Evocati nelle loro mutevoli personalità come pure negli spiccati caratteri, nelle fisionomie poliedriche che li connotano, pascolianamente disposti lungo il ciclico ricorrere delle stagioni a cadenzarne il susseguirsi, procedono i protagonisti botanici di questo libro che, tra predilezioni e idiosincrasie, li incrocia a passo doppio con l’interpretazione che, volta a volta, ne è stata proposta per il tramite di poesie, citazioni, brani letterari. In un raffinato combinarsi di critica letterario-botanica, senza pretesa d’esser nessuna delle due, ma, come vien detto, per diletto, Angela Borghesi, specialista di letteratura italiana contemporanea e docente presso l’università di Milano Bicocca, nonché autrice della rubrica mensile Clorofilla che tiene da anni sulla rivista Doppiozero, ripropone ora Fior da fiore. Ritratti di essenze vegetali, con le illustrazioni di Giovanna Durì, in un gioco di dettagli in colore ad acquerello che si stagliano sullo sfondo monocromo dell’appena accennato tratteggio del contesto botanico (Quodlibet, pp. 311, € 22,00).
Posture, storie, specificità e prerogative di alberi, arbusti, erbacee, descrizioni degli habitat e delle tendenze associative delle piante, provenienze, etimi, usi, detti popolari, ricette, ma anche personali memorie olfattive, o di inneschi e riflessi di incontri familiari si intrecciano in questi sessanta ritratti vegetali con i riferimenti poetici e letterari. Amministrando il gioco misurato dell’evocare per via di citazioni e, assieme, la distinzione del prezioso lessico della botanica – il gonfiarsi dei balausti (pomi) della melagrana, lo srotolarsi nei pastorali delle foglie delle felci, i calici a sepali ottusi delle violette, i corimbi penduli dei fiori e le nocule fruttifere dei tigli.
Dal sottobosco iemale dell’elleboro, rimedio naturale alla demenza, nell’erbario di Andrea Zanzotto, ai bucaneve tappezzanti di bianco di quella “primavera di mezzo inverno” rivelata da T.S. Eliot, alla primavera vera annunciata dall’inconfondibile, che sia detestata o amata, fragranza della viola odorata dalle foglie cuoriformi, alle lanugini dei pappi bianchi delle sussurranti file di pioppi dell’Idillio maremmano del Carducci, che invadono l’aria di maggio con l’immenso fruscio evocato da Giovanni Raboni e fino agli astri settembrini che in infinite sfumature di colore ci accompagnano, con Sbarbaro, ai primi freschi e poi verso l’inverno. Lì dove a lungo permangono sugli steli le trame delle infiorescenze delle ortensie, a mimare grandi globi, grappoli, pannocchie, o una berretta di merletto, stinte sì, eppure rallegrate nel sorriso del verde nell’omaggio di Rainer Maria Rilke.
Accade così di spaziare tra il giardino letterario dei lillà di Marcel Proust e la magnolia dell’arboreto montaliano, tra le paulonie dal profumo avvolgente delle pannocchie che paion candelabri, onnipresenti nelle letterature cinese e giapponese, al sambuco del flauto magico di Mozart dall’odore pungente delle foglie e dal profumo dei piccoli fiori a corimbi che anticipano i frutti amati dagli uccelli. Per svisare finanche in citazioni dell’arte dipinta, dall’aquilegia di Pisanello del Ritratto di principessa estense alle foglie di fico nella Sacra famiglia di Lorenzo Lotto, all’esplodere di colori dei tropeoli ritratti in molti noti dipinti dagli impressionisti.
Per esplorare personalità, come le melagrane “cedenti all’eccesso” di Paul Valéry o il calicanto dai petali dismessi di Biagio Marin, o le geografie, della trama del carrubo e dei suoi frutti nella Liguria di Montale come nella Sicilia dei Quasimodo, Verga o Consolo e ancora temporalità incalzanti, come quelle dell’esorbitante fioritura delle peonie, fuggitive come gli haiku che le proiettano sulla pagina, del beccheggio del platano di Valéry, del tempo memoria dei residuali gelsi maritati alla vigna, testimoni fedeli di un mondo dissolto, con Zanzotto, della provvisorietà congeniale ai licheni di Camillo Sbarbaro, come dell’epifania condivisa, nell’annuncio di suo padre, del primo apparire della prima viola, scorta dalla finestra in un mattino d’inverno.
Segno ulteriore della crescente attenzione per il verde e i giardini, si moltiplicano in questi anni nel panorama editoriale su carta le rassegne dedicate a raccontarli (ma anche la rete fa la sua parte, si veda il portale GardenRouteItalia.it, dell’Associazione Parchi e Giardini d’Italia, che ne ospita oltre 200).
In particolare, quelli italiani vengono proposti in grandi volumi illustrati. Opere da sfogliare, dove il corredo iconografico ha un rilievo dominante, se ben scelto e stampato. Il formato deve consentirlo, perché possano aspirare a proporsi come livre de chevet. La selezione poi, di quali giardini includere e quali no, è un’operazione sempre frustrante, tranne nel caso di rare proposte interpretative in grado di tematizzare oltre i consueti criteri geografico-cronologici e di stili.
Tutto ciò fatto salvo, escludendo classifiche e in un progetto in progress che si vorrebbe esteso in futuro a monografie regionali, Irene Galifi propone i suoi, I giardini più belli d’Italia, editore Magenes, pp. 264, € 25, 00. Esemplificando tipologie e cercando di restituire specificità, inserendone magari di meno noti – o prediletti – si alternano così i prescelti.
