Chen Congzhou, estetica del giardino cinese

Assieme al carattere allusivo della cultura e della lingua cinese, intese ad accennare piuttosto che a definire esplicitamente, nonché a una qual certa attitudine contemplativa, la convinzione diffusa in Cina che la composizione del giardino sia da ricondursi perlopiù a una dimensione artistica capace di accordare l’invisibile al visibile (con la predilezione per velare quest’ultimo), piuttosto che a componenti tecnico scientifiche e prescrittive, sembrano davvero eludere definizioni da prontuario di norme e leggi.
Piuttosto, rinviare a una filosofia, una visione del mondo, un modo di intendere la vita dove influssi di confucianesimo, taoismo, poi del buddismo convergono in una sensibilità e cultura nutrite di testi classici, pittura di paesaggio, antico teatro, poesia, letteratura, calligrafia. E di cui il giardino è parte integrante ed espressione qualificante ben oltre le analogie poetiche e formali, tanto sul piano compositivo che contenutistico.
In questo senso è illuminante la lezione di Chen Congzhou, letterato e docente dell’Università di Shanghai, probabilmente il maggiore specialista nel 20° secolo della storia, dell’esperienza letteraria, degli stilemi e dei valori trasmessi dai giardini tradizionali cinesi, fino agli innesti della contemporaneità, con un’attenzione particolare al delicato tema del loro restauro.

Wen Zhengming (1470–1559), Giardino dell’umile amministratore, The Metropolitan Museum of Art, New York


L’arte dei giardini cinesi, viene oggi riproposto sempre nella traduzione (dove restano da identificare meglio alcuni nomi di giardini) e la cura di Maria Alessandra Bassi, e una sua introduzione che efficacemente ricorda i maggiori snodi politici e culturali della millenaria storia cinese dove troppo spesso episodi, protagonisti e realizzazioni anche dell’arte dei giardini finiscono per emergere assoluti, come in un indistinto mare magnum (iduna editore, pp. 106, € 25).
Chiave di lettura è qui nel tipo di visione del giardino: due, spesso interdipendenti – anche in ragione dell’idea del movimento nella fissità, propria dell’antica filosofia cinese – e dalla cui interazione deriva un’infinita varietà di paesaggi e vedute: quelle da fermi, in un padiglione, un cortile o un belvedere, più adatte a giardini di piccole dimensioni, come quello del Maestro delle reti e le vedute invece in movimento, prevalenti in spazi relativamente grandi, come nel Giardino dell’umile amministratore. Raramente nel giardino cinese s’incontrano prospettive aperte, mentre prevale la dialettica tra le diverse vedute immaginate nel progetto e l’esperienza del visitatore nel percorrerle, misurandole nel succedersi e mutar di sentimenti.

Shen Zhou (1427–1509), Appreciating Potted Chrysanthemum in Tranquility, Liaoning Provincial Museum, Shenyang


Rifuggendo formule fisse a favore di combinazioni complementari e pertinenza, di modo che ogni giardino sia contraddistinto – anche nel nome – per il suo scenario particolare, dove anche il modo di appender le lanterne si accordi al disegno generale come al suo carattere specifico, Chen Congzhou passa comunque in rassegna, per via di esempi specifici, criteri estetici e scelta di elementi compositivi. Sottolineando il margine di libertà che il progettista deve prevedere per future modifiche, l’importanza del preludio prima di addentrarsi nel cuore del giardino, l’accortezza di inserire piccoli giardini all’interno di giardini più grandi, suddividendo gli spazi per avvertire un maggior senso di ampiezza, l’attenzione da porre ai momenti di transizione, ponti e corridoi, ai sottili contrasti cromatici, all’importanza dell’eco, del riverbero, a non alterare le condizioni climatiche, pur nel mutar di albe, tramonti, stagioni, elementi eterei che servono a dar concretezza al paesaggio.
Imprescindibile, nel giardino cinese, è la disposizione di elementi architettonici, dai padiglioni alle finestre a grata – a rivelare ciò che all’interno merita d’essere visto o per far risaltare il paesaggio. Come importante è schermare le disarmonie e d’altro canto illuminare architetture strette di cortili e corridoi, magari con bonsai. E, ancora, il ruolo della vegetazione nella predominante disposizione di acque e rilievi – sorgenti come occhi delle montagne, fiumi e laghi che illuminano il terreno, rocce associate secondo precise norme, collegate a seconda delle venature – con alberi da piantare a gruppi perché la loro bellezza risalta maggiormente se vista da lontano, capaci di rivelare il passaggio delle stagioni, utilizzati anche per il loro significato pittorico e per le peculiarità che ne fanno caratteristica distintiva di luoghi e giardini.
Se ogni giardino vive di un’eco vicendevole tra il suo paesaggio interno – reso evidente dal[l’idea del] tracciato dei suoi confini – e il suo evocare e riflettere la natura nel suo insieme, magari tramite l’espediente compositivo della presa in prestito del paesaggio a esso esterno, non stupisce come i criteri relativi alla composizione dei giardini si dilatino al paesaggio naturale – con gli elementi architettonici a puntualizzarlo – e al patrimonio culturale, come ad esempio nel caso del sentiero che conduce al Monte Tai dove al girare di ciascuno dei diciotto tornanti corrisponde una particolare veduta a marcare percorso ed esperienza. Sempre in relazione stretta con la pratica di dare un nome a qualsivoglia luogo, visuale o prospettiva, e con il suggerimento magari di quelle iscrizioni che dalla pittura al giardino orientano possibili interpretazioni.

Chen Congzhou, L’arte dei giardini cinesi, iduna editore, pp. 106, € 25, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 4, Supplemento de Il Manifesto del 16 febbraio 2025

Wen Zhengming (1470–1559), Giardino dell’umile amministratore, The Metropolitan Museum of Art, New York