Sul declinare di un’era dove noi umani figuriamo come i maggiori responsabili del destino del pianeta, un antropocene exeunte che, dopo davvero rapida epifania su questa terra, rischia a breve, almeno in termini geologici, di eclissarsi (eclissandoci) [1], molto ci può aiutare l’esercizio di pensare allora “il mondo senza di noi”, umani[2].
Immaginare cioè quanto tempo il pianeta impiegherebbe a digerire le tracce del nostro istantaneo passaggio (ad oggi siamo comunque ben al di sotto del pur breve tempo medio di vita di ogni specie prima dell’estinzione).
In quali forme e con quali dinamiche metabolizzerebbe gli esiti postumi del nostro scomposto produrci nella hybris di marcare il suo territorio tutto – e ben oltre –, in una gratuita, totalizzante volontà di potenza; inappagabile proprio in quanto ha da tempo perso il senso delle ragioni profonde che la muovono.
Questo sguardo sulla fine, sull’inesorabile disapparire delle nostre tracce, in macerie o più nobilmente rovine, vale come fermo fotogramma, come rituale apotropopaico, opportunità di carnascialesco ribaltamento da cogliere (kairos) per mettere a fuoco come quel che è stato e (già) non è più va assieme a quel che (già) era in corso e avrebbe voluto/potuto essere, mentre invece si interrompeva nel durante. E, senza però intanto paralizzarci, vista la dimensione della cosa (a questo servivano e servono invece il tormentone delle apocalissi e il monito del giudizio universale sempre raffigurato in uscita dalle chiese), questo sguardo sulla fine vale, per l’intanto, per il suo additarci specialmente tutto quel che può comunque, sempre, ancora continuare a essere in divenire nel durante, finché dura.
Quindi l’opportunità (anche in senso ottativo) di abitare, partecipando, il durante.
Abitarlo, consapevolmente progettandolo, come accade fin dalle prime messe in forma – da ominidi – di tattiche di caccia di gruppo o con strumenti e stratagemmi; e ancora proiettando nel tempo incubato dai semi la scoperta della possibilità di accudire il generarsi delle piante, per nutrirsene. Dove ancora vale il dubbio se venga prima il nutrimento alimentare del campo coltivato, o quello dello spirito – con i fiori del giardino allevati ad uso celebrativo del sacro.
E proprio nel giardino, occorre ricordarlo, il rilievo del durante e il modo di abitarlo nel progetto risultano mirabilmente sintetizzati.
Il giardino ci induce a immaginare e antivedere quel che verrà (e sarà anche dopo di noi) e ad accettare così di poter partecipare a qualcosa senza governarla, anzi, potendo a ogni scarto esserne sorpresi. E però gioendo (e tormentandoci) di poter aiutare il divenire a succedere; architettando come orientarlo, almeno in una delle sue molteplici variabili potenziali.
Per altro verso, l’esercizio di pensare il mondo senza di noi, umani – paradossale dato che a pensarlo siamo pur sempre noi –, questo raccontare per assenze, ci aiuta ancora poi, perché torna a misurarci (una volta di più, con approssimazione geologica) con il considerare anche (ma forse diversamente) il momento d’avvio della presenza sul pianeta del nostro genere, doppiamente sapiens. Apparizione che si qualifica quando – venuta meno per un tratto l’esigenza primaria del mantenerci in vita, procacciandoci il cibo – ci siamo consentiti lo stupor del gratuitamente guardare attorno. E poi il gusto dell’operare in artificio. E della declinazione particolare di quell’operare, perseguendo la vocazione e forse il tratto dominante della condizione umana che consiste nel prenderci cura dell’altro oltre noi (rovescio della medaglia della hybris di cui sopra e del fatto pure che sempre infantilmente vorremmo che altri si prendessero cura di noi – volta a volta, gli dei, i potenti di turno, le ideologie o il sistema).
E quell’insopprimibile bisogno di preoccuparsi sempre e instancabilmente di qualche cosa al di fuori, una sorta di estensione nel mondo (culturalmente intesa), ancora una volta bene si sintetizza nell’esperienza del giardino.
Che, come suggerisce Robert Pogue Harrison, è un modo immediato, “attivo”, per entrare in contatto con la complessità del cosmo, della natura di cui siamo parte; con l’altro da noi che ci contorna e ci definisce; rendendo abitabile questa identificazione[3].