Con il susseguirsi per immagini (orfane però del raccordo didascalico) e, nella scelta di un corredo composito che proviene da specialisti noti (Dario Fusaro), ma perlopiù dall’assunto secondo cui istituzioni e proprietari si autoraffigurano, con la conferma di quanto sia impervio render per foto i giardini, per raccontarne l’esperienza diretta.
Visioni d’insieme ad assecondare assi prospettici (per i giardini di impianto geometrico) e dettagli botanici, foto aeree di grande effetto e inquadrature ad altezza di sguardo a restituire la percorrenza in soggettiva degli spazi (specie nei giardini all’inglese pensati per esser scoperti via via). In una ricognizione cui tornare – come si torna a visitare i giardini – in una lettura puntiforme, evocatrice di universi, ispiratrice di percorsi.
È un’Italia punteggiata di occasioni di incontri con piante perlopiù inusuali, spesso introvabili, e con le storie e le personalità di uomini e donne che per mestiere o passione si dedicano a coltivarle, studiandole e selezionandole, riproducendole, custodendole e … vendendole. Con questa particolare attenzione procede la prima Guida ai vivai d’Italia, che ci introduce effettivamente a 259 viaggi nel verde, come recita il sottotitolo con riferimento alle altrettante schede-racconto curate da Giustino Ballato, Rossella Vayr e da una schiera di esperti collaboratori con la sempre magistrale supervisione di Daniele Mongera (add editore, pp. 270, € 19,00).
Regione per regione, combinando ricchezza di indicazioni pratiche e predilezioni di ciascuno, si dispiega la diffusa varietà di esperienze di ricerca dei vivai che punteggiano il territorio, nel racconto di specificità botaniche, ambientali, paesaggistiche, innesti, ibridazioni, collezionismi.
Aziende con alle spalle professionalità antiche ed esperienze di generazioni, come pure microvivai simili a un giardino a conduzione familiare. Con cataloghi in divenire, proposte originali e innovative, magari per piccoli numeri, di specie ricercate spesso a partire da semi raccolti in natura o inseguiti nei viaggi nel mondo.
In una ricognizione dove, tra giardino dimostrativo e vivaio, seguendo l’estro per coltivazioni monospecifiche o approfondendo associazioni, si ripercorre la storia di sperimentazioni spesso radicali (uno spazio è dedicato all’evoluzione dell’importante, ormai trentennale, fenomeno delle mostre-mercato, come a quello della recente rivoluzione del fiore biologico da reciso).
Frugali, resistenti al secco, ricercate nelle forme di fogliami, cortecce, portamento, o per le fioriture invernali, le piante proposte volta a volta dai singoli vivai si ritrovano raccolte nel volume anche per categorie. Frutti antichi ed erbe spontanee, piante autoctone e collezioni di specie rare, tropicali, esotiche, ma anche piante forestali, selvatiche commestibili. Dalle acquatiche alle bulbose, dalle catctacee alle graminacee e alle erbacee perenni (in grande maggioranza) a segnare un’attenzione che traendo ispirazione dalla varietà dei contesti d’origine apre le porte alla forte individualità dei soggetti, considerati tanto nel loro disporsi nell’estetica del giardino che nel loro associarsi per affinità ambientali.
Guida ai vivai d’Italia. 259 viaggi nel verde, a cura di Giustino Ballato, Rossella Vayr, con la supervisione di Daniele Mongera, add editore, pp. 270, € 19,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 18, Supplemento de Il Manifesto del 1 maggio 2022
Sul filo della lunga durata, ma con un livello di precisione che tien conto del trascorrere di ogni singola stagione, la storia degli eventi naturali e quella del nostro umano interagire con l’ambiente si inscrivono nel corpo degli alberi. Dove si radicano, registrate nello scarto dei loro anelli di accrescimento e nel ritmo dell’aumento annuale della loro circonferenza. Là dove una scienza tutto sommato recente, la dendrocronologia – nata poco meno di cento anni fa negli Stati Uniti, nel deserto dell’Arizona, con Andrew Ellicott Douglass –, li rintraccia per compararli a costruire, appunto, cronologie che variamente aiutano a evidenziare le correlazioni tra eventi specifici (terremoti, eruzioni, incendi boschivi, incidenti radioattivi) e più ampie dinamiche dei sistemi climatici.
Ma, come ci racconta la dendroclimatologa Valerie Trouet nel suo Gli anelli della vita. La storia del mondo scritta dagli alberi, traduzione di Bianca Bertola, Bollati Boringhieri, pp. 288, € 24,00, oltreché ricostruire tali cambiamenti nello studio di alberi vivi, tramite campionamenti e carotaggi a basso impatto, cosicché dalle ceppaie della Sierra Nevada si possa ricostruirne la storia degli incendi o tramite l’analisi dei campioni della foresta secca stagionale della Tanzania studiare il clima dell’Africa Orientale, la dendrocronologia, ha potuto operare anche sulla base di campioni di legno “morto”, provenienti da numerosi siti archeologici. O addirittura dal legno subfossile delle querce irlandesi e tedesche conservatosi pietrificato, come una sorta di calco tridimensionale, nei depositi fluviali e nelle torbiere.
