Poco più che bacche amare di vari colori, gialle o rosse, quei frutti che gli aztechi chiamavano xitomatl addomesticati in Messico almeno mille anni prima dell’arrivo degli spagnoli, e che noi chiamiamo pomodori, almeno dalla metà del 500, furono a lungo considerati con diffidenza, al più piante ornamentali, prima di intraprendere quel complesso, singolare percorso che li portò a diventare alimento ubiquo e finanche oggetto culturale, proiezione identitaria di stili di vita.
Una vicenda di snodi, svolte, protagonismi, tempi e retroscena che nel suo I dieci pomodori che hanno cambiato il mondo. Storia, viaggi e avventure alla scoperta del frutto più amato, William Alexander ripercorre passo passo, in una indagine a tratti un po’ disinvolta (Aboca, pp. 377, € 19,50).
Certo è che l’aspetto e il sapore dei primi pomodori introdotti in Europa fossero in realtà ben diversi da quelli che l’odierna lusinghiera reputazione riconosce loro. Attestati tra i frutti inviati a un Cosimo de Medici particolarmente interessato alle piante del nuovo mondo e in quell’occasione così denominati da uno dei suoi fattori, l’aspetto dei pomodori non doveva esser dissimile da quello, di tipo costoluto, raffigurato tra scene dell’Antico e Nuovo testamento con elementi di fauna e flora locale, ma anche esotica, nelle nuove, secentesche porte della cattedrale di Pisa fuse nella bottega del Giambologna a sostituire quelle originali distrutte da un incendio. Quanto al sapore, prima delle varietà che sarebbero poi derivate da molteplici, serrate serie d’incroci, risultava sicuramente acido molto più di quanto non siamo abituati e le sue foglie, a dire di molti botanici, “puzzavano”.
Mangiati, ma piuttosto assaggiati come curiosità, appariranno, utilizzati come condimento, soltanto a fine 600 in un libro di cucina, Lo scalco alla moderna, di Antonio Latini, e a meta Settecento figurano nel menu di alcuni ordini religiosi.
Per quanto accolti come commestibili, a lungo rimasero impopolari – forse anche in ragione della loro appartenenza alla famiglia delle solanacee che annovera una parente tossica come la belladonna –, per finire poi come risorsa nutritiva a basso costo della dieta contadina specialmente dell’Italia meridionale.
Con l’800, mentre la conserva e la salsa di pomodoro dilatano la disponibilità di un prodotto fortemente stagionale – rendendolo alimento con valenza autonoma e identitario nella dimensione collettiva che spesso assume la sua produzione – le varietà si differenziano e al sud si affermano pomodori più piccoli, a forma di pera o di uovo, migliori per la cottura, ma anche per l’inscatolamento. Fino all’imporsi, con il suo più intenso, equilibrato sapore, del San Marzano. Che negli anni 20 del 900 con la Cirio arriva a creare in Italia sessantamila nuovi posti di lavoro, con seicento impianti di inscatolamento, e fortissime esportazioni all’estero.
Tra i molti episodi ricostruiti, Alexander procede tessendo il filo della stretta relazione del pomodoro con pizza e spaghetti.
Quanto alla prima, alimento base a partire dalla metà del 700 a Napoli, la codifica della versione combinata con pomodoro e mozzarella vien ricondotta con diversi distinguo al 1889, con la visita in città della regina Margherita di Savoia. Anche per la pasta, l’idea dell’accoppiata con il pomodoro sembra poter rimontare al più agli anni ottanta dell’Ottocento. E nel 1891 Pellegrino Artusi ne confermerà la diffusione con ben due ricette diverse per i maccheroni alla napoletana.
