Annunciato a più riprese e spesso inseguito nel suo andamento carsico, il fenomeno del ritorno alla terra, da intendersi nel quadro di un più complessivo ripensamento critico del modello urbanocentrico con annessi limiti, è andato di recente riaffermando i tratti della sua composita fisionomia. Molte tracce vengono ora puntualmente individuate, nell’incresparsi di limiti e contraddizioni della globalizzazione imperante, forse di un suo contrarsi in varie risacche di de-globalizzazione, da Valentina Boschetto Doorly che ci racconta come La terra chiama,articolando forme e movenze di quel che già è Il nostro futuro lontano dalle città, pp. 302, € 22.00, il Saggiatore.
Incrociando la distanza dello sguardo categorizzante che gioca con le nomenclature e la prossimità delle molte testimonianze raccolte e ritessute nel volume in tendenze prevalenti, di questo fenomeno vengono ripercorsi temi diversi ma complementari. Il tornare a fare impresa agricola, reinsediandosi magari in territori marginali, ma nel modificarsi di protagonismi e formule, in una logica multifunzionale, di produzione e trasformazione, che include attività ricettive, magari fattorie sociali, che si reinventa con forme di adozione e economia circolare e si traduce nella protezione e gestione del territorio. Dalle coltivazioni di precisione alle eccellenze di nicchia, dai vitigni della val d’Ossola al mais corvino,
Sempre nel combinarsi di fenomeni come l’invecchiamento della popolazione, il diffondersi di forme di lavoro da remoto, gli effetti del cambiamento climatico che spinge fuori dalle città i cittadini e le coltivazioni agricole ad altitudini sempre più elevate, si inquadra il procedere del ripopolamento alpino, che sia da parte di nuovi montanari per scelta, o di ritornanti (nuove generazioni urbane con legami familiari con le Terre Alte, fino al rilancio, con il moltiplicarsi delle stagioni, della vita dei comuni montani, anche nelle forme del pendolarismo strutturato (dopo i mesi invernali in città), della risalitasemiresidenziale in montagna per sfuggire agli effetti del riscaldamento, delle migrazioni verticali, in quota. Una pratica quella dello spostamento tra residenza primaria e luoghi rurali per lunghi mesi e stagioni, del vivere part time, magari con l’avvio di piccole attività che investe anche le aree interne del paese – quelle che occupano oltre il 60% della superficie nazionale. Rivitalizzate anche tramite strategie di ridistribuzione di case vuote abbandonate o la promozione di forme di turismo esperienziale, diffuso, fuori stagione. Un turismo verticale, lento e attento a mete minori, piccoli borghi, cammini codificati come la via Francigena, circuiti di secondo livello, che associano scoperta culturale, storica, enogastronomica, paesaggistica. Forme di ecoturismo che si impegna per la salvaguardia dell’ambiente, esperienze ibride tra volontariato e turismo attivo (nello scambio tra volontari e fattorie ospitanti).
Nel volume si alternano così passioni e narrazioni di sperimentatori e avanguardie ormai strutturate proposte operative e buone pratiche da condividere e cui dar voce. Dalle esperienze della Banca della terra al progetto Agritessuti, dallo sportello Vado a vivere in montagna ai progetti di residenzialità diffusa, locazioni a lungo termine, con servizi e relativa infrastrutturazione sanitaria del caso diHappy village di Lega Coop.
Passioni e narrazioni di un agire volto a riequilibrare asimmetrie e curare lacerazioni si alternano così nel volume con i tratti ribelli di un pensiero dissidente, che nel ridisegno in controtendenza di modelli e forme dell’impianto amministrativo, fiscale, burocratico introducono uno sguardo d’insieme, ultracittadino.
Valentina Boschetto Doorly, La terra chiama.Il nostro futuro lontano dalle città, il Saggiatore, pp. 302, € 22.00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 8, Supplemento de Il Manifesto del 20 gennaio 2022
Ad accoglierci, di là dal cancello, un incalzante susseguirsi di episodi e sorprese va a comporre il raffinato congegno del giardino della casa estiva del pittore Max Liebermann. Esponente di una facoltosa famiglia ebrea berlinese e figura di primo piano della vita artistica a cavallo tra Otto e Novecento, collezionista dell’impressionismo francese e protagonista lui stesso tra i maggiori di quello tedesco. Nonché, appassionato di giardini, in particolare, del suo. Che per molti anni ritrae, variandone nel tempo la maniera.
Siamo a Wannsee, sul lungolago, nella zona esclusiva a sud di Berlino dove, già a fine secolo, si concentra la colonia di ville e case di campagna di Alse. Nel rifugio degli ultimi decenni di attività di Liebermann, in quello che per lui fu studio a cielo aperto di oltre 7.000 metri quadri e soggetto d’ispirazione per un innumerevole carosello di dipinti, disegni, acquerelli e pastelli (oltre duecento) che a partire dal 1910 per oltre due decenni raffigurano il beneamato giardino.
E, in gran parte, proprio sulla base di questi “ritratti”, spesso ripetuti in serie, nonché della documentazione fotografica e di una fitta corrispondenza, è stato possibile restituire al suo tracciato originale il disegno completamente perduto del giardino della villa, oggi casa-museo.
Nel suo complesso, il suo impianto procede in un incedere serrato, che si dilata però via via di viste larghe, pause, respiri. Il vialetto d’ingresso che spartisce i lussureggianti letti assortiti di fioriture estive e legumi, conducendo alla villa si conclude inchinandosi sotto il filare di alti tigli piantati perpendicolarmente rispetto al percorso, a incorniciare con le loro chiome potate ad arte la facciata in stile neoclassico. In uno iato che separa questo scapigliato primo giardino dal composto piazzale antistante la casa, dove riposa un elegante rettangolo di prato adornato soltanto, ai vertici, con sfere di bosso topiato. Ma, subito oltre, attraverso la loggia e le finestre, lo sguardo intercetta di là dalla casa la Terrazza con bordure in fiore al seguito delle stagioni e il digradare, di là dalle rampe, del prato che costituisce la parte maggiore del vasto appezzamento longitudinale proteso fin nello sciabordare di riflessi del lago. Con il contraltare, però, di una doppia partitura ad accompagnarne l’andamento: sul suo lato sinistro, tre giardini a stanze creati da siepi di carpini e collegati da un sentiero si avviano in una progressione formale di episodi distinti fino al piccolo frutteto e al padiglione sulla riva; mentre sul lato opposto, un drappello di betulle – evocative, assieme, della spontaneità ispiratrice del rigenerarsi di habitat e oggetto di riprese simboliste jugendstil – interseca e invade il viale che finisce all’acqua.