Consentendo così di datare manufatti, insediamenti, edifici storici, come castelli e cattedrali, nonché le fondamenta dei palazzi veneziani. Ma anche di collocare nel tempo e stabilire provenienze di supporti di opere d’arte come i pannelli di quercia sui quali tra XV e XVII secolo dipingono, tra gli altri, Van Eyck, i Bruegel, Rembrandt, Rubens, di stabilire l’età di preziosi violini e perfino di istituire correlazioni tra presenza di relitti di navi naufragate e frequenza degli uragani nei Caraibi.
Nell’alternanza fra lo scatto vitale della crescita primaverile del legno primaticcio e quello tardivo che anticipa il periodo di inattività invernale, il limite netto tra un anello e l’altro e il variare della loro ampiezza segnala il corrispondere di diverse condizioni esterne – fatti salvi elementi di disturbo (l’ombra di un albero più alto, estati fredde o siccità, incendi) o i casi anomali di anelli falsi o mancanti.
Un sistema di datazione di una precisione unica, utile per calibrare altri metodi di datazione come quella al radiocarbonio. Un sistema a scala fluttuante, da confrontare con le sequenze anulari degli alberi vissuti nella stessa area geografica nello stesso periodo di tempo, fino ad avvicinarsi, tramite una crescente rete che vede collaborare oltre cento laboratori dedicati a livello mondiale https://www.ncei.noaa.gov/products/paleoclimatology/tree-ring, a cronologie assolute in grado di coprire oltre 12.000 anni.
Per capire meglio com’era il clima “naturale” della terra prima delle gravi interferenze degli umani.
E dopo, in questa nostra era detta dell’antropocene, il cui avvio alcuni datano ai test nucleari degli anni 60, dei quali con evidenza si trova traccia nell’albero più isolato e remoto della terra, nell’isola di Campbell nell’Oceano Pacifico meridionale.
Acchiocciolato com’è su quel che resta dei terrazzamenti fortificati, al di sopra della cittadina antica di Gerberoy, al confine tra Normandia e Piccardia, il giardino di Henri Le Sidaner, pittore giardiniere, ricondotto perlopiù alla corrente degli intimisti, si libra da quegli spalti, tra spazi segreti e aperture sul paesaggio.
Realizzato a partire dal 1901 articolando una serie di passaggi per via di pergole, balaustre, scalinate e belvederi, questo universo conchiuso vive però e respira in una fitta trama di relazioni. Da un lato, con la casa di cui è trampolino disteso sui panorami distanti della regione che da quei vertici e ridotti continuamente s’aprono e s’avvertono. Dall’altro, per il suo partecipare ed essere innesco di quel complessivo “giardino diffuso” in cui l’intera cittadina stessa si è andata, con lui, costituendo in una coevolutiva vicenda di invenzione e cura. Quella Gerberoy dove ad ogni angolo di strada, come per la regia di un accorto giardiniere condiviso, si avvicendano alberature diverse lungo i viali e fioriture di ortensie, rose rampicanti, clematidi e gelsomini che, tono su tono, ricoprono ancora oggi – come a fissarle nel tempo – le facciate tradizionali delle case, quelle in mattoni normanni e quelle a graticcio con travature in legno tipiche della Piccardia.
È una vicenda, quella del giardino e della sua città, che procede in parallelo proprio a partire da quando, con l’avvio del secolo, alla ricerca di una casa in campagna dove trasferirsi e creare un giardino per potervi dipingere, Le Sidaner scopre la regione del Beauvaisis su indicazione di Auguste Rodin e poi, indirizzato dall’amico Auguste Delaherche, ceramista Art Nouveau, sceglie la piccola città di Gerberoy.
Qui, nella parte alta, ai piedi della collegiata medievale che, oltre i tetti delle case, domina il paesaggio collinare, decide di affittare e rimettere in uso un’antica abitazione con un frutteto abbandonato, che acquisterà già poi nell’aprile del 1904. Per quasi quarant’anni, fino alla morte nel 1939, Le Sidaner risiederà a Gerberoy a dipingere nei mesi estivi, dividendosi tra diversi viaggi di studio e, a partire dal 1912, Versailles, altro suo luogo di elezione.
E in tutto questo tempo, oltreché all’invenzione del suo giardino, si interesserà alla cura e all’abbellimento dell’aspetto della cittadina, adoperandosi attivamente per la salvaguardia e la valorizzazione del suo impianto tradizionale.
Mobilita l’opinione pubblica fino ad arrivare alla costituzione, nel 1909, della Société des amis de Gerberoy, in Francia una delle prime associazioni intese alla salvaguardia del patrimonio. Con donazioni e suggerimenti, anche cromatici, sul restauro delle facciate e sulle piante che le avrebbero decorate, incoraggia tutti i residenti a piantare fiori davanti alle proprie case, finché negli anni Venti la cittadina fiorita e il suo giardino diverranno meta frequente di gite e visite e, dal giugno 1928, oggetto dell’istituzione di un’annuale, tuttora attiva, importante Festa delle rose.
