrofe ambientale il senso di prostrazione, «eco-ansia», inadeguatezza e muta disperazione.

Samantha Walton, Luoghi per guarire. Il potere curativo della natura, Ponte alle Grazie. pp. 368, € 20,00,  recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 31, Supplemento de Il Manifesto del 31 luglio 2022

Sementi di diversità. Agricoltura, cibo e emergenza climatica

Se, nella straordinaria molteplicità di forme della sua biologia, il seme contiene l’intero programma di sviluppo della pianta, c’è una più vasta dimensione culturale, quella della semente, che è definita dalle conoscenze che l’accompagnano nel suo contesto storico, scientifico, socio-economico e politico.

Connotata storicamente, in forza di un modo di pensare il vivente come risorsa da sfruttare e di un sapere scientifico ad esso sotteso, è stata a lungo – e in gran parte è ancora – intesa alla ricerca dell’uniformità, della standardizzazione. Verso una stabilizzazione indotta da un’agricoltura che considera le sementi (e quindi i nostri alimenti) come “risorse genetiche”, regolate da requisiti, leggi e normative, sistemi di proprietà intellettuale, in vista dell’industrializzazione e commercializzazione del prodotto e con le evidenti conseguenze di perdita di diversità determinate negli agroecosistemi in termini di resilienza, salute e qualità delle piante.

altrimondinews

Ma tratta di una omogeneizzazione imposta perché invece il vivente è in perpetua, interconnessa evoluzione proprio grazie alla sua diversità.

E da questo cambio di paradigma orientato in direzione del recupero di sementi diversificate, adattate localmente, e quindi di un rapporto altro che nella produzione del cibo rispetti la naturalità del vivente, muove la ricognizione di Véronique Chable e Gauthier Chapelle, Dal seme alla tavola. Le sementi e le pratiche agricole per la nostra salute e quella del pianeta, Terra Nuova, pp. 224, € 20,00, volta a descrivere l’emergere critico dell’agricoltura biologica e dell’agroecologia basata su un’etica forte.

Una riappropriazione di saperi da parte di contadini, giardinieri e cittadini che passa anche per l’organizzazione collettiva delle reti di sementi locali e comunitarie, la conservazione delle sementi nei loro giardini e campi biologici, prendendosi cura delle varietà in pericolo. Con la creazione delle Case delle Sementi dove – diversamente dalle banche genetiche – la conservazione “in situ” consente alle popolazioni di piante di continuare a diversificarsi in relazione al proprio ambiente, mantenendo il loro carattere adattivo

E nella consapevolezza che se per le popolazioni vegetali, la diversità è condizione fondamentale per adattarsi al cambiamento climatico, essa è anche alla base della resilienza dei nostri sistemi alimentari. La storia di ciò che mangiano, la scelta del nostro cibo, è anche la storia del nostro stare al mondo sulla Terra, dalle sementi che sono alla base dei prodotti che lo compongono alle implicazioni di una giustizia ambientale che, oltre la dimensione redistributiva, nella nozione di giustizia ecologica implichi anche il non umano.

Véronique Chable e Gauthier Chapelle, Dal seme alla tavola. Le sementi e le pratiche agricole per la nostra salute e quella del pianeta, Terra Nuova, pp. 224, € 20,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 29, Supplemento de Il Manifesto del 17 luglio 2022

seedfreedom.info

Le lezioni del clima

Sempre più negli ultimi vent’anni si è andati riconoscendo al clima e ai suoi cambiamenti uno ruolo rilevante nel dibattito storiografico. Anche alla luce dei progressi della paleoclimatologia, delle sue scoperte più recenti, dei nuovi metodi dell’indagine archeologica, del concorso di antropologia, ecologia e storia dell’ambiente nello studio del clima del passato. E, proprio sul presupposto che la conoscenza dei mutamenti climatici contenga una lezione da trasmettere al nostro mondo industrializzato, si fonda il volume di Brian Fagan e Nadia Durrani dedicato alla Storia dei cambiamenti climatici. Lezioni di sopravvivenza dai nostri antenati, Il Saggiatore, pp. 383, € 27,00. Che – restituendo un quadro complessivo del dispiegarsi del fenomeno – si interroga soprattutto su quali forme di adattamento e quali strategie siano state elaborate e messe in atto dal genere umano per sopravvivere a mutamenti e sconvolgimenti del clima nel corso degli ultimi 30.000 anni?