Le ragioni della scelta del luogo si precisano nell’essenza del progetto della residenza estiva. Quella che, affettuosamente, Liebermann chiama il suo Schloss am See (castello sul lago). Una creazione che incorpora insieme giardino e architettura ma, già prima, disegno degli interni e, all’opposto della scala, paesaggio d’intorno.
Commissionando il lavoro, nel 1909 scrive al suo architetto, Paul Otto Baumgarten: “Quando son sulla riva, voglio poter vedere attraverso la casa la parte del giardino che si trova dietro di essa. Mentre davanti sarà sistemato un semplice prato, così da vedere il lago dalle stanze, senza impedimenti. A sinistra e a destra del prato, sentieri dritti”. Il giardino sarà allestito a cura di Albert Brodersen, capo del dipartimento di orticoltura di Berlino, nello stile che al volgere del secolo, anche come reazione alla naturalità indotta della fin lì prevalente moda del giardino paesaggistico all’inglese, recupera nella progettazione segni, forme e geometrie di quello architettonico.
Ma, in una maniera dove la relazione tra esterno e interno che si vuole mediata dal costruito, con logge e terrazzamenti, si ibrida con la progressione che, via via che ci si allontana dall’abitazione, vira dal disegno geometrico alla spontaneità del selvatico. Dove la geometria pulita del giardino e l’essenzialità per simmetria di viste assiali si sfrangia nella profusione di fiori dell’orto e trascolora nell’esuberante protagonismo delle fioriture annuali, ispirandosi all’atmosfera vernacolare dei giardini di campagna del nord della Germania.
E, come si vedrà, una chiave di lettura in tal senso del progetto del giardino – in continuo, dialettico trascorrere di scale e funzioni estetiche, nella sua composizione come poi nello sguardo che la coglie – la forniranno negli anni le raffigurazioni di quest’opera totale da parte di quel Liebermann pittore, che alla sua ideazione e messa a terra giardiniera partecipa in prima persona. Come emerge anche dalla corrispondenza con Alfred Lichtwark, direttore della Kunsthalle di Amburgo ma anche esponente critico del nuovo movimento per la Riforma del giardino. Una temperie inedita dove la ripresa dello stile architettonico con arredi funzionali e proiezione all’esterno delle ragioni dell’abitare si contempera e risolve nel contrasto vibrante di colori del giardino cosiddetto decorativo, anche sotto l’impulso delle piante di quello naturale inglese, di William Robinson e Gertrude Jekyll.
Ma, in questi anni, siamo ormai in una fase avanzata della complessa evoluzione artistica di Liebermann che vedrà la sua pittura farsi vieppiù naturalistica, diventando sempre più liberanel confronto con l’impressionismo, quando, con i primi successi all’estero, si afferma anche in patria: ma, sul versante della Secessione. Fondatore di quella di Berlino nel 1889, trova poi un importante sostenitore, in particolaredei ritratti che gli vengono commissionati da molti noti esponenti della borghesia, proprio in Alfred Lichtwark, della cerchia di Carl e Felicie Bernstein, tramite i quali si era avvicinato al lavoro di Degas e Manet. Degli impressionisti francesi, che anche lui comincia a collezionare,riprende la tavolozza che si illumina nei colori, mentre si volge a motivi come il passeggio tra i viali dei parchi, le gite estive e, in genere, i passatempi dell’alta società, la vita da spiaggia, le vedute di giardini. Su tutti, quello della sua villa a Wannsee che, a partire dal 1910 e poi con la Prima guerra mondiale e le difficoltà di spostarsi all’estero, diverrà il soggetto principale dei suoi dipinti. Fin quando con la presa del potere dei nazisti dovrà ritirarsi del tutto dalla vita pubblica per morire a Berlino nel 1935.
Prima però, come si è detto, per oltre due decenni Liebermann dipingerà ogni parte del giardino – perlopiù disabitato di umani, che non siano le rade apparizioni della nipote bimba con la tata o dei giardinieri al lavoro –, riproponendone più volte, da una medesima o da diverse angolazioni, gli stessi motivi. E se da un lato, di pari passo con il maturare del giardino, sarà evidente l’acquisizione di una sempre maggiore familiarità nei suoi riguardi, che si distende oltre la rigidità delle linee iniziali, in una visione e una mano assieme più ampie nelle campiture e puntuali nel tratto, dense nel colore e leggere nel contrasto di luci; dall’altra, pur nel susseguirsi e ritornare di temi dipinti, si nota il progressivo affermarsi, anche dal punto compositivo, di un qual certo protagonismo vegetale. Nel gioco serrato di una resa, verde su verde, per rigogliose pennellate che si alternano a imitare la struttura del fogliame che riluce, e dell’accendersi dello sbuffo del colore dei fiori, scandito dal ritmo verticale degli steli. E, spesso, nell’assunzione in primo piano del soggetto – vegetale.
Se, nella versione del tema de L’orto a nord-est del 1916 appare ancora netta l’opposizione tra perenni in varietà e resa piana di elementi strutturali, come il fronte della villa e il sentiero, nella versione del 1928, Fiori sulla casa del giardiniere a est, l’enfasi è tutta nell’inclinato progredire in visione ravvicinata della plastica distesa di fiori estivi che occupano i tre quarti del quadro. Mentre, già nel 1925, l’analogo soggetto era trattato dal pittore pressoché ottantenne catturando uno spicchio soltanto del sentiero e, in primissimo piano, il ritmo combinato di infiorescenze e ciuffi di fogliame.
La Terrazza fiorita poi, nelle varianti che la vogliono piantata in primavera con viole gialle e blu e, in estate, con gerani rossi, è forse il soggetto pittorico preferito da Liebermann.