I primi interventi sul giardino interesseranno il ridisegno della porzione dell’ex frutteto. Per procedere poi nel tempo, recuperando i terrazzamenti delle fortificazioni sul pendio che risale le rovine del disfatto castello. Con l’acquisto dalla municipalità di altre piccole parcelle, il giardino si amplia via via di nuovi episodi, strutturati in base alla morfologia del terreno, fino a comprendere un’area complessiva tra i 3 e i 4.000 metri quadri (tuttora di proprietà della famiglia, il giardino è stato restaurato ed è accessibile al pubblico). Una sequenza di stanze verdi all’aperto, separate da muretti o siepi, dove ogni porzione – dal giardino delle rose alle terrazze all’italiana, dal padiglione destinato a ospitare il suo studio all’aperto al tempietto dell’Amore – ha una funzione e un carattere particolare nel segno di un’espansione nella natura e nel paesaggio. Secondo un modello che, se da un lato, in questo primo quarto di secolo recupera al giardino una dimensione formale, una propria geometricità, con elementi architettonici, scalinate, balaustre, dall’altro, per addolcirne il rigore, integra l’uso di piante vivaci e annuali: in un’intervista del 1913, Le Sidaner confessa il suo desiderio di dar voce “al giardino classico” introducendo in quello “alla francese, cosa adorabile, un po’ di più di natura”.
Estesa è in questa fase l’influenza del giardino inglese (Le Sidaner viaggia molto, visita Kensinton, Kew Garden e i giardini di Hampton Court, che ritrae) in particolare nella lezione “naturale” di quel William Robinson, ispiratore dell’uso della flora spontanea – ma anche tramite con la cultura orticola francese che supporta la riforma haussmanniana – nonché della diffusione del giardino Arts and Crafts, magari nella declinazione operata di recente in terra di Francia dalla coppia, sempre inglese, dell’architetto Edwin Lutyens e della pittrice e poi paesaggista Gertrude Jekyll, a Varengeville-sur-Mer in Normandia, nella seminale casa giardino di Le Bois des Moutiers.
Più ancora, però, risulta diffusa, e si riflette nelle articolazioni del giardino di Gerberoy, una complessiva tendenza a un eclettismo di derivazione storicistica. Nel senso di un composito recupero di stili diversi – anche sull’onda di una rinnovata attenzione che si traduce di volta in volta in riscoperte, restauri e rifacimenti. Una tendenza che, a cavallo tra tradizione e sperimentazione, incrocia diversi moduli e stilemi con le suggestioni e il linguaggio delle arti figurative ispirati dalle più recenti tendenze.
Così, nel suo primo intervento, Le Sidaner riserva alla parte del giardino direttamente affacciata sulle finestre del soggiorno e della sala da pranzo un’atmosfera formale, ritagliando al posto del frutteto originale un grande prato rettangolare di cui enfatizza la pur ridotta prospettiva assiale, inquadrandolo in un gioco di scalini e vasi, balaustre e statue sullo sfondo. Segnato al centro da una fontanella recuperata in un viaggio a Venezia, il prato è delimitato da un’aiuola di piante tutte a fiore bianco: garofanini piumosi alla base, rose piangenti in secondo piano, scompigliate, sempre sui toni del chiaro, da campanule, phlox, grandi margherite, masse di achillea e fasci di astri. Un monocromo chiamato a modulare sulla stessa nota, come spesso nei suoi quadri, minime variazioni ed effetti di luce.
Non manca poi il classico tema della terrazza delle rose, che s’incontra sullo spalto dove nel 1906 Le Sidaner aveva fatto costruire un padiglione quadrato di pietra e mattoni d’ispirazione Arts and Crafts con funzione di atelier d’estate. Qui, tra oggetti recuperati nei suoi viaggi – statue, vasi, una vasca, una meridiana –, sdrammatizzato nella mescolanza di colori vivaci di erbacee perenni come physostegie, malve e phlox, o di annuali come clarchie e papaveri, trionfa tutt’intorno il protagonismo delle rose in varietà: che siano incorniciate a terra da un accenno di parterre di siepi di bosso, dal disegno sinuoso, o arrampicate invece su pali, archi e sostegni, anch’essi fatti realizzare da maestranze locali sempre secondo disegni del pittore – purtroppo andati perduti durante la guerra con l’occupazione della casa da parte dei tedeschi.
E ancora, sempre a proposito di debiti, mentre dal suo soggiorno alle Isole Borromee, sul Lago Maggiore, trarrà ispirazione – come testimoniano anche una serie di studi e dipinti – per sistemare con balaustre in pietra, vasi e statue, rose e ortensie i dislivelli che risalgono le rovine delle fortificazioni di Gerberoy, trasfigurandole in un giardino di terrazze all’italiana, è sui resti di una torre fortificata appartenuta al castello medievale che Le Sidaner progetta e fa realizzare, a belvedere, un circolare Tempio dell’Amore ispirato a quello di gusto neoclassico che si trova al Petit Trianon a Versailles, con una replica della piccola statua del Putto con delfino di Andrea del Verrocchio: ancora un giardino a tema, anche cromatico, dove gialle rose rampicanti e clematidi viola proiettano sulle mura la serie dei gialli e blu delle piante a terra, calendule, rudbeckie, coreopsis e, a contrasto, pervinche, speronelle, gerani blu Rozanne, campanule e nigelle.
Come risulta dai suoi diari e da diversi articoli di inizio secolo che descrivono il suo giardino, oltre la dominanza delle rose, in fiore da marzo a novembre in questo clima temperato, le varietà di piante prescelte risultano quelle diffuse nei cataloghi dell’epoca. Abbonato alla Gazette des Jardinse membro della Société des Amateurs de Jardins, Le Sidaner presiede agli interventi in giardino e ne progetta gli elementi, rifacendosi, come si è visto a diversi modelli.