Per lo studio delle antiche variazioni climatiche – per tutto quel che precede la disponibilità di misurazioni strumentali in serie, effettuate solo a partire da metà 800 –, si ricorre all’incrocio di una grande varietà di fonti e di metodi indiretti. Analisi di sedimenti marini, carote di ghiaccio, depositi di loess, stalattiti e stalagmiti e, per gli anni più recenti (gli ultimi 15.000), granelli fossili di pollini delle paludi, conteggio degli anelli degli alberi, sia vivi, sia prelevati da edifici e scavi, e poi ancora, resoconti storiografici e documenti, fino ai registri che riportano le date di fioritura dei ciliegi in Giappone nel corso degli ultimi 600 anni o alla ritrattistica di paesaggio del 900, con cieli meno azzurri e atmosfere più fosche, considerata – al netto delle convenzioni artistiche – come spia del susseguirsi di eventi vulcanici.

Jacob Grimmer, Le quattro stagioni. Inverno, 1577, Budapest, Museum of Fine Art

L’invito è a distinguere tra perturbazioni di breve durata, episodi catastrofici – gli anni senza estate conseguenti alle eruzioni, come nel 536 o nel 1815 – e, invece, sconvolgimenti di lungo periodo, come quelli caratterizzati da un significativo abbassamento delle temperature, da cicli aridi plurisecolari, fino a siccità di lunga durata come quella che tra 2200 e 1900 a.C. colpì il Mediterraneo orientale e l’Asia meridionale. E, ancora, a considerare i fenomeni ricorrenti, come le variazioni delle radiazioni solari, le glaciazioni, i cicli di attività vulcanica, il sistema monsonico asiatico, El Niño e La Niña, le modificazioni della Corrente del golfo, nonché le lunghe fasi convenzionalmente indicate come l’optimum climaticum romano (dal 200 a.C. al 150 d.C.), il periodo caldo medievale (800-1300), la piccola era glaciale (1300-1850).

Così, nelle diverse situazioni, ere e latitudini analizzate, nel concorso tra dinamiche ecologiche, economiche, politiche, se non son certo le variazioni climatiche a provocare la caduta delle civiltà antiche, in mancanza di adattamenti e risposte efficaci – prima tra tutte, dispersione e mobilità –, spesso ne accentuano però la vulnerabilità.

Nell’analisi dei processi ricorrono come elementi critici il peso dell’indiscriminata deforestazione di aree boschive, dello sfruttamento del suolo con l’aumento dell’impermeabilizzazione che fa il paio con urbanizzazioni estese e la sempre maggiore domanda di cibo, la messa a coltura di terre marginali, il loro uso intensivo e l’incremento della salinità. In questo senso, si evidenzia come nella necessità di continuamente adattarsi al mutare delle variabili del clima, un ruolo centrale giocano la sapienza ambientale, la conoscenza di habitat e ricorsività climatiche, la reciprocità nella gestione dei rischi, lo scambio di informazioni, la capacità di previsione e progettazione a lungo termine.

Nella consapevolezza che se fin qui l’adattamento climatico è avvenuto principalmente su scala locale per risolvere problematiche specifiche di un particolare territorio, oggi la questione non può che essere, assieme, di portata locale e globale.

Brian Fagan e Nadia Durrani, Storia dei cambiamenti climatici. Lezioni di sopravvivenza dai nostri antenati, Il Saggiatore, pp. 383, € 27,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 28, Supplemento de Il Manifesto del 10 luglio 2022

Jules Tavernier, Sunrise over Diamond Head, 1888, Honolulu Academy of Arts

Finzioni? La variabile eccentrica del “giardino storico”

Nel dibattito più recente attorno al tema del “giardino storico”, inteso in prevalenza a sviscerare le problematiche relative alla dialettica tra conoscenza, conservazione e filologica possibilità e opportunità di interventi e ripristini, irrompe la variabile eccentrica – ma dal significativo rilievo storiografico – delle finzioni nei giardini: cioè a dire dei molti ritorni di stili ed esplicite riletture di modelli del passato che con minore o maggior grado di intenzionalità, o magari programmaticamente, si sono susseguiti, e specialmente nel corso del primo 900. In corrispondenza con il precisarsi dello statuto disciplinare di una storia del giardino ancora in corso di definizione, quando si era andata affermando un’estetica che associava il prevalere di ogni stile, nelle diverse epoche, a un diverso paese, territorio, cultura. Così, nel medioevo il giardino non poteva che essere italiano, mentre si sarebbe poi trasferito in Francia con il 600 per farsi quindi, nei secoli successivi, all’inglese, seppur con molte varianti.