Principio ordinatore – nella regolarità del suo impianto geometrico, in giardino – la Terrazza dei fiori è riproposta su tela per strisce fluide di masse unitarie di colore, quasi sempre, però, inquadrata per frammenti. Ma, come si è detto, principio altresì distributivo, nel giardino, dal domestico al selvatico, è elemento di transizione che volta a volta si declina in pittura: ne La Terrazza fiorita di rossi estivi del 1914 orientata verso nord; o nel suo duplicarsi nella versione a fioritura primaverile, quella di giallo e blu, del 1917, dove l’inquadratura arretra per inserire in primo piano la verticalità di uno scuro torso d’albero a innescare un ideale rimpallo prospettico; oppure, ancora, in variazioni ulteriori, proiettandosi nelle visuali, in direzione opposta, verso i giardini di siepi e il lago.
E qui, la serie delle stanze verdi realizzate in sequenza costituisce di certo l’espressione massima della componente formale che anima in quella fase il dibattito sul progetto del giardino.
Elevate a principio architettonico, le siepi delimitano per via di rigorose forme geometriche diversi spazi segreti.
Dal primo, di impianto quadrato, con al centro un riquadro di dodici tigli, al secondo dove è l’ovale del sentiero a ritagliare il prato, al terzo che racchiude un pergolato di rose con meridiana. Mentre ad antifrasi di questo progressivo disvelarsi di spazi organizzati, sul lato opposto del prato, procede invece in parallelo l’indistinto continuum dei tronchi d betulle, a interrompere il sentiero che conduce anch’esso alle sedute bianche sulla riva.
Ma, per quanto Liebermann pittore proceda sempre guardando “attraverso il giardino”, è invece proprio interrompendone le simmetrie reali e scegliendo inquadrature e angolazioni ravvicinate e decentrate che, nelle raffigurazioni che ne trae, fa sì che l’organicità e il dinamismo della vita vegetale prevalgano sul rigore ideale della forma progettata.
Ancora una volta, allora, nella Rotonda nel giardino racchiuso tra siepi del 1927, l’impianto architettonico sembra così liquefarsi nella sintesi della pennellata dei fiori e fin anche del prato e nelle torsioni del taglio del punto di vista.
In un percorso che, dalla domestica naturalità d’insieme delle raffigurazioni del giardino di stile impressionista sempre più si volge all’estremo di una natura che nella libera vitalità dei sensi sembra quasi farsi astratta, disarticolata per troppa prossimità, la forma rigorosa e le simmetrie del progetto del giardino potevano dunque tornar buone come cornice ideale. Quella per cui il giardino tutto, seppur tagliato quasi fuori campo, si avverte sempre però premere forte dall’esterno del telaio. Così come, la presenza delle panchine bianche si ritrova in molti dipinti a evocare la dialettica tra i diversi elementi del giardino. In un gioco di rimbalzi, a mo’ di enjambement, tra i diversi quadri e i soggetti ritratti, nel corso del tempo.
Oltre la semplificazione di un Liebermann che si attarderebbe in pittura più di quanto non sia aggiornato sul fronte dell’arte del giardino, si può piuttosto dire di una sorta di dispositivo generale, che, escludendo, seleziona senza però nulla perdere dell’insieme di cui è parte. Guardare da presso “attraverso il giardino” per il ravvicinato tramite di una vita vegetale chiamata in primo piano sulla tela quasi a trasferire in colore il palpito di una vita propria, comporta e definisce, consente e induce una complessiva ricomposizione, per viste complementari.
A restituire la cartografia se non la cinetica dell’istante, reso per ogni dipinto da un’occhiata-fotogramma. Quasi si procedesse, per diffrazione di quadri, nel tempo del giardino, camminando.
Un’aspirazione, quella della resa della dimensione quarta, ulteriore, del temporale del movimento, che anche ai tempi di Liebermann già si affaccia da tante avanguardie.
Non troppo diversa da quell’essere a un tempo soggetti di una moltiplicata contemporaneità di campi visivi, punti di vista, luminosità, e in essi immersi in successione temporale.
Che è, in fondo, la quintessenza dell’esperienza totale che talvolta può darsi del giardino.
Esponente di punta della seconda maniera del giardino paesaggistico inglese che, dopo Lancelot Brown, tra metà del XVIII secolo e il volgere del successivo, si dibatteva tra le suggestioni degli esotismi di William Chambers e l’asprezza delle riserve del “pittoresco”, Humphry Repton incarna un’estetica che recupera il naturalismo alle ragioni della compostezza, anche formale. Alla ricerca di un continuo, produttivo equilibrio tra natura e arte, dove l’interferenza di quest’ultima sul paesaggio deve esser nascosta con ogni cura. Per imitare la natura l’arte deve ingannare.
Una dialettica sempre perseguita, nel suo indefesso lavoro di suggeritore-progettista di giardini, in tutta l’Inghilterra, e metodologicamente resa fin dal titolo scelto per le sue Osservazioni su teoria e pratica del giardinaggio paesaggistico, ora riproposte da Olschki, a cura di Andrea Mariani e Massimo de Vico Fallani (pp. 187, € 50,00).
Qui, a fronte delle difficoltà di trarre regole generali,il ragionamento di Repton procede sempre per inclusione di argomentazioni differenti, valorizzando contraddizioni e bilanciando posizioni, nell’analisi concretamente applicata a situazioni sempre diverse. Dove distinguere quindi soluzioni che volta a volta Repton argomenta sulla base della sua vastissima esperienza di professionista (fu il primo a coniare la definizione di “landscape gardening”).
Autodidatta ma di letture ampie nel campo delle arti figurative e dell’architettura come nelle discipline scientifiche – la fisica e l’ottica dei meccanismi che presiedono alla percezione – grazie alle quali conferma le sue osservazioni con schemi e grafici, Repton procede preferibilmente per singoli casi e “a seconda delle circostanze”.
Considera inseparabili giardinaggio e architettura – e per entrambi come da evitare le commistioni di stili. E di questa relazione saranno espressione il sodalizio con il famoso architetto e urbanista John Nash e soluzioni dove la residenza risulta in relazione stretta con il parco e parte integrante della scena paesaggistica. Tra il parco e la casa Repton reintroduce elementi di simmetria, l’invito all’utilizzo formale di terrazze come basamento che eleva quest’ultima e, nei pressi, aiuole fiorite e l’utilizzo di serre e padiglioni. Influenzando e anticipando soluzioni che si ritroveranno nello stile “gardenesque” e nel pragmatismo funzionale degli sviluppi d’oltreoceano.