Più in generale, prima di fissarli sulle sue tele, il pittore giardiniere cura e ricompone giardino e paesaggio.
A questo multiforme soggetto pittorico d’insieme – fatto sia di ritagli del suo giardino che di vedute della città vecchia, della trama di strade, piazze, svolte e edifici, angoli e palazzi rivestiti di rose – Henri le Sidaner dedicherà negli anni oltre trecento tra studi e dipinti (un centinaio di tele), un quarto della sua opera. Raffigurato in diverse ore del giorno, ma preferibilmente alla luce sommessa di fine giornata.
Ma, nel ritrarre il suo giardino, proprio come quando dipinge i bacini dei giardini di Hampton Court, o le serie delle fontane del Trianon o di Nettuno a Versailles, o il pergolato che inquadra le terrazze dell’isola sul Lago Maggiore, Le Sidaner non cerca le grandi prospettive. Del suo giardino ritaglia visuali ristrette, come isolando istanti da un ininterrotto fluire, incorniciandolo spesso dall’interno delle stanze che su di esso si affacciano, o nel gioco di scambi tra punti di vista dei diversi ambienti che lo articolano, procedendo tra i terrazzamenti, nell’andirivieni tra esteriorità e interiorità cui continuamente l’esperienza del giardino rinvia.
Con l’inizio del secolo, al momento dell’acquisto della casa e dell’avvio dei lavori in giardino, Le Sidaner pittore aveva ormai maturato un suo stile, per quanto nella varietà delle proposte e delle influenze attraversate. Abbandonato il realismo sentimentale degli esordi, era passato oltre la tentazione simbolista. Dell’esperienza degli anni trascorsi con la colonia cosmopolita di pittori a Étaples restavano le amicizie e il piacere della convivialità. Essenziali, poi, erano stati i suoi soggiorni a Bruges con l’evocazione tremula di paesaggi silenti, nonché le frequentazioni parigine degli artisti indipendenti della cerchia simbolista, frequentata per il tramite del compositore Gabriel Fabre, con i successi delle mostre presso l’importante galleria di Georges Petit, suo mercante dal 1895, con i sodali della Société Nouvelle des peintres et sculpteurs e la cerchia degli intimisti Henri Martin, Edmond Aman-Jean, Henri Duhem e Ernest Laurent.
Ma nel complesso, il suo lavoro si era andato sviluppando lontano dalle etichette dei movimenti artistici cui attinge senza granché innovare, assecondando il suo gusto. Motivi essenzialmente intimisti, spesso innescati da una finestra o una panchina, le sue opere, dipinti e pastelli, incontreranno un notevole successo anche di vendite, con personali a Parigi, Londra, Bruxelles e negli Stati Uniti, stemperandosi nella varietà di un’espressione vieppiù decorativa.
Degli impressionisti aveva abbandonato la presa diretta sulla natura, per tornare alla pittura di studio. Dove però il lavoro di memoria, riprendendo magari quanto annotato all’esterno, traspone l’impressione oltre la vista, in un’esperienza interiore, immaginativa. Una dimensione introspettiva dove i luoghi della vita quotidiana e le scene domestiche, con il loro fascino semplice e la loro poesia latente, vengono trasfigurati in paesaggi dell’intimità.
Così, paesaggi ordinari, colti in momenti di passaggio – come al mattino, al crepuscolo o al chiaro di luna – per trasmettere il senso transitorio di un momento effimero, di un effetto fuggitivo, della bellezza di un istante, vengono catturati in una luce rarefatta, concentrata in cromatismi trattenuti.
Instancabilmente, nelle atmosfere morbide, nelle sfumature calde dei colori pastello di una tavolozza che in Le Sidaner sfoca contorni e colori, ricorrono i suoi motivi e soggetti preferiti.
In particolare, il mondo del suo giardino, deserto pressoché d’ogni figura umana, visto attraverso le aperture del paesaggio o, dall’interno della casa, attraverso finestre aperte e terrazze, nell’intimità di un angolo con tavolinetti e panchine, e poi le vedute del villaggio, le facciate incorniciate di persiane fiorite, la campagna solitaria.
La serie delle tavole imbandite o appena sparecchiate, bianche o blu, a evocare un’aura di convivialità – gli incontri frequenti con amici e artisti nella casa di Gerberoy. Vuota però di presenze che non siano le tracce, accuratamente disposte in composizioni sospese di nature disabitate, che suggeriscono presenze invisibili, passaggi recenti: bottiglie e bicchieri mezzi pieni, cesti di frutta, vasi allestiti con fiori da taglio del giardino, oggetti abbandonati.
Esemplare di questo dialogo silente di trame ed echi che si rimpallano tra arredi, piante, fiori, interno e esterno, casa e giardino, il dipinto del 1908, Finestra con garofani, dove, a distanza ravvicinata, vediamo quasi in soggettiva, impliciti commensali, una tavola apparecchiata nella sala da pranzo, e, oltre la cornice della finestra aperta, la diagonale del giardino. In un’inclinata accelerata dallo stacco della bordura di fioriture bianche e intervallata però dalla panchina che appare di traverso, presto conclusa poi, in fondo, dalla balaustra. In una progressione ferma, dove ordinando e intrecciando, si impigliano nel vibrato perdurare di un istante i bicchieri e le brocche sul tavolo, i fiori sul davanzale e quelli fuori – della bordura a terra e del risucchio dell’onda delle rose a mezz’aria sulla destra –, i dischi di luce sul prato, il riverbero in infilata del giardino che slitta sui vetri della finestra, spartito ancora e raddoppiato dalle lame delle due ante aperte di taglio.
Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 16, Supplemento de Il Manifesto del 17 aprile 2022
La consapevolezza via via più flagrante del radicale alterarsi dell’equilibrio tra condizioni ambientali e condotte del nostro stare al mondo, abitandolo, hanno da tempo indotto il progetto di paesaggio a tentare di operare una loro riconciliazione Verso una nuova estetica tra qualità del paesaggio e ragioni dell’ambiente – come recita il sottotitolo del lavoro di Laura Zampieri, Il mondo non è più un giardino, Quodlibet, pp. 168, €18,00. Dove, per via di genealogie teoriche e analisi di casi progettuali, vengono riproposte le tappe che conducono a enucleare le più recenti attitudini e segni distintivi del progetto contemporaneo. Sempre sullo sfondo del tormentato processo di superamento di una cartesiana, univoca lettura della natura, separata dall’uomo e da dominare – che ha generato peraltro anche l’invenzione del mito, qui ripercorso, della natura selvaggia. E che, assumendo invece la compresente molteplicità delle sue interpretazioni, vede l’uomo esserne parte (con essa e da essa modificabile).
Nel segno di un pensiero che nell’ecologia assume l’attitudine comune di riferimento, si analizza come via via nei decenni a cavallo del XXI secolo si interpolino pianificazione integrata e studio delle scienze naturali, risposte aperte e soluzioni collaboranti, progressive, resilienti, programmaticamente adattative alle frastagliate, imprevedibili dinamiche dei sistemi ambientali, anche urbani, infrastrutture soft, estetica del divenire e comprensione di scarti e dismissioni.
Nella dialettica che, oltre l’oscillazione tra eccesso e latitanza di progetto, dissociazione tra sviluppo e tutela, mira a riequilibrare attivazione di trasformazioni consapevole e accoglienza di capacità rigenerative. Significativo è il distillarsi di un metodo inteso a cogliere e restituire eterogeneità, discontinuità, contraddizioni, in una dimensione processuale aperta, piuttosto che non per via di definizioni formali. Una rappresentazione sintetica per strati che vede compresenti misure, figure, dati, mappe, foto.
Nella disamina, per come si declina nella ricerca e nella pratica progettuale, il dibattito di matrice anglosassone vien posto a confronto con quello di ambito mediterraneo ed europeo.
Con le sue specificità, dall’attenzione per l’ecologia urbana e le sue comunità vegetali – la lezione a inizi anni 80 del naturalista Paul Jovet e la sistematica di Herbert Sukopp – alla promozione della vita spontanea negli spazi pubblici, con relative implicazioni sociali, fino alla visione planetaria dell’ecologia umanista di Clément. Passando per le riletture dei contributi di Dieter Kienast, e la sua impostazione essenzialista che contempera derive puramente ecologiche anche tramite la sintesi di arte contemporanea, giardino e architettura, e di Rosa Barba, con la sua lettura mediterranea della capacità generativa del costante ridivenire in metamorfosi.
Rivisitando, oltre la consueta antinomia, i termini della presunta separazione tra città e campagna, e indagando invece le diverse fisionomie territoriali ed esistenziali che articolano piuttosto questa relazione, da geografo attento ad attitudini e percezioni di chi le abita Francesco Vallerani analizza nel suoI piaceri della villa. Vivere e raccontare la campagna tra abbandoni e ritorni l’evoluzione dell’idea di rurale. Storicamente, e poi fin nei più recenti fenomeni, appunto di abbandoni e ritorni (Le Monnier, pp. 262, € 19,00). Perché anche l’analisi territoriale di queste ultime dinamiche non può prescindere dalla comprensione del lungo e complesso processo di idealizzazione della campagna e quindi del peso dei condizionamenti culturali di questa eredità, nelle molte forme realizzate della ruralità ibrida della città diffusa, come nell’evoluzione dello specifico immaginario culturale del neo-ruralismo.
Vallerani segue così il modificarsi della geografia di quei piaceri della villa cui il titolo del volume rinvia, ispirandosi al cinquecentesco trattato di agricoltura di Agostino Gallo, per seguire come si ritroveranno poi diversamente declinati, fino all’oggi.
Dalle celebrazioni del primato etico della campagna, con Alvise Cornaro, alla ricognizione delle sue presenze nella pittura veneta, dalla fine del 400 con Bellini e Giorgione, poi con una più diretta lettura della realtà con Jacopo Bassano, fino alla palladiana innovazione della villa rurale.
Dall’arcadia rinascimentale alle sensibilità del romanticismo, alle retoriche celebrative del mondo contadino del periodo fascista, fino al diffondersi anche tra le classi medio basse di un idilliaco immaginario campestre, con l’aumento del tempo libero e lo sviluppo delle pratiche turistiche, e delle prime forme di consapevolezza ambientalista (spesso per presa d’atto di dissesti), attitudine che ancora stenta a farsi prassi territoriale.
Rurale come naturalità, come “bel paesaggio”, veicolato anche dalla diffusione di cartoline postali e guide, comepatrimonio da godere. Il tutto sempre in dialettica serrata con gli esiti pervasivi della rivoluzione modernista, dalla meccanizzazione del lavoro allo spopolamento e alla dismissione dei territori, dall’agribusiness alle urbanizzazioni delle campagne con la replica di modelli urbani e conseguente ristrutturazione delle geografie del vivere sociale, in un oscillare di abbandoni e controesodi.