Una visione dove riletture critiche e uso della storia si confondono. Tanto più quanto l’approccio al passato sovrapponeva con la stessa legittimità l’idea del restauro dell’esistente e la reinvenzione tramite nuovi interventi progettuali – anche sulla base delle controspinte della modernità e delle innovazioni proposte dalle avanguardie. Una visione dai tratti nazionalistici, che assortendo elementi distanti, finisce anche per implicare interpretazioni erronee e manipolazioni identitarie.

Indagare, in particolare da allora, la storicità dei molti tentativi di recupero di giardini – e quindi di reinterpretazione dei loro modelli – che nel tempo avevano modificato la propria fisionomia, per forza di abbandoni o sovrapporsi di usi e letture diversi dagli originari, è l’intento delle ricerche promosse dalla Fondazione Benetton e raccolte a cura di Monique Mosser, José Tito Rojo e Simonetta Zanon nel volume Giardini storici, verità e finzione. Letture critiche dei modelli storici nel paesaggio dei secoli XX e XXI (pp. 316, € 30,00).

Nel succedersi e incrociarsi di imitazioni, copie, varianti e interpretazioni di modelli storici, con tributi, mode, influenze, fantasie e restauri più o meno immaginifici, emergono diverse letture, tipologie e funzioni.

Esser fonte di ispirazione, come quella che ritrovamenti e scavi dei giardini di Pompei esercitano in varie fasi a cavallo fra 800 e 900, tra evocazione romantica e attenzione filologica – i Römischen Bäder di Potsdam, progettati da Karl Friedrich Schinkel nel 1829, dove nella relazione interno esterno dei peristili risuona l’eco del succedersi di pergole, oppure, in Costa Azzurra, la Villa Kerylos con viridario realizzata a inizio 900 da Emmanuel Pontremoli per l’archeologo e grecista Théodore Reinach – e fino alle più recenti sperimentazioni nella progettazione dei giardini in relazione all’evolversi delle tecniche di scavo stratigrafico, come evidenziato nella lettura di Luigi Gallo e Chiara Comegna.


Jakob Philipp Hackert, Veduta delle rovine dell’antico teatro di Pompei, 1792-3, gouache su cartone, Klassik Stiftung Weimar

Come pure essere oggetto di un sovrapporsi in crescendo di meraviglia di interpretazioni, a partire magari da un’iniziale percezione fondata su scarsi elementi di conoscenza, com’è il caso paradigmatico dei giardini islamici dell’Alhambra medievale che José Tito Rojo sfoglia a ritroso, disvelando stereotipi e luoghi comuni, e purtuttavia insistendo su quanto esse finiscano in definitiva per esser parte integrante della storicità di quei luoghi. Esiti incrociati dell’immaginario dei viaggiatori romantici e già della pittura orientalista, tra fine 700 e inizio 800, delle letture della Mille e una notte, come poi, innesco di ritorno di leggende sulla creazione dell’Alcázar che ispira sia composizioni di Debussy, poesie di Louis Aragon e opere teatrali, sia, nei mass media, film, fumetti, prodotti di consumo; fantasie ideologiche che si rifanno al mito “di un al-Andalus politicamente corretto, delicato nelle sue manifestazioni, trascendente ed ecologico nei suoi giardini”.


David Roberts, Courts of lion, Alhambra, Granada, in Jennings‘ Landscape Annual for 1835: The Tourist in Spain, Londra 1835

O ancora, come nel caso deigiardini di ispirazione storicista della California meridionale a cavallo tra 800 e 900 indagati da Franco Panzini, farsi elemento per immaginare una nuova identità regionale e inventare in un ambiente semiarido una sorta di Mediterraneo americano sul Pacifico.

Tra sviluppo della coltivazione degli agrumi, affermarsi del turismo di alta classe e dell’industria cinematografica – che spesso ai giardini si ispira – uno scanzonato eclettismo ibrida qui idiomi e stili per mano di una nuova generazione di paesaggisti, autodidatti o provenienti dal mondo delle arti o dei vivai, come pure da importanti prestigiose università con corsi dedicati.