L’agire del giardiniere prefigura quindi un’etica della cura dove, come in un climax che si ripropone (il giardino cura il giardiniere che cura le piante), si individua la dialettica di una solidarietà istintiva che lega tra loro tutte le forme di vita[4].
Il giardino dunque sintetizza nell’etica della cura che si fa progetto un modo e il valore di abitare il durante in divenire.
Entro una sorta di cambio di paradigma che riguarda lo statuto del verde nella vita sociale, un rinnovato interesse per il tema del giardino (ancora troppo spesso ridotto però a una sua visione design o all’uso scomposto di piante assolute) arriva paradossalmente a intenderlo, fin nel senso comune, come metafora di un possibile, diverso modo di porsi di fronte all’evidenza dei limiti del modello di sviluppo basato sullo sfruttamento infinito delle risorse.
È ormai acquisita l’immagine del “giardino planetario” prospettata già molti anni fa da Gilles Clément, a dirci della consapevolezza del nostro pianeta come di un universo chiuso nei confini della biosfera ma dove ogni elemento è connesso in una logica di condivisione e collaborazione. Un giardino di cui tutti siamo chiamati a prenderci cura, come giardinieri planetari[5].
In quanto “natura in artificio”, capace di superare l’opposizione classica, si sarebbe detto, fra natura e cultura, ragione ed emozione, il giardino – e con lui il paesaggio – (con i continui, reciproci prestiti, retroazioni, slittamenti di senso tra i due termini ombrello) ci immerge nel flusso delle combinazioni del vivente, in una partecipazione (senza soggetto e oggetto; esterno e interno) che implica però un’operatività che per essere tale (oltre che anelito) deve (continuamente, ma per punti, in successione temporale e logica) darsi: quella del progetto (anche nella variante che progetta di superarlo).
Da un lato, quindi, un giardino al diapason con il mondo ci proietta nello spaziotempo multiverso dell’impermanenza perpetua e della metamorfosi continua. È occasione dove siamo confrontati a misure diverse da quelle che possiamo cogliere con i sensi che ci sono dati (per quel che si son perfezionati a fare): il tempo infinitamente “lento con moto” del crescere – anche nella sua variante del disfarsi (specialmente vegetale) – percepito solo se accelerato in time-lapse dalla foto sequenza che tanto assomiglia al linguaggio dei sogni; il tempo che ci sovrasta in termini di generazioni (dimensione nella quale sempre meno siamo portati a ragionare: testimonianza più evidente della perdita etica di ogni senso di responsabilità): quante generazioni hanno visto magari già così come la vediamo noi oggi, la quercia nell’aia; quante di generazioni ne ha viste lei, la quercia o quale sprofondo temporale richiama la sezione della sequoia che ci accoglie in cima alla scalinata del Museo di storia naturale di Londra?
Ancor più, il giardino è luogo privilegiato dell’esperienza polisensoriale che ci mette in rapporto diretto, immediato, fisico con gli elementi sensibili del mondo terrestre. Esperienza primaria, che precede il linguaggio e accade nel corpo[6], tra le fonti di quel sapere implicito che vien prima della coscienza e della ragione, generatore di Habitus[7]. In grado di sollecitare plasticamente verso contesti sempre diversi insperate, disponibili cellule totipotenti.
Per altro verso, a costituire la nostra esperienza del luogo che si fa giardino, nell’incrocio con il vivente che lo abita, è però anche la risultante delle mille variabili interrelate dei nostri singolari, irriducibili desiderare che non posson che farsi collettivo nel confronto tra diversi. E d’altro canto, il giardino è sempre anche stato il distillato di un’aspirazione comune, quella delle società a raccontare il proprio meglio.
Le innumerevoli storie del giardino che ogni società per se stessa prospetta danno la misura di quanto questo sia un universale denso di equivoci e promesse: volta a volta e assieme il meglio da perseguire e salvaguardare e la proiezione fantasmatica di quel che non sappiamo altrimenti figurarci.