Fin nell’articolazione del volume in una sezione Rappresentazioni e una seconda Vivere e raccontare, emerge la lezione di metodo di una geografia umanistica che propone di integrare oggettività geografiche e territoriali con la dimensione soggettiva. Così le implicazioni affettive delle percezioni ambientali disegnano geografie emozionali, mentre perlustrando nello spazio del vissuto la relazione tra paesaggio e memoria, tra microcosmi e microstorie, si disvela la “personalità” ai luoghi.
In queste aree di transizione geografiche e mentali, di percezioni e rappresentazioni, trovare asilo nel paesaggio è l’aspirazione condivisa di soggetti diversi. Oltre gli scenari pittoreschi, del trasfigurare in senso idilliaco e anti urbano una realtà contadina edulcorata, si rintracciano, spesso anche in relazione al prestigio culturale e alla qualità della locale tradizione insediativa, potenzialità e indicazioni per riequilibrare in quei paesaggi la crisi funzionale: paradigmi operativi in termini di agricolture alternative, recupero patrimoniale, manutenzione ambientale. Ma anche di qualità della vita e amenità, attività per il tempo libero, autoformazione, turismo culturale, residenzialità agrituristica.
Forme di resistenze al degrado e all’abbandono, di partecipazione collettiva, che a partire dalla vocazione rigenerante della qualità ambientale contemperano vivere sociale, salute, sanità ambientale, ricerca di identità, rinnovo esistenziale.
Se la centralità del contributo degli ecosistemi tropicali nel condizionare la qualità dell’esistenza sulla Terra, dalla regolazione di temperature e co2 al provvedere cibo e materie prime, rileva ormai del senso comune, meno evidente e documentato è il ruolo di questi ambienti, tra più antichi del pianeta, nel determinarvi l’evoluzione della vita, sia quella vegetale, con le prime piante da fiore, e animale, con le diverse domesticazioni, sia nell’interazione con i nostri progenitori e noi.
In una vasta indagine su questo ruolo, condotta su scala globale, attraverso tempi lunghi e combinando diversi approcci disciplinari, tra archeologia, antropologia e scienze ambientali, una diversa storia focalizza ora proprio la dimensione di artefatto delle foreste tropicali, esito di una feconda, flessibile, millenaria relazione plastica con l’uomo che le ha abitate.
Come ad esplorare un archivio vivente che conserva le tracce del suo impiego, una serie di indagini recenti, raccolte da Patrick Roberts nel suo Giungle. Come le foreste tropicali hanno dato forma al mondo e anoi (Aboca, pp. 508, € 34,00) corregge – avvalendosi anche di metodi come carotaggi paleoecologici e telerilevamento, archeozoologia e studi genetici sulle piante – la prospettiva che vede negli ambienti aperti della savana i luoghi di elezione del popolamento dei primi ominidi.
In una lettura che privilegia la variabilità ambientale dei mosaici ecologici, si sottolinea la presenza anche nelle affatto inospitali foreste tropicali di insediamenti e paesaggi dinamici. Sistemi urbani dispersi sul territorio, forme di “urbanesimo a base agricola e bassa densità abitativa” fondate su una combinazione di produzione locale di cibo e agro foresteria sostenibile, coltivazioni di manioca e altre colture di tuberi, gestione degli alberi da frutto, stagni per l’allevamento e utilizzo di animali selvatici. “Città giardino” di terrapieni, strutture coordinate e reti viarie, nel loro massimo sviluppo tra il 1250 e il 1650, prima dell’arrivo degli europei. Fenomeno complesso da quantificare, anche per la sua dissoluzione nell’impatto con le logiche estrattive e gli abusi imposti dallo sfruttamento del colonialismo europeo all’origine di tante disuguaglianze globali e regionali. Trascurato poi, almeno fino a pochi decenni fa, per l’assenza di vistose tracce architettoniche, certo secondo i modelli di sviluppo urbano mediterraneo e mediorientale. E, invece, spunto tramite il quale, tornando a interrogare saperi e pratiche delle società indigene delle semprepiù minacciate foreste tropicali, riavviarne un abitare sostenibile.
Seppur sullo sfondo del suo lavoro critico, di decostruzione su regimi neoliberisti, digitale, capitalismo cognitivo,il filosofo di origini coreane Byung-Chul Han si concentra ora sulla proposta di un giardino segreto, in coreano Bi-Won, inteso come giardino di inverno. Un progetto di recente messo in atto nei pressi di Berlino, dove risiede, e raccontato nel suo diario per note e stagioni, Elogio della terra. Un viaggio in giardino (Nottetempo, pp. 181, € 17,00, con 24 illustrazioni botaniche di Isabella Gresser).
La scrittura sincopata, che in rapide suggestioni ci confida la summa delle sue predilezioni e antipatie – filosofiche, letterarie e botaniche –, ma anche il movimento meno ingenuo di indifferenze e ripensamenti, ci addentra nel tempo relativo delle piante, nel dilatato susseguirsi delle stagioni. Dalle invernali forme, discrete e fragili, e dalle loro fragranze muschiate (della coreana forsizia bianca al sentore di mandorla, del calicanto e fin del caprifoglio), al vellutato risuonare in festa dei germogli del salice che si rianima a primavera, al gioioso calore della luce delle fioriture estive, al succedersi di andare e venire del momento in cui tutto … autunna già.