Scena dal film Romeo and Juliet diretto da George Cukor, 1936. Il set, raffigurante il giardino dei Capuleti, fu ideato da Florence Yoch (Everett Collection)

Da un’iniziale combinazione di architetture e stili diversi che si ispirano da un lato alle missioni dei conventi francescani del 700 come ai revival Spanish di sapore coloniale e, dall’altro, a presunte tradizioni locali di uno stile indigeno della California meridionale, prevalgono invece con inizio 900 giardini formali di impianto spagnolo-moresco, islamico o che, ancor più, si richiamano ai modelli italiani, specialmente del rinascimento. Un’onda lunga, fatta anche di riprese come poi negli anni 70 per il Getty museum, pensato con i suoi grandi giardini e ispirato alla Villa dei papiri di Ercolano.

Villa Las Tejas, Montecito, California­, foto di Frances Bejamin Johnston 1923, lastra colorata a mano

Particolare attenzione merita la fortuna del giardino italiano, dove, tra rinascita di interesse per il tema delle grotte (Villa Borzino a Busalla, in Liguria), riprogettazione di labirinti (Villa Pisani a Stra), giardini pensili (Palazzo ducale a Urbino) e ripristini in stile (Palazzo Piccolomini a Pienza), Vincenzo Cazzato ci conduce in un viaggio ideale tra quelli ispirati a riprese di modelli e temi del passato, sullo sfondo e a contrappunto degli assunti fissati nella Mostra del giardino italiano tenutasi a Firenze nel 1931, che nei dieci modelli in scala esposti nel salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio, riunendo elementi da diversi giardini reali, intende proporre gli idealtipi delle dieci età del “nostro” giardino, da quello dei romani a quello romantico, riconducendo ciascuno a una dominante regionale.

Plastico riproducente il giardino fiorentino del ‘400 esposto alla “Mostra del Giardino” tenutasi nel 1931 a Firenze in Palazzo Vecchio (Lusini)

Una fortuna indagata anche in diversa scala, da casi specifici come il parco di Miramare a Trieste da Annachiara Vendramin, fino all’eredità italiana nei giardini americani di Filadelfia nel 900, da Raffaella Fabiani Giannetto.

Mentre nelle ricostruzioni delle varie fasi dell’andirivieni di reciproche influenze tra “giardino all’italiana” e “giardino all’inglese” Filippo Pizzoni invita a distinguere tra momenti propositivi, capaci di trasferire e far intendere valori e simboli anche in contesti diversi, e fasi in cui la stanca ripetizione di modelli ha perduto la capacità di comprenderne il sottotesto: dalle trasposizioni del gusto italiano nel definirsi del giardino naturale inglese, per serie di scene ed epigrafi, da parte del pittore, poi progettista, William Kent, al diffondersi a metà 800 dello stile, piuttosto superficialmente formale, dell’italianate garden, alle realizzazioni, con il primo 900, ad opera di un’élite di inglesi in Italia, di giardini sospesi tra restauro e reinterpretazione.

Non mancano infine esempi di riletture del giardino storico nel progetto contemporaneo, come quello cinese indagato da Bianca Maria Rinaldi che, se al di fuori della Cina perlopiù divulga elementi e moduli consueti nelle forme note, in patria, a partire da questi, sperimenta nuovi codici espressivi. Come nel caso dei giardini classici ambientati a Pechino nel contesto dell’aeroporto internazionale di Daxing.

Giardini storici, verità e finzione. Letture critiche dei modelli storici nel paesaggio dei secoli XX e XXI, a cura di Monique Mosser, José Tito Rojo e Simonetta Zanon; Fondazione Benetton, pp. 316, € 30,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 27, Supplemento de Il Manifesto del 3 luglio 202

Ida Tonini e il giardino ritornante

Mirabili storie si dispiegano in un avvincente gioco di raddoppiamenti e inarcature in questo Rondò per giardini, luminescente volumetto dove, fin dal titolo, s’intravede come l’ispirazione dell’autrice, Ida Tonini, sia tutta accordata con diletto attorno al tema del giardino come chiave privilegiata di accesso al mondo (Il formichiere, pp. 117, € 10).

Da quelli recintati di alte mura ai tempi della Repubblica di Venezia, dove piante, bulbi, semi e specie esotiche arrivavano da ogni dove, collezionate come pellegrine al giardino dei suoi degli anni giovanili a San Giobbe, vicino all’ex giardino botanico istituito da Napoleone, dall’infanzia con cinque fratelli e un’altana sui tetti di Venezia in un palazzo settecentesco sul canal grande dei Volpi proprietari oltreché dell’orto giardino di Ca’ del Leon sulla Giudecca – vicino a quello novecentesco anglo veneziano dei coniugi Eden –, della palladiana per antonomasia Villa Barbato a Maser, che nel 1719 aveva ospitato quel Lord Burlington, autore poi con William Kent del parco di Chiswich, e all’origine della diffusione dell’architettura palladiana oltremanica e del giardino paesaggistico. Per passare ai giardini che il patrizio e umanista veneto Andrea Navagero, sodale del Bembo, raccomanderà durante la sua assenza alla cura dell’amico Giambattista Ramusio, che nello stile di Plinio a sua volta racconterà i giardini dell’Alhambra dopo la reconquista. Da annoverare tra i più amati, con quelli moreschi, magari anche nelle reinvenzioni di Jean-Claude Nicolas Forestier. E via così.