Nel suo intervenire in dialogo tra morfologie e architetture Repton esamina i diversi metodi per tener nascosti confini e recinti esterni, illustra il ruolo di viali d’ingresso, sentieri, bivii, cancelli doppi, l’opportunità, o meno, e il modo di procedere a spostamenti di terra e a modifiche della linea del terreno, preferendo in genere l’uso di piantagioni. E distinguendo però l’impianto di alberi già adulti per risultati immediati da quelli pensati invece a lungo termine.
L’invito è poi sempre ad applicare alla modifica del paesaggio le regole della “visione”. A considerare congiuntamente campo visivo, inclinazione, distanza e posizione, e nell’introduzione nei parchi di specchi d’acqua a misurare le forme che derivano dal riflesso degli oggetti – pressoché assente nell’acqua in movimento, mossa dal vento o dalla corrente, in grado invece di raddoppiare ogni oggetto che si trovi sulle sponde a partire dalla superficie immobile degli specchi d’acqua artificiali.
Argomentando per temi, a chiarire le tesi esposte, Repton ripropone così nel volume gli esempi tratti dai suoi famosi taccuini rilegati in pelle rossa. I Red Booksdove, di volta in volta, aveva messo per iscritto il suo parere per i proprietari committenti e raccolto mappe e disegni acquarellati che, tramite linguette pieghevoli sovrapposte, mettessero a confronto il modificarsi dello stato delle loro proprietà, prima e dopo il suo intervento. Scusandosi, come dice, per il tratto di qualità diseguale, dovuto a un lavoro fatto spesso in carrozza nei frequenti spostamenti tra un sopralluogo e un altro dei suoi molti incarichi.
Humphry Repton, Osservazioni su teoria e pratica del giardinaggio paesaggistico, a cura di Andrea Mariani e Massimo de Vico Fallani, Olschki, pp. 187, € 50,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 5, Supplemento de Il Manifesto del 30 gennaio 2022
Raccontare giardini significa ridurre ogni volta a parole, se del caso illustrate, quella che è un’esperienza totale di attraversamento. Esito spesso di un viaggio, geografico, di avvicinamento, magari verso luoghi sperduti, e mentale, di inquadramento e documentazione di contesti e coordinate culturali, di avventure sensoriali e incontri con testi, autori, progettisti e compartecipi, di presa in conto di canoni estetici e botanici che, pur variando per latitudini e civiltà, sempre segnano quest’opera dalla firma multipla: a un tempo dell’ingegno umano in artefatto e del vivente tutto.
Giardini che tramano la storia di singolarità, come a Villa Litta di Lainate con il ninfeo di sculture, bizzarrie e giochi d’acqua, e giardini entrati ormai nell’immaginario di ciascuno come il Parco dei mostri di Bomarzo. Giardini di collezionisti che procedono per tipologie, come nel caso degli spilli delle piante grasse a La Cutura a Giuggianello, e giardini d’insospettabili giardinieri come Garibaldi alla Maddalena, Francis Ford Coppola a Palazzo Margherita, Tonino Guerra con il suo orto giardino di Pennabilli. Giardini di artisti – che ci conducono per via dei riflessi di luce sulle gigantesche sculture dei tarocchi in dialogo col bosco di Niki de Saint Phalle o sul filo delle melodie tra alberi d’arancio, sarda macchia mediterranea, steli e sculture nel giardino sonoro di Pinuccio Sciola a San Sperate nel Campidano.
Ma anche, giardini che si rivelano testimonianza vivente della ricchezza della flora endemica e dei saperi legati all’uso di piante medicinali, alimentari, cerimoniali come per il messicano Jardín Etnobotánico di Oaxaca.
E rivisitazioni di classici come il Jardin Secret che d’improvviso s’apre dietro gli alti portoni e le mura di segreti palazzi recuperati all’abbandono nella kasbah presso la Medina di Marrakech. Dove, affacciandosi sull’incrocio di viali e simmetrie dei cortili centrali, la disposizione dell’impianto tradizionale di agrumi, fichi, melograni – ma anche palme da dattero e alberi di argan – si scompiglia, tra fontane e canali, stucchi e mosaici, in un inatteso brillare di fogliami diversi, con l’inserimento di una graminacea, dal segno tutto “contemporaneo”, come la Stipa tenuissima che il paesaggista Tom Stuart-Smith introduce a reinterpretare il giardino islamico, affiancandogliene uno più piccolo, esotico, dove convoca presenze vegetali da Sud America, Madagascar, India.
E, ancora, per ciascun luogo visitato in quest’eterogeneo peregrinare dell’autore equamente diviso tra Italia e resto del mondo, il distillato di un insopprimibile desiderio di condivisione. Che sempre apparenta giardini e raccontare.
Dietro quel loro apparire come ambienti quasi del tutto artificiali, a ben guardarle le aree urbane sono anch’esse ecosistemi. Dove certo si affolla la maggior parte della popolazione umana e dove pure si concentrano criticità come la sempre crescente domanda di risorse energetiche, il pervasivo consumo di suolo, gli esiti più evidenti dei cambiamenti climatici. Ma che pure ospitano scampoli di natura, variamente incolta e addomesticata e comunità di specie vegetali e animali, spesso molto vitali, per quanto sottoposte a inedite pressioni evolutive (in termini magari di complessità dei “suoli”, rumori, illuminazione notturna).
Per paradosso, perciò anche in ambito urbano esiste una biodiversità che merita e necessita di essere preservata e incrementata. Tanto più in un contesto dove fortemente si trovano intrecciate dimensione sociale, economica, culturale.