Qui però, diversamente dall’auspicata – da altri (leggi Gilles Clément) – saggezza del giardiniere, che in giardino tende a … lasciar andare, Byung-Chul Han ha trovato confortante decider tutto sulla base dell’assunto di raccogliervi piante che nel rigido clima dell’inverno berlinese fioriscano di continuo, anche sotto la neve. Tutto si tiene, pure in un gioco di presenze e sfasature. Sfasature, quelle di un gelsomino d’inverno dai fiori gialli e luminosi, che appunto in pieno inverno sa evocar la primavera, della paura dell’imminente fine dell’estate già ad aprile e di piante ritardatarie, sfiorite a fine ottobre, che però riprenderanno a sbocciare. Presenze, di un nominare che continuamente ci arricchisce: l’aspetto buffo dei piè di gallo e lo spintonare degli anemoni a febbraio, i bucaneve pensosi o sognatori, gli ellebori che illuminano la notte, le hosta e ortensie con cui l’autore fin si identifica per il loro amare l’ombra, l’astilbe che con la luce dorata delle sue infiorescenze quell’ombra modella in un raddoppio prediletto dell’inverno.
Quel che si vuole è un giardino come luogo estatico, per indugiare nel tempo in una meditazione silenziosa, luogo di redenzione e beatitudine, dove imparare a stupirci della terra, fonte di felicità, anche nella dimensione fisica, corporea, del sensibile. Creatura, viva, fragile, la terra, di cui prendersi cura, elogiandola in un’invocazione che – tra lo strombettare viola dei fiori delle campanule – suona anche da monito. Una realtà riconquistata insomma, il giardino (laddove la digitalizzazione tende ad abolirla).
E se, con rabbia, Byung-Chul Han confessa di detestar le foglie di quercia cadute che, come il neoliberismo – dice –, annientano in giardino ogni differenza (lente come sono a degradarsi in humus), dell’edera invece, che pure non gli è mai piaciuta, scopre come sappia anche brillare di uno splendore nascosto. E, a contemperare l’avversione per le erbacce, che solitamente estirpa, racconta di come in quella forma invasiva abbiano saputo arrivare in giardino piante che ora lo rendono felice, come l’achillea che sa di non aver piantato lui.
Per finire, con la grazia a tratti ingenua dell’entusiasmo di chi si sente, ben venga, iniziato, con la consapevolezza di come, oltre il prodursi delle fioriture d’inverno, valga a dilatarne l’intensità, la bellezza dell’ossatura delle ombrella disseccate delle ortensie e, in genere, il perdurare del profilo degli steli e delle infiorescenze appassite di anemoni e graminacee.
Magari in un’estetica oltre la decorazione che, assumendo, come già con il neonaturalismo di Henk Gerritsen, il rilievo dell’intero ciclo di vita delle piante, restituisca alla bellezza sfiorita delle silhouette invernali l’espressività propria del loro mantenersi, fin nel disfacimento.
Byung-Chul Han, Elogio della terra. Un viaggio in giardino, Nottetempo, pp. 181, € 17,00, con 24 illustrazioni botaniche di Isabella Gresser, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 12, Supplemento de Il Manifesto del 20 marzo 2022
Le 169 riproduzioni di rose, tra specie e varietà, realizzate dal vero a cavallo tra Sette e Ottocento dall’ormai famoso pittore di fiori Pierre-Joseph Redouté a partire dalle piante fisicamente raccolte nel parco della Malmaison da Joséphine de Beauharnais, moglie di Napoleone e imperatrice, ma soprattutto appassionata collezionista di quei fiori di cui impose la moda, illustrano, come in un fermo fotogramma, un’importante fase di snodo di quel filone dell’evoluzione del gusto che – tra creazione botanica e rappresentazione artistica – lo stile delle rose così evidentemente significa (Giudo Giubbini).
Specializzatosi nella fedele riproduzione naturalistica di soggetti botanici, come succulente e liliacee, nel quadro di nuova attenzione anche scientifica all’identificazione e documentazione fin dei minimi particolari che per ragioni di collezionismo e studio andasse oltre gli erbari, Redouté divenne celebre tanto da meritarsi il titolo di “Raffaello dei fiori” proprio per queste sue rose all’acquarello. Pubblicate, dopo il volume dedicato a Le Jardine de la Malmaison con il botanico Ètienne Pierre Ventenant, in tre volumi tra 1817 e 1824, seguendo la tecnica dell’incisione su rame au pointillé e con le stampe poi rifinite a pennello con colori ad acqua, Les roses sono ora riproposte da Elliot spostando in chiusura le descrizioni (pp. 224, € 50,00).
Dalle botaniche ai nuovi ibridi di gallica, alle recenti introduzioni delle novità arrivate da paesi lontani, come Cina e America, alla Malmaison potevan trovarsi allora gran parte delle rose al tempo note e reperibili, circa 250, la maggior parte delle progenitrici di quelle moderne, in una collezione continuamente arricchita con passione e competenza. Disposte a grandi gruppi, distribuite come in un parco con libertà e fantasia, oltre l’impostazione formale che in quella fase le preferisce irrigidite a scapito della grazia dell’andamento naturale delle piante lasciate crescere liberamente.
Pierre-Joseph Redouté, Les roses, Elliot pp. 224, € 50,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 10, Supplemento de Il Manifesto del 5 marzo 2022
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