Dal giardino ellenistico dove germina il pensiero nelle sue molteplicità, all’antinomia oasi-deserto del giardino islamico; dalla centralità della veduta prospettica rinascimentale, alla malinconia dell’impossibile ritorno dei giardini mediterranei, alla laicizzazione settecentesca, all’intimista giardino tutto per sé dell’800, fino al giardino e allo spazio pubblico della città capitale, per finire agli spazi comunitari che vedono associarsi al giardino attivismo, arte, immersività, coreografia, narrazione…
Specchio delle diverse culture che volta a volta li vanno generando e assieme fonte e catalizzatore di sogni e utopie cui tendere, i giardini risultano tuttavia modelli del tutto particolari. Inscritti come sono nel flusso del tempo e nel corpo con cui li abitiamo, spesso esito di mani e competenze diverse e di una firma congiunta con la natura, essi si costituiscono plasticamente in una pluralità di soggetti e variabili che organicisticamente evolvono in reciproca interrelazione.
Per cui, da un lato, in questo abitare il divenire, al giardino sempre più spesso si chiede di prefigurare per supplenza un modello sostitutivo di società verso cui orientarsi. E assieme al concetto, vengono a questo scopo spesso chiamati in soccorso gli strumenti del progetto (e del progetto di paesaggio) – strumenti duttili come la dimensione, plurale, procedurale e sincronica, che mette in rete molti obiettivi assieme, nonché l’orizzonte di una visione sintetica dell’intero e assieme di ogni dettaglio, continuamente e dinamicamente in relazione[8].
Modello infrastrutturante evocato perciò tanto per il paesaggio cittadino che per il suo tenersi insieme (la Civitas), per la metropoli dove sempre più si concentra la maggior parte della popolazione, per il suo distendersi periurbano nelle reti dei territori dei distretti, o in quelle trame ancora, su più ampia scala, tese a ricondurre a disegno intere aree come in una sorta di Orbe-Urbe.
Dall’altro lato, e però contestualmente, il giardino si impone come occasione di presa di coscienza del sistema di relazioni ecologiche entro cui siamo immersi, rivelatore della nostra profonda implicazione con un mondo non-umano, amplificatore di sempre più generalizzata consapevolezza, che si fa fin “politica”, che siamo tutti in relazione. In socialità estesa, costitutiva del Bios, del modo in cui la vita si dispiega.
Cosa che i giardinieri hanno sempre saputo e che con l’evidenza del giardino planetario andiamo tutti acquisendo.
In questo giardino di relazioni, come in un continuo, inesausto negoziato, sperimentiamo e coltiviamo contraddizioni.
Mentre difatti fin qui il giardino, come il mondo di cui è stato specchio, ha a lungo imposto alla natura il suo ordine, in ossequio ai canoni della razionalità del nostro occidentale pensiero delle distinzioni, che celebra la centralità dell’uomo, del primato del suo punto di vista di osservatore interessato a fissare la forma, estraneo e dalla natura separato, oggi, in un dialogo inquieto incessantemente alla ricerca di nuovi equilibri e in un contesto di agire responsabile si prospetta una complessiva riconsiderazione critica (per interposto giardino planetario) delle forme di stare, assieme agli altri, al mondo. Costituendolo così entro una ben più ampia rivoluzione dello sguardo. Perciò stesso, perseguendo un nuovo modello dialettico di ben essere.
Ricerche in diversi ambiti ci invitano da un lato a constatare come il mondo vegetale, evoluzionisticamente, ci suggerisca una serie di soluzioni (è il caso del neurobiologo vegetale Stefano Mancuso[9]). Quando non addirittura nuovi paradigmi per modelli di società (il caso del filosofo Emanuele Coccia con il suo La vita delle piante. Una metafisica della mescolanza[10]).
Così il giardino come snodo concettuale e insieme di pratiche costitutive di soggettività e saperi si afferma proprio come centralità, tema-prisma nell’orientare l’affollarsi di ricerche che variamente si rifanno a quell’ambito provvisoriamente detto degli Environmental Studies[11] che intendono includere appunto il non umano nell’ecosistema delle relazioni sociali, studiando così proprio modi interconnessi e impatti trasformativi delle relazioni che vi si danno.
Con quanto ne consegue sul piano appunto ecologico, etico, sociale, giuridico[12], epistemologico[13]
Rinunciando a inseguire la smania di nostalgiche ricomposizioni con una natura talmente snaturata che non ci corrisponderebbe comunque, occorre dunque cercare – in un giardino non più pensato come a cavallo di una polarità natura-cultura che altro non è se non una cosmogonia tra le tante – una nuova consapevolezza antropologica delle forme delle relazioni che ci legano al vivente, per riconnetterci invece, autodeterminandoci, ai nostri desideri e bisogni.