Benedetto Caliari, Villa veneta con figure, Bergamo, Accademia Carrara_1570-1580

La sensazione è quella, privilegiata, d’esser messi a parte d’una conoscenza distillata in una vita sul doppio registro intrecciato del lavoro di scavo documentario di una protagonista irregolare avanti nello studio delle forme del giardino e della sua personale memoria familiare e orticola – esclusiva per frequentazioni e opportunità inventate. Ma soprattutto, avvinti al tema ritornante del giardino, d’esser condotti a frequentare, per associazioni e analogie, congreghe e contesti inesplorati, parentele intellettuali e converger d’intelligenze, sensibilità. Intravedendo, quantomeno, l’aura di quei luoghi d’artificio d’elezione.

Ida Tonini, Rondò per giardini. Storie di giardini e altre storie, Il formichiere, pp. 117, 10,00, recensito  da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 23, Supplemento de Il Manifesto del 5 giugno 2022

Chelsea Flower Show 2022. A Londra, giardini fra il mimetico e il concettuale

Sarah Eberle, Building the Future

È tutto un fiorire di approcci e tematiche nuove, in parte inedite in questo contesto, anche se già nell’aria, quello che pervade, specialmente nelle intenzioni, i trentanove giardini attorno a cui per cinque giorni si sono davvero affollati gli oltre 140.000 visitatori del Chelsea Flower Show. Una tra le maggiori mostre dedicate al mondo delle piante e del giardino, che dal 1913 si tiene ogni anno alla fine di maggio in pieno centro di Londra, nel parco del Royal Hospital a Chelsea, a segnare l’avvio della stagione mondana e quella del giardino (spesso un tutt’uno), nonché delle sue tendenze. Quindi, una certa discontinuità, nell’edizione appena conclusa, rispetto al tradizionale assetto formale, negli anni precedenti tutto progettato e profilato nel senso del contemporaneo allinearsi al design di arredi da un lato e dall’altro della vivace ma posata tradizione orticola anglosassone.

Quest’anno i giardini si propongono invece perlopiù come veicolo di messaggi vitali, di bellezza ma specialmente interesse per il ruolo che le loro piante possono svolgere nel contrasto al cambiamento climatico, rivelandosi occasione di rinaturalizzazione di paesaggi, accordandosi alla natura per costruire – come mediatori – mondi futuri o anche soltanto ripristinare suoli degradati come pure intere aree industriali dismesse.

Così, ispirato alla vegetazione del limitare della foresta, il giardino di Sarah Eberle combina il meticciato di flore native ed esotiche, achitettonici farfugium in delicato contrasto con piante per ambienti umidi, sullo sfondo di una cascata dove però a mimare la roccia vengono impiegate – in una ridondante lettura del giusto tema del riciclo – strisce di legno ricomposto. Mentre, Rewilding Britain landscape evidenzia e ricostruisce la ricchezza anche compositiva di un habitat per come muta dopo la reintroduzione di una specie chiave autoctona, come il castoro.

Passando dall’ispirazione mimetica ad un approccio concettuale, il giardino dell’etnobotanica Jennifer Hirsch definisce attraverso il ritmo alternato di una serie di archi di acciaio corten la progressione di piante pioniere che rianimano un suolo bruciato da un incendio in un’esplosione di vita vegetale, dagli eucaliptus ai geum. E oltre questo giardino-scultura, The plantman’s ice garden è un’istallazione che vede nelle giornate della mostra il disciogliersi di un monolite di ghiaccio di 15 tonnellate a significare l’urgenza del rischio del riscaldamento climatico che incombe e al tempo stesso la ricchezza botanica degli excerpta vegetali che in prospettiva quel ghiaccio conserva. Per l’intanto, il Brewin Dolphin garden (dal nome dello sponsor, una delle più grandi società britanniche di gestione patrimoniale) progettato da Paul Hervey-Brookes propone invece come accompagnare le metamorfosi di aree industriali dismesse dove le piante prescelte, dalle betulle alle persicarie, dai carex ai viburni, contribuiscono a ripulire suoli contaminati.