E, proprio coniugando i temi della salvaguardia della biodiversità in ambiente urbano con le pratiche progettuali della predisposizione e del presidio di spazi aperti per il pubblico, di recente, anche in Italia, colmando un certo qual ritardo, l’architettura del paesaggio è andata assumendo questo orizzonte come grimaldello progettuale. In un approccio integrato che vede la collaborazione tra diverse discipline e incrocia esigenze ecologico-ambientali con funzioni estetiche, etiche e ricreative. Ce ne dà conto ora il lavoro di ricognizione su Nature in città. Biodiversità e progetto di paesaggio in Italia, edito a cura di Bianca Maria Rinaldi, Alessandro Gabbianelli, Emma Salizzoni per Il Mulino, pp. 164, € 16,00.
Ridurre la frammentazione dei molti habitat presenti in città, ricucendo anche per la fauna corridoi di connessione tra parchi pubblici e microambienti vegetati, filari alberati lungo le strade e corsi d’acqua, orti, giardini, spazi verdi disegnati, come anche aree umide, e zone residuali, immaginare quindi infrastrutture verdi, ma anche rinverdire pareti e lastrici solari, incrementando la diversità floristica in città, magari sulla base dell’ospitalità da darsi alla avifauna e agli insetti impollinatori e progettare perfino nuovi ecosistemi integrandoli in ambito urbano, con funzione tra le altre di educazione ambientale. Sono soltanto alcune delle esperienze che emergono dalla disamina dei casi analizzati che enucleano approcci e paradigmi attuativi, variabili e costanti del progetto di paesaggio all’opera sul piano della salvaguardia della biodiversità urbana.
Con approfondimenti volta a volta su strumenti normativi, dalla strategia nazionale ai regolamenti cittadini, ai piani del verde. Con le indicazioni per le specie vegetali da impiegare, la riduzione delle superfici asfaltate, l’utilità di come connettere aree verdi tramite reti ecologiche, il coinvolgimento di attori privati e collettività attive, e relative innovazioni gestionali e normative; fino all’analisi delle criticità del paradigma di una foresta urbana indifferenziata che “rischia di tradursi in una resa all’inselvatichimento”.
Il rilievo di dispositivi come gli Atlanti faunistici, quelli della flora urbana (spontanea e coltivata), per il censimento e la distribuzione delle specie. Il ruolo delle aree archeologiche urbane come habitat rifugio. Dove, fatta salva l’esigenza di conciliare la convivenza in equilibrio tra manufatti e vegetazione, si rileva come si sia andato variamente affermando un atteggiamento progettuale che valorizza la presenza di biodiversità. Anche in quanto rinnovato ideale estetico, andando oltre il fascino decadente dell’associazione tra vegetazione e rovine, e enfatizzando la relazione tra monumento e naturalità proprio a partire dal riconoscimento del valore della selvaticità spontanea che si intende conservare. L’importanza del tema della giusta distanza nell’armonizzare eterogeneità degli usi ed esigenze di differenti fruitori, nella separazione tra aree aperte al pubblico e aree inaccessibili per esigenza di salvaguardia, in particolare nel caso di ecosistemi costruiti ex novo, come le oasi urbane. Lo specifico di come attivare connessioni e prossimità di tipo percettivo anche tramite dispositivi spaziali come torrette, osservatori, passerelle, camminamenti, percorsi: utilizzati per mettere in evidenza, suggerire o guidare l’azione di osservare ed esplorare…
Tra le strategie progettuali che l’architettura del paesaggio dispiega nella valorizzazione della biodiversità in area urbana ricorrono, si evidenzia, due linee di tendenza. Entrambe intese comunque a suscitare una risposta emotiva come strumento per avvicinare la sensibilità del pubblico urbano a una naturalità percepita come valore da preservare (e incrementare). Attraverso la costruzione di una esperienza diretta della natura, fatta di percorsi di educazione ambientale ai valori di biodiversità (visite, tour, raccolta di foto e dati da condividere, bioblitz).
Da un lato tramite un senso di stupore che si innesca con la mediazione di interventi progettuali dal forte segno iconico per evidenziare la qualità estetica dell’ordinario (e quindi anche quella ambientale).
E ancora, attraverso il calcolo, l’attivazione di una opportunistica consapevolezza del molteplice valore delle aree urbane verdi come fonte di benefici. Particolarmente evidenti quelli ambientali, quando tradotti in termini di resa di servizi ecosistemici utili (riduzione del carbonio, sottrazione degli inquinanti, mitigazione microclimatica, uso del suolo).
Nell’espressione in bosco, che dà il titolo all’ultimo racconto forestale di Daniele Zovi – un’espressione cui di volta in volta, e tutti assieme, sottintendere l’andare, il tornare, lo stare, ma anche il sentire, il meditare, l’incontrare –, è racchiuso il senso di un’esperienza ogni volta emozionale e conoscitiva. Che ogni volta diversamente ritesse i fili già noti dei saperi taciti, della memoria, anche sensoriale, della nostalgia, del riconoscere, e quelli dell’ancora, sempre ogni volta, dell’imparare dall’esperienza agita e dell’integrare nella prassi conoscenze d’altrove confluite.
Se poi il sottotitolo è Leggere la natura su un sentiero di montagna si capisce bene come il marchingegno narrativo, zaino in spalla, di tornare a fare un cammino di un paio di giorni e una trentina di chilometri attraverso l’altopiano di Asiago, dormendo al bivacco di casara Trentin, sia l’occasione, di richiamare in appello la varietà di paesaggi e la trama di segni del nostro abitarli, la fenomenologia desiderante del nostro incontro con il selvatico, l’accurata e accorata descrizione da presso delle fisionomie dei protagonisti vegetali, ma anche, interpolando, le acquisizioni recenti della letteratura scientifica e la rilettura di versi, fiabe, filastrocche, nonché la messa a tema di questioni, tra etica e ecologia, sulle quali interrogarsi (UTET, pp. 208, € 17,00).
Rompendo talvolta il ritmo del passo e divagando in diagonale, per sentieri non segnati: che si tratti della predilezione per l’indaco delle fioriture autunnali della genziana o per l’effervescenza di intermediari tra mondo minerale e biotico dei licheni, del gioco di immedesimazione nel continuo agire dell’acqua che scava e crea cunicoli, dell’interrogarsi sulla fitta trama di segnali e relazioni sociali sotterranee.