La vicenda stessa della cacciata dal paradiso terrestre, sempre sospesa nel dilemma tra una promessa di felicità irricevibile e un’impraticabile aspirazione alla sua riconquista, propende per noi moderni[14] verso l’intuizione che Eva ci ha regalato: quella di un’azione responsabile che inducendo la cacciata, ci dissequestra da uno stato assoluto, congelato, sterile. Per riconsegnarci a noi stessi e, proiettandoci sul terreno della vita attiva, alla cura. Evidentemente, con l’inevitabile effetto collaterale di farci eredi di una perenne nostalgia.
Capita allora di accorgerci di come le pratiche del giardinaggio implicano e illustrano “un modo di essere al mondo definito tramite un insieme di relazioni: riguardo se stessi, la natura, il territorio” che si strutturano nei termini di una mutua “rispettosa amicizia”[15], in una sorta di modello etico di azione. Una rispettosa amicizia del giardiniere con i non umani, modello basato su parentele e solidarietà piuttosto che su separazione e dominazione[16].
Un’etica della cura, quella del giardiniere, ben diversa da quella della produttività.
A fronte di un’economia capitalistica sempre più sregolata, al neoliberismo della finanza che ignora i limiti delle risorse, a una vulgata che considera anche la natura privatizzabile, brevettabile, vendibile, contro il pensiero dominante che dispone del pianeta come fosse una risorsa da sfruttare illimitatamente, il giardino ci aiuta a rimettere in discussione non solo un sistema di produzione e “sviluppo”, ma un sistema di conoscenza fondato su un paradigma che spiega ogni fenomeno, inclusi vita e pensiero, a partire da processi chimici e meccanici[17].
Verso l’attivismo restitutivo del lavoro di coltivazione del giardiniere – con Karel Čapek, il “dai alla terra più di quanto prendi”[18] –, verso una visione circolare, interrelata. In una prospettiva a lungo termine di una economia paesaggistica[19]. Non semplicemente vita, ma con ampliamento dello stupor, “buona vita”.
Paradossale sostenere che il giardino sia quel che resta della politica. Ma certo il giardino si fa spazio politico per il fatto stesso di impegnarsi a preservare ogni diversità impiegando al meglio le risorse esistenti, ingegnandosi a cogliere le potenzialità di nuovi ecosistemi residuali e variamente meticci, sperimentando nuovi modi di partecipazione e di condivisione collettiva del bene comune.
Come in una sorta di coreografia che sulla pelle del pianeta insegue e anticipa l’idea che la ispira, le pratiche di “cura della terra” che coltivano di preoccupazioni e gesti l’esile cotico del nostro suolo tradiscono e rivendicano l’esigenza profonda di un nuovo modello per la vita a venire – sociale sì e pure esistenziale, estetico –, l’humus che in tanti ambiti matura di un’etica nuova, ecologicamente fatta di consapevoli, paritarie relazioni con il contesto biosociale che ci permea, tanto da farsi nuova condizione culturale, mondopaesaggio.
Fondamentale diventa perciò una comprensione – con immedesimazione che pur sappiamo inattingibile – delle dinamiche proprie degli esseri viventi. Per immaginare poi una maniera di accompagnarle.
Un agire lieve. Comunque, creativamente, un fare, una poiesis. Atto politico teso a disegnare un’alternativa[20].
Perché, come insegna Massimo Venturi Ferriolo, il giardino è sempre a cavallo tra due dimensioni, l’immodificabile e quanto può essere modificato: il divenire[21].
Chi pure si occupa e preoccupa di giardini, per quanto progettualmente e nel verso della cura, contempla abitandola la loro dinamica provvisorietà (e il loro dipendere da noi) ed è comunque aduso muoversi nella condizione di perenne vigilia di una fine che sempre si protende e ci protende oltre di noi.
E ha quindi sempre ben presente il tema della fine dei giardini. Meglio, della loro vita oltre la fine.
La loro Afterlife, intendendo – ben oltre il tema del fascino trasversale per quelli abbandonati, o le preoccupazioni di ordine filologico o conservativo – il nodo del disfarsi e ricomporsi dell’originalità caratterizante (?) del progetto[22].
Oltre quell’estetica della nostalgia che assomma il dissolversi dell’opera dell’uomo che (con le rovine, di Simmel) parrebbe tornare alla natura, e l’estinguersi di una natura primigenia, conosciuta se del caso in tempi così remoti da non poterne certo conservare memoria, se non immaginata, il giardino continuamente progetta di abitare il durante temperando l’operare lieve della sua morale di vita – attiva – a un quotidiano gusto dell’impermanenza[23].