Una popolarità, nei successivi anni 20 ancora riflessa nei cartelloni pubblicitari art déco della Cirio per il pennello di Leonetto Cappiello. Questo almeno, finché le politiche autarchiche del regime fascista a favore del grano non ridurranno della metà il raccolto dei pomodori, destinati peraltro al novanta per cento a rifornire secondo un accordo segreto di guerra l’alleato germanico. Fino ad arrivare, il 28 dicembre del 1930 con Il Manifesto della cucina futurista a invocare “l’abolizione della pasta, assurda religione gastronomica italiana”.
Come già per la diffusione mondiale della pizza, al tempo della Seconda guerra mondiale ristretta a poco più della Campania, diffusione che avverrà invece a partire dall’altra sponda dell’Atlantico, complice l’emigrazione di milioni di italiani, Alexander segue la vicenda della conquista degli USA da parte del pomodoro.
Dall’iniziale avversione all’accettazione testimoniata dalle sue prime rappresentazioni nella pittura statunitense (Natura morta con frutta e vegetali, di Raphaelle Peale, Wadsworth Atheneum Museum of Art a Hatford, Connecticut, 1795 opp. 1810) alle presidenziali coltivazioni da parte di Thomas Jefferson nella sua tenuta a Monticello, in Virginia, nel 1809; dall’improvviso e fenomenale successo di pillole panacea al pomodoro dalle presunte valenze terapeutiche (anni 30) al rapido crescere di popolarità verso fine secolo anche del prodotto secondario (o di scarto): quel ketchup definito nel 1896 dal “New York Herald Tribune” condimento nazionale; al pomodoro, infine, come interprete della crescita industriale del paese con l’introduzione della ‘linea automatica’ in tanti piccoli impianti di inscatolamento, regionali o stagionali, vicino ai campi di pomodoro ad anticipare la catena di montaggio. Con le connesse ricadute su abitudini alimentari – la zuppa di pomodoro come pasto completo e cibo pronto, nonché icona nella serie delle serigrafie della zuppa Campbell di Andy Warhol del 1962 – e semplificazione dell’ingresso delle donne nel mondo del lavoro.
Non manca, il complesso ambito di problemi che ruota attorno a ibridazioni, ogm, startup biotecnologiche, perdita di biodiversità, dipendenza dalle aziende che vendono semi, utilizzo in agricoltura dell’ingegneria genetica
Dalla creazione verso la fine degli anni quaranta del novecento del pomodoro gigante Big Boy – tra piante che crescevano fitte e aggrovigliate fino a quattro metri e mezzo, al cosiddetto pomodoro della Florida, che, per mezzo secolo, è stata l’incarnazione derisa e demonizzata, ma di successo del tipico alimento prodotto industrialmente, senza gusto né anima, reso possibile anche in seguito alla scoperta della mutazione fortuita che porta alla maturazione simultanea (così che l’intero pomodoro maturi tutto insieme contemporaneamente, piuttosto che in un percorso progressivo); ai movimenti di contestazione anni 70 contro un pomodoro ibridato ormai irriconoscibile e per il ritorno ai pomodori d’antico lignaggio, di cui scambiare semi ereditati delle varietà tradizionali. Fino ai più recenti processi di produzione industriale di “agricoltura protetta’ o “di precisione”, che vedono i pomodori coltivati ora anche in Canada in serre gigantesche e filari alti metri. Certo, con enorme risparmio di acqua, la possibilità di una lotta biologica con uso di insetti benefici per eliminare quelli nocivi e rese capaci di produrre frutti in una misura dalle dieci alle venti volte superiori alle piante coltivate in campo aperto. Fattorie idroponiche dove però, in un ambiente controllato e arricchito di anidride carbonica la luce per maturare i frutti viene fornita con lampade al sodio ad alta pressione e led alimentati da un generatore diesel. E dove per spostarsi è meglio girare in bicicletta, a 20 gradi, mentre fuori nevica.
William Alexander I dieci pomodori che hanno cambiato il mondo. Storia, viaggi e avventure alla scoperta del frutto più amato, Aboca, pp. 377, € 19,50, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 25 Supplemento de Il Manifesto del 21 luglio 2024