Variando, nel percorso, di registro e giro d’orizzonte, dalla riabilitazione della fragrante biodiversità dei sistemi – a lungo considerata in difetto d’ordine – al disvelarsi, con la composizione del sottobosco, dello stadio d’evoluzione del suolo. Fino all’ammissione di indugiare, nell’ora tarda del rientro, nella speranza di accompagnarsi al tasso.
Oltre ogni approccio settoriale, si fa strada la consapevolezza dell’interconnessione stretta tra esiti del cambiamento climatico, con scatenarsi di precipitazioni e ondate di calore, perdita di biodiversità, consumo di suolo come ecosistema dotato di vita, e impatti diversi in termini di diseguaglianze socioeconomiche e salute. Alle diverse scale, ma specialmente in ambito urbano, dove sempre più si concentrano alcuni fenomeni e la stragrande maggioranza della popolazione. E al ruolo degli alberi, come sintesi, minimo comun denominatore, emblema dell’agire che questa consapevolezza comporta nei processi di rigenerazione urbana sostenibile è prevalentemente dedicato il Manuale di autodifesa ambientale di Ludovico Del Vecchio e Francesco Ferrini, intitolato Resistenza Verde, Elliot, pp. 192, € 18,00. Anche perché, come ci viene ricordato, “un albero in città ha una valenza ecologica fino a 4-5 volte superiore rispetto a un albero in foresta”.
Ecco che allora, nella logica di aggiornare quanto già esiste, migliorando e incrementando, nel senso della manutenzione, risalta in primo piano la trama delle alberature di città. Da quelle lungo le strade a quelle nei parchi e nelle aree verdi degli spazi pubblici, collante imprescindibile tra luoghi e comunità, magari da ridisseminare in dimensioni ridotte, ma alla portata di tutti. Fino agli alberi degli arcipelaghi delle proprietà private, a costituire un patrimonio vegetale spesso misconosciuto.
Distinguendo volta a volta i fattori per la scelta delle specie arboree. Da usare secondo le caratteristiche strutturali e estetiche (portamento, capacità di sopportare le potature, resistere ai patogeni, ombreggiare) e il contesto (il procedere per filari omogenei o per diverse specie alternate, distanze e densità consentite, presenza di impianti, cavi, tubature, strozzature). Nonché in termini di funzioni assolte – dallo stoccaggio dell’anidride carbonica e cattura del particolato inquinante all’assorbimento delle precipitazioni in eccesso e alla mitigazione delle temperature, dal favorire il movimento e la contemplazione per noi umani al farsi corridoio per il mimetizzarsi o il nidificare degli animali.
Così, ricombinando riflessioni, dati scientifici e analisi su macrofenomeni, tecniche e pratiche consolidate, ma anche ricordi e sensazioni particolari, si trascorre dall’analisi di potenziali modelli di città per un urbanismo verde al tema della produzione di cibo nei siti urbani, dall’intrapresa di piantagioni notturne, non autorizzate, all’analisi del prodursi di fenomeni di gentrificazione ambientale, dalla presenza degli alberi nel cinema ai riverberi dell’imprevedibile volo delle foglie, del loro stormire al vento, del cricchiare sotto i nostri piedi, una volta cadute e volte a divenire, con l’humus, ecosistema dotato di vita che contribuisce al nostro equilibrio microbiotico.
Così, per forza d’alberi e attorno a loro, si attiva, spesso dal basso, una “resistenza” dove l’estetica concorre al benessere ambientale.
Sarà di certo frutto dell’inconsueta prospettiva che su tutto pretende di prediligere botanica e orticultura, ma a ben guardare le cose dal punto di vista delle piante e del giardino con cui Emily Dickinson dialoga e a cui variamente si dedica lungo l’intero corso della sua vita, l’impressione è di un protagonismo complice, un polimorfo dialogare che si dispiega all’interno di un universo per lei costitutivo, in una fitta trama di scambi e attenzioni, suggestioni, favori e doni.
Perno dell’intera esistenza è difatti, per Emily, il giardino della casa di famiglia in stile federale fatta costruire dal nonno nel 1813 sul limitare della città di Amherst, a circa 130 km da Boston, e poi, per cerchi concentrici, il profilo mosso del paesaggio della valle del Connecticut, tra colline, ruscelli e campi coltivati.
E, casa, giardino e paesaggio d’intorno resteranno sempre un riferimento costante, fin dalla giovanile passione per la natura e la botanica testimoniata dalla cura affettuosa riposta nel comporre il suo erbario, dai vagabondaggi delle gite, quando di sé diceva “sono piccola come lo scricciolo e la mia chioma è impavida come il riccio della castagna”, e poi nelle diverse fasi della vita, allontanandosi soltanto per qualche breve viaggio – quando, comunque, si preoccupa di chi, nel mentre, avrebbe badato alle sue piante. Occasione di diletto e di fuga, per lei che preferisce l’aria aperta: “sono una dei campi, si sa, e se mi trovo a mio agio col dente di leone, in un salotto faccio solo una triste figura”. Rifugio sicuro, anche a fronte del suo progressivo ritrarsi entro la strettissima cerchia familiare e le poche amicizie, con la riduzione della vista, il definitivo isolamento, i lutti familiari degli ultimi anni. Nel giardino d’inverno fatto annettere in un secondo momento alla casa sul lato est, tra lo studio e la sala da pranzo . Dove si concentrano le fragranze floreali e, come scrive all’amica Elizabeth Holland, “mi basta attraversare un pavimento per ritrovarmi sulle Isole delle spezie”.
È in questa prospettiva, tutta dedicata appunto alla Emily Dickinson e i suoi giardini, che Marta McDowell privilegia e rilegge le fonti più diverse (L’Ippocampo, pp.270, € 19,90). Dai testi di botanica della biblioteca di casa alle composizioni e note dell’erbario, dagli inventari delle piante al chiuso alla favola giardiniera che Emily scrisse per alcune bambine, fino ai saggi d’indagine scavati in vari punti del giardino in vista del restauro di quella che è oggi la sua casa museo. E, soprattutto, setacciando la miriade di appunti e citazioni di argomento botanico e giardiniero disseminate nella corrispondenza e nei testi della poetessa.