Andy Sturgeon, The Mind Garden

Ma, oltre l’immediato benessere dell’esperienza dell’immersione nel verde, anche, trasversalmente, molti dei giardini proposti sono pensati per attivarsi come elemento rigeneratore di equilibri interiori, a supporto, volta a volta, di ragazzi con disagi, malati oncologici, senzatetto, detenuti – certo, nella logica compensatoria della tradizione anglosassone delle organizzazioni caritatevoli, alle cui attività spesso i singoli giardini sono associati e ispirati e cui finiranno poi per essere assegnati e lì ricomposti dopo il loro transitare in mostra.

Giardini dunque come elemento di connessione con noi stessi e sempre più declinati nella dimensione comunitaria, a cavallo tra inclusione e rivendicazioni sociali.

Così, tra muretti tondi disposti come petali che separano e uniscono, si stringono o dilatano, tra panche e piante discrete che invitano alla condivisione, The mind garden di Andy Sturgeon è uno spazio per relazionarsi, destinato, dopo la mostra, a essere ricostruito presso l’istituto (che lo intitola), di supporto al disagio mentale. Mentre, tra i giardini della categoria All about plant, ancora un passaggio dalla depressione alla speranza vien simboleggiato nel variare delle tonalità delle piante nel giardino Mothers for mothers, dal nome dell’associazione di supporto alle donne colpite dalla depressione post parto.

Putting down roots (Mettendo radici) è un progetto pensato per uno spazio pubblico urbano a supporto dei senzatetto e con il loro coinvolgimento, con l’idea di proporre anche nuove competenze. Al riparo dei fogliami di aceri, sorbi e biancospini, l’impianto si concentra su comunità vegetali con fogliami di diverse tonalità e texture in dialogo con i colori vivaci degli arredi ricavati con materiali di recupero. E, ancora destinato a esser trasferito nella comunità di Notting Hill è il giardino Hands off mangrove (Giù le mani dalla mangrovia), firmato dall’attivista Tayshan Hayden-Smith e da Danny Clarke, simbolo di coesistenza ecologica e sociale che associa piante adatte ai paesaggi dei centri urbani, tetrapanax, cardi, barbabietole e insalate, con una scultura alta 4 metri di nude radici di acciaio, richiamando la distruzione di fondamentali ecosistemi e un episodio di protesta antirazziale nella Londra degli anni 70, chiamato ad attualizzare il tema degli impatti combinati di ingiustizie razziali e ambientali.

Ruth Willmott, Morris & Co. Garden

Certo non mancano approcci più consueti, più consoni all’aplomb dell’organizzatrice Royal Horticultural Society, che dichiara però di ispirare d’ora in poi la manifestazione a una nuova strategia di sostenibilità (prevede il riciclo di materiali e il reimpiego di piante). A partire dallo stile quintessenziale, seppur reinterpretato, del cottage garden ispirato all’artista imprenditore Arts and Crafts e amante di giardini William Morris, con elementi metallici tagliati a laser sulla base dei modelli a traliccio delle sue floreali carte da parati e una scelta di piante sui toni pastello, tra biancospini, iris e rose rampicanti. Fino alla reinterpretazione in chiave comunitaria del tema classico del front-garden, il tipico giardino unifamiliare. E ancora, con un doppio salto metaforico, nel giardino sponsorizzato dal metaverso di Mark Zuckerberg e suggerito dalle relazioni sotterranee tra funghi e radici degli alberi, Joe Perkins evidenzia le connessioni – cui ispirarsi – che permeano ogni ecosistema. Un prato di fiori selvatici nelle tonalità del rosa, del blu delle centaure e del bianco delle achillee, con sullo sfondo il web.

Distribuiti nelle differenti categorie – i maggiori 14, non a caso nominati Garden Show, di 22 metri per 10 aperti su due lati, assieme ai 12 minori della nuova, piuttosto indecisa, categoria Sanctuary e, a partire dalla scorsa edizione autunnale, post covid dopo la pausa del 2020, i giardini urbani per piccoli spazi, fin anche balconi (decisamente i meno riusciti) – i giardini competono sulla base di rigorosi criteri di giudizio (originalità del disegno, scelta di materiali e associazioni di piante, impatto sensoriale, realizzazione e dettagli costruttivi), forti anche del riverbero di una tappezzante copertura mediatica assicurata tra l’altro da ben tre collegamenti giornalieri della BBC.