Continuo è lì il trascorrere, tra esterno e interno, di preoccupazioni e attività nel riverbero tra espressione dei sensi e interiorità. La passione condivisa del raccogliere i fiori del giardino – con i fratelli, il Primo Maggio, per appenderli nei cestelli alle porte, con manici di nastri–; la sottolineatura della magia della semina, “Il desiderio è come il seme/che si dibatte nella terra”; la nota dominante a inizio estate delle rose che si ritrovano anche nel disegno della carta parati della camera; il passarsi di testimone tra il profumo del caprifoglio e quello del lillà; l’andirivieni delle piante più delicate che, in un gioco tutto di equilibri, con la buona stagione trasmigrano fuori, nella “piazza” – cosiddetta secondo i dettami in voga del giardino ispirato all’italiana – sul lato ovest della casa, che si riempie dei verdi mastelli di dafne profumate e oleandri, per poi rientrare con i primi freddi: “ieri sera le piante sono partite per l’accampamento [il giardino d’inverno], le loro corazze erano insufficienti per le notti insidiose”.
E, tra le descrizioni delle attività in giardino, l’annaffiare alla vecchia maniera, la forzatura dei prediletti bulbi, quando scrive a un’amica: “Ho creato un arcobaleno permanente riempiendo una finestra di giacinti e di questo la scienza dovrebbe compiacersi, e poi ho un carico di garofani degni di Ceylon”, il piacere del compulsare cataloghi di semi per antivedere e combinare forme, masse e colori nelle sue bordure, con l’innesco delle annuali e poi con le perenni che rompono la formalità della struttura di alberi e arbusti, quest’ultima piuttosto da ricondursi alle piantagioni del padre e del fratello Austin, che con lei condividono una passione di famiglia per il giardinaggio.
Meno citato, l’orto. Piuttosto il frutteto, che ripetutamente compare nelle poesie assieme alle viti davanti al granaio, e, riparati oltre la pergola, gli alberi di fico, le mele per il sidro, quelle cotogne, e la primizia della pesca che “rende possibili tutte le stagioni e fa apparire gli emisferi un capriccio”.
Ancora, l’attenzione alle api e agli impollinatori, anche in una delle rare poesie pubblicate in vita, Il vino di maggio e specialmente nel campo aperto, dall’altro lato della strada: il Campo dei Dickinson dove, tra l’erba alta del trifoglio dei prati, occhieggiano ranuncoli e carote selvatiche e poi, con l’autunno, il giallo delle verghe d’oro e il viola degli astri.
Mentre, dalle finestre, il sentiero che conduce a The Evergreens e al giardino della villa del fratello la rassicura, bordato da un corteo di malva che Emily chiama “sorella Sue”, sulle colline s’accende il blu violaceo delle genziane e ai margini del bosco s’affaccia l’amamelide gialla, “una graziosa aliena […] strega e ammaliatrice della mia mente allegra”.
Compartecipi, convocati di pari passo nell’erbario come nelle poesie, spesso personificati, come il geranio citato in una lettera a Mary Bowles: “Ho un Geranio che sembra una sultana – e quando calano i Colibrì – io e Geranio chiudiamo gli occhi – e andiamo lontano”, fin anche i fiori selvatici, in un tripudio che li affianca alle predilette iris e peonie, ai gigli, alla digitale. Al pressoché soprannaturale fiore fantasma (Monotropa uniflora), bianco e senza foglie, incapace di fotosintesi. Già compagnia degli anni giovanili e colto per l’erbario, in seguito ritratto su tavola da Mabel Tood, suscitando l’entusiasta reazione di Emily e finito poi inciso sul piatto della copertina della prima edizione delle sue opere di cui Mabel sarà la curatrice dopo la sua morte.
Se, in quell’ispirato elenco visivo di piante trasposte che è il suo erbario, il gusto per la regola del dare ordine – o tentarlo – si alterna, nella composizione di esemplari pressati e disseccati dopo averne contato gli stami con la lente d’ingrandimento, con la sperimentazione che rimescola generi e stagioni – fin nella disposizione delle minuscole etichette della nomenclatura latina, tralasciata invece nei versi–, nei suoi componimenti segreti Emily Dickinson attinge piuttosto a piene mani al vocabolario botanico,tra calici, stami e corolle, giochi di parole, indovinelli. Nella consapevolezza dell’urgenza condivisa, dall’erbario e dai versi, di dover disporre senza indugio sulla pagina foglie, fiori e parole, cogliendo l’estro, come la riscrittura delle varianti.
Ma, fintanto che la sua poesia restava ignota ai più, Emily mise a punto e diffusamente praticò una forma ibrida di linguaggio naturato, tra esemplari botanici, intenzioni e parole. Una sorta di missive-erbario, tramite cui inviava omaggi vegetali, allegando biglietti o viceversa che dir si voglia. Boccioli di rosa cuciti al foglio di una poesia, nosegays, mazzolini profumati, di fiori stretti in cerchi concentrici legati con un nastro; un ramo di salice che recita: “messaggio color cuoio lasciato per lei a Amherst dalla Natura”; lettere con acclusi fiori pressati secondo le stagioni: l’epigea, descritta senza nominarla, per segnalar la primavera, campanule di inizio aprile, nontiscordardimé, e a tarda primavera un soffione o dente di leone pressato in una lettera assieme a una poesia, legato con un nastro intorno, per dire come: “la pallida colonna del soffione/sgomenta l’erba”.
E ancora, la missiva che annuncia “Le porto una felce della mia foresta personale dove mi balocco tutti i giorni” o l’invio all’amico Samuel Bowles di una poesia su un pino cui acclude un mazzetto di aghi verdeazzurri.
Se la struttura espositiva che nel libro procede per stagioni, nel loro succedersi, dalla primavera all’inverno, associandole a quelle della vita della Dickinson, è certo intesa a enfatizzare, con il ciclo delle piante, crescita, morte, resurrezione, uno dei motivi ricorrenti della sua poesia, il ricco quadro restituito dalla messe di notazioni e dalle citazioni rintracciate da Marta McDowell nella sua indagine su L’universo verde della poetessa (come recita il sottotitolo del volume) corre però il rischio, in assenza di puntuali riferimenti temporali, di un indistinto assolutizzare una vicenda dove invece “Esiste una luce in primavera/non presente nell’anno/in nessun altro momento”. Trascurando come – anche secondo le indicazioni di Silvio Raffo nella sua recente scelta tematica dai versi di Emily Dickinson,Natura, la più dolce delle madri – in quel perimetro costante abiti un andirivieni di trascendentali corrispondenze tra dimensione fisica, naturale, sempre attentamente descritta, e l’analogo di una interiorità comunque piuttosto allusa che non rivelata (traduzione con testo a fronte per l’editore Elliot, pp. 176, € 15,00).
Marta McDowell, Emily Dickinson e i suoi giardini. L’universo verde della poetessa, L’Ippocampo, pp.270, € 19,90 e Emily Dickinson,Natura, la più dolce delle madri, a cura di Silvio Raffo, con traduzione con testo a fronte per l’editore Elliot, pp. 176, € 15,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XI, 48, Supplemento de Il Manifesto del 19 dicembre 2021
Posture di minaccia o cerimonie di saluto, danze di corteggiamento, canti, suoni, pose, parate, messaggi olfattivi, tattili, o diramati tramite vibrazioni, molecole chimiche, impulsi elettrici. L’ininterrotto flusso di comunicazioni in cui siamo implicati combina segnali trasmessi in maniera spontanea e involontaria e altri che in una logica coevolutiva di mutuo vantaggio sono andati espressamente modellandosi per innescare reazioni e intenzionalmente interagire. Vale per tutti i viventi, tanto all’interno della stessa specie che nelle relazioni interspecifiche. Perciò studiare la comunicazione animale contribuisce a restituirci anche un diverso nuovo punto di vista sull’evoluzione.
Attorno a questo tema ripercorre i passaggi salienti, le domande e le correzioni di rotta di una scienza tutto sommato recente come l’etologia, la naturalista Francesca Buoninconti, divulgatrice e voce nota anche dai microfoni di Radio3scienza nel suo Senti chi parla. Cosa si dicono gli animali, Codice Edizioni, pp. 384, € 24,00, con le illustrazioni a corredo di Federico Gemma.
Dall’impiego di segnali chimici (la prima forma di messaggistica) in forma di odori molesti e profumi, per stabilire gerarchie e marcare un territorio, lasciare tracce per non perdersi durante una migrazione (come per gli gnu striati) o ribadire un rango sociale, intercettare un compagno o scampare a un predatore, si trascorre così – nell’estrema variabilità di funzioni e soluzioni, che volta a volta sconta i diversi preadattamenti (organi e apparati trasmissivi e ricettivi) e gli habitat in cui si vive – ai messaggi visivi del proiettare rituali ipnotici di corteggiamento (per calamari e seppie) o livree minacciose, e – anche per sottrazione – del rendersi invisibili ai predatori tramite il camouflage (dei polpi). Fino alle danze di uccelli (come quelli del paradiso), vere e proprie coreografie con pose, figure e varianti, elementi e sequenze di rituali di corteggiamento o segnali per tenersi in contatto e sincronizzare le svolte di uno stormo in volo, o ancora di allarme per difendere confini, rafforzare relazioni.
Indicatori spesso associati, correlando modalità diverse, come contatto visivo e dimensione acustica, e che in contesti diversi possono magari assumere significati diversi, ma sempre esito, ripetuto e affinato, di un processo di ritualizzazione che si cristallizza in un codice univoco, che nel meccanismo di apprendimento per imitazione e esperienza sociale (memorizzando prove e errori), nella comunicazione tra genitori e prole assicura la trasmissione tra generazioni. Non dimenticando che, pur nella sua ricchezza, in una economia di costi e benefici la parsimonia della comunicazione animale si basa sul mutuo vantaggio e presuppone un principio di onestà. E quindi l’affidabilità del segnale. Con le immancabili eccezioni di quelli ingannevoli e appositamente manipolati, di chi mente o finge d’esser chi non è. Come le specie imitatrici (il tordo di Lawrence) capaci di riprodurre il canto di oltre 50 altre specie di uccelli.
Francesca Buoninconti, Senti chi parla. Cosa si dicono gli animali, Codice Edizioni, pp. 384, € 24,00, con le illustrazioni di Federico Gemma, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XI, 46, Supplemento de Il Manifesto del 5 dicembre 2021
Se del multiforme mondo delle piante, con la loro inarrivabile capacità di trasformare l’energia solare in energia chimica e una biomassa che costituendo più dell’80% del vivente determina le condizioni geoclimatiche del pianeta, quel che si staglia ad accomunare i sette temi-passeggiata che si dipartono dall’Orto botanico di Torino, ispirati dal ragionare serrato della biologa vegetale Paola Bonfante, è proprio il profluvio di relazioni in cui queste sono immerse, nel suoUna pianta non è un’isola. Alla scoperta di un mondo invisibile, il focus, diverso rispetto a una pubblicistica che pure testimonia di un interesse sempre più diffuso per questo regno, è però per tutto quanto delle piante immediatamente non vediamo (Il Mulino, pp. 212, € 15,00, con Caterina Visco). Al centro sta la loro parte ipogea. Il mondo nascosto delle radici che, oltreché ancorare e trasmettere nutrienti, consentono comunicazioni e corrispondenze tra individui, spesso per il tramite di funghi e batteri. Evidenziandone il ruolo dominante nell’intessere tali invisibili relazioni e tenendo conto che ogni singola pianta – che prima di tutto deve anche comunicare con i suoi organi – oltreché essere inserita nell’affollata società in cui vive in comunità di specie diverse, dialoga con una moltitudine di microorganismi che costituiscono il suo infinitesimale microbiota individuale.
Così, alle invisibili o quasi, almeno a occhio nudo, reti radicali di micorrize (da myko-rhiza, fungo-radice) che rappresentano una delle relazioni di maggior successo in natura per come, regolando e coinvolgendo la stragrande maggioranza delle specie identificate, influenzano la vita delle comunità vegetali epigee, quelle che noi vediamo, nel giogo di intrecci e costanti tra macro e microscopico indagate dal libro, per pensare a una pianta che – come del resto tutto il resto – non è un’isola, il collegamento è ai più recenti studi sul microbiota delle piante con la sua amplissima rilevanza ecologica.
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