Al centro della manifestazione, a orientare sempre gli spettatori persi nel gorgo della folla che si muove tra i giardini, l’enorme padiglione coperto dove, oltre a un corredo di interventi imperniati sull’innovazione scientifica in tema vegetale e sorprendenti esplorazioni didattiche, viene ospitato il distillato della ricerca orticola – e la selezione delle piante dell’anno – di specialisti monomaniaci, coltivatori di hosta, digitali, felci e graminacee, collezioni di elegantissime alstroemerie in bidoni del petrolio colorati a spruzzo, bulbi di camassie e ornitogalli, profusione di lupini e una serie di bellissimi equiseti dal nome incantato Elegia.

Insomma, nel gioco di contraddizioni tra un sistema di sponsor caritatevoli che in tempi di crisi economica con il progetto Giving Back – nomen omen – sostiene la realizzazione di ben 12 giardini in questa edizione e l’inevitabile selezione di pubblico pagante un biglietto d’ingresso giornaliero tra le 70 e 90 sterline, questi “giardini per buone cause” condividono pressoché tutti, oltreché una diffusa sensibilità ecologica e aspirazioni etiche e sociali, un aspetto scapigliato che dal punto di vista estetico paga pegno alle mode del giardino naturale ispirato alle fioriture dei prati e accoglie la lezione degli accostamenti superbi che gli habitat ci suggeriscono, più attento alle esigenze delle piante che non a quelle compositive del nostro occhio.

Senza prendersi troppo sul serio. E ricordandosi che, soprattutto, si tratta di uno show, dove anche l’affollato, caotico, intrecciarsi delle piante è pianificato fin nei dettagli, uno show dedicato ai giardini, ma ancor più a celebrare il multiforme potere dei loro protagonisti primi, le piante. E, con la tirannia della stagione, particolarmente di quelle cui tocca in sorte d’essere in fiore proprio in queste settimane.

Londra, Chelsea Flower Show, da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 23, Supplemento de Il Manifesto del 5 giugno 2022

La compagnia degli animali di città

Con l’attitudine del biologo, per quanto a malincuore, trapiantato in città, Marco Granata ci propone nel suo Bestiario invisibile una ricognizione della fauna urbana a cavallo tra una tradizionale guida da campo per il riconoscimento, qui, degli animali − con informazioni sulla loro distribuzione, ecologia, conservazione, e con annesse illustrazioni che li identificano − e il racconto in prima persona della scoperta progressiva, scientifica e interiore, da parte dell’autore della città come ecosistema composto di molti diversi ambienti (sottotitolo, Guida agli animali delle nostre città, Il Saggiatore, pp. 318, € 22,00).

Ad uno sguardo attento si rivelano allora di grande interesse naturalistico perfino habitat artificiali quali case, strade, piazze, come pure quelli seminaturali di aiuole e alberate stradali, fino alla natura in città di parchi, prati di periferia, zone umide, margini e luoghi dell’abbandono, residui industriali. Dove incontriamo presenza e tracce di tante specie autoctone, aliene, inurbate. Volta a volta biasimate o protette, spesso a rischio di estinzione. Assieme a quelle che proprio della città hanno fatto il proprio luogo di elezione, per abbondanza di cibo, temperature più miti, minor numero di predatori: specie generaliste in grado di convivere con l’uomo, quando non di profittarne.

Raccontato in modo partecipato e amorevole, il catalogo spazia dall’entomologia domestica pressoché invisibile dei nostri coinquilini invertebrati (dagli scarafaggi memoria vivente di malattie e epidemie ai sempre più rari pesciolini d’argento amanti dell’amido della colla di rilegature di libri e dismesse carte da parati) agli impollinatori cittadini (api, farfalle, falene), dal montare nei cieli urbani dei gabbiani al declino dei passeri, con il perseverare, per antonomasia cittadino, dei piccioni. Si scoprono così arrivi (gli storni a Roma, dal 1925) e presenze recenti (le cornacchie da pochi decenni), recentissime (le squadriglie di pappagalli) e insospettate (i granchi di fiume nel Foro di Traiano).

Ricca di citazioni di animali inurbati anche in letteratura (dalle zanzare cacciate da Tomaso Landolfi al gabbiano intervistato da Primo Levi, dal piccione comunale di Italo Calvino alle epistole entomologiche di Gozzano), la disamina è occasione per introdurre ulteriori temi e concetti, come tassonomie (spiegando il complesso mondo delle formiche), adattamento e coevoluzione, mutualismo e biologia della conservazione, rapporti e possibili sinergie tra agricoltura e biodiversità.

Ricordandoci come noi “siamo le nostre relazioni con la comunità ecologica in cui viviamo”, il richiamo è al coinvolgimento, anche individuale a farci volontari di esperienze dirette della natura … in città.  

A praticare, guida alla mano, una biofilia urbana per città biodiverse. Dove promuovendo e presidiando reti ecologiche, anche di piccoli spazi per i nostri invisibili animali di città, la frammentazione degli habitat possa tradursi in arcipelaghi di opportunità, tanti ambienti diversi di incontro e diversa considerazione.

Marco Granata, Bestiario invisibile. Guida agli animali delle nostre città, Il Saggiatore, pp. 318, € 22,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 22, Supplemento de Il Manifesto del 29 maggio 2022

Un catalogo per germogli appassionati

E se per creare un giardino si ricorresse al metodo davvero basilare di piantare semi e aspettare di vederli crescere, usando magari soltanto cento bustine, pescandoli da una pila di cataloghi di vivai specializzati da sfogliare e scegliendoli dalla propria personale antologia di infatuazioni e simpatie, per non dire affinità? Piante dell’infanzia, ombrellifere giganti, annuali dai nomi e colori evocativi di predilezioni variamente incontrate. Insomma, quel che ci serve (come quando si scelgono i semi per far l’orto) per soddisfare il nostro gusto e piacere. Sottraendosi al criterio dominante che vuole il giardino, almeno in buona parte, disegnato e progettato…

È quel che James Fenton, poeta, critico d’arte e appassionato di giardinaggio, di cui scrive per la New York Review of Books, ci propone ora con humor anglosassone e gusto affilato per il paradosso nel suo Il giardino dei cento semi, riprendendo una serie di articoli originariamente apparsi sul Guardian (Elliot, traduzione di Franca Pece, pp. 96, € 13,50).

Il consiglio è provare. Piantare, sperimentando per un paio di stagioni, senza alcuna ossessione per l’ordine, assecondando le variazioni e preferendo soprattutto piante annuali.

In un’elencazione arguta, con preferenza per queste ultime e l’esclusione delle rose, il catalogo delle cento piante si snoda così con tono giocoso e andamento che tende all’enciclopedico, bilanciando, come dice, “ovvio (ma irresistibile) e più ricercato”, provocatoriamente incrociando, spesso sopra le righe, molti luoghi comuni del giardinaggio.  

Dal progettare non progettando troppo al paradosso di coloro cui piacciono i fiori ma non le piante, dal peso delle mode che traspongono tal quali in giardino le tendenze floreali che si affermano nel gusto dei fiori recisi o di quelle che estendono alla scelta delle piante la tirannia del design che promana dalla decorazione d’interni al pregiudizio per le piante a ciclo breve, quelle annuali e biennali che nel loro spontaneo ricominciare, dovrebbero invece nell’estetica di Fenton diventare caratteristica perenne del giardino.

Piante collaborative che rifioriranno e abbondantemente. Magari dove vogliono, moltiplicandosi e spargendosi all’intorno per autodispersione. Che si autopropagano per seme sulla superficie del vialetto, spingendosi tra la ghiaia, in qualche crepa o alla base di un muro. Fiori che colonizzano lastricati, altri che seguono a ruota, non invitati. Per poi magari diradarsi e un po’ alla volta scomparire, sostituiti dall’espandersi di altri.

Erbe utili, decorative come il profumato finocchio selvatico, magarinella varietà bronzo, bordure di prezzemolo riccio, l’informale tono della borragine che si autosemina. Fiori colorati in tavolozza, dall’azzurro del fiordaliso all’arancio del papavero della California, alle infinite varietà delle cascate di nasturzi.

E ancora, temi come l’ispirazione che si può trarre dai campi fioriti, l’irruenza dei rampicanti, l’opportunità di mimare le policromie di un aspetto tropicale. In una serie di infatuazioni che, susseguendosi, mettono in moto il giardino. Che sia pur soltanto quello di una pianta di convolvolo arrampicata su una scala antincendio.

James Fenton, Il giardino dei cento semi, Elliot, traduzione di Franca Pece, pp. 96, € 13,50, recensito da Andrea Di Salvo su Il Manifesto del 25 maggio 2022

A beautiful Cosmos seed packet from the Burts Seeds Company, New York. Date: c. 1910