Impermanenza che in giardino finisce elevata a estetica, in quel mutuo innescarsi di naturalezza e artificio (persino involontario) che così ci aiuta a sperimentare ogni giorno un’arte felice del vivere … tra le rovine
Un piacere del respiro che intanto, finalmente ci orienta, ci accorda al mondo. Infine.
Note
[1] Il primo testo di bilancio e dibattito sul tema è di Gianfranco Pellegrino, Marcello di Paola Oltre l’Antropocene. Etica e politica sul pianeta alla fine del mondo, Roma Deriveapprodi, 2018.
[2] Esercizio mirabilmente messo in scena da Alan Weisman in Il mondo senza di noi, Milano Einaudi, 2007.
[3] Robert Pogue Harrison, Giardini. Riflessioni sulla condizione umana, traduzione di Marianna Matullo e Valentina Nicolì, Roma Fazi editore, 2017; ed. or. 2008.
[4] Marco Martella, nell’introduzione al numero della rivista Jardins dedicato al Soin, Editions du sandre, n. 6, 2015.
[5] Cfr. http://www.gillesclement.com/cat-jardinplanetaire-tit-Le-Jardin-Planetaire e Gilles Clemént, Il giardiniere planetario, Milano 22publishing, 2008. Si confronti anche il suo testo seminale Elogio delle vagabonde. Erbe, arbusti e fiori alla conquista del mondo, Roma Deriveapprodi, 2013.
[6] Si vedano il filosofo e geografo, Jean Marc Besse, Le paysage, espace sensible, espace public, In Research in hermeneutics, phenomenology, and practical philosophy, vol. ii, no. 2 / 2010, www.metajournal.org e lo psichiatra Vittorio Lingiardi, Vittorio Lingiardi, Mindscape. Psiche nel paesaggio, Milano Raffaello Cortina, 2017, p. 42.
[7] Raniero Regni, Paesaggio educatore, Roma Armando, 2009, p. 56.
[8] Cfr. Franco Zagari, Piccoli universali di architettura e di paesaggio, Roma Deriveapprodi, 2017. Tutto ciò, certo, sempre nella consapevolezza di quanto anche il progetto dell’architetto sia pur sempre soltanto una delle cosmogonie possibili. Cui viene fortunatamente in aiuto l’ibridarsi continuo con gli innesti di molte arti che, oltre il singolare, nel catturare una dimensione collettiva, sociale, sgangherano e ricompongo indefinitamente regole e retoriche delle nostre letture “disciplinari”.
[9] Ricordandoci un’evidenza che traversiamo con indifferenza, senza avvedercene, e cioè che l’80% della vita che si dispiega sulla terra è costituito da piante e tutto il resto ne dipende totalmente, noi per primi, Mancuso ci invita a correggere il nostro sguardo e saper riconoscere, proprio attraverso l’irriducibile parentela evolutiva che alle piante ci lega, l’alterità delle vincenti strategie evolutive individuate e messe a punto da quegli ingegnosi organismi pionieri. Un approccio con alcuni elementi comuni a quello della biomimetica. Cfr. Stefano Mancuso e Alessandra Viola, Verde brillante, Firenze Giunti, 2013.
[10] Il Mulino Bologna, 2018, ed. or. Payot & Rivages, Paris 2016. Ispirandosi alle piante e a un modello di mondo pensato come rete di relazioni tra esseri, tutti connessi in una partecipazione del tutto comunitaria quanto pure assolutamente individuale, la riflessione di Emanuele Coccia evidenzia come le piante offrano un modello paradigmatico di forme di esistenza “più vitali, salutari, in accordo con la natura”. Un “osmosi” da cui proveniamo e a cui tendiamo tornare.
[11] Grégory Quenet, Qu’est-ce que l’histoire environnementale ?, Seyssel, Champ Vallon, 2014, citato da Hervé Brunon, Amitiés respectueuses. Pour une archéologie de la relation jardinière, in Jardins, n 6, 2015 cit., pp. 33-52, ora in Marco Martella, a cura di, L’anima in giardino. Arti e poetiche del genius loci, Roma Deriveapprodi, 2018.
[12] Uomo, natura, animali. Per una bioetica della complessità, a cura di L. Battaglia, ed. Altravista Lungavilla, 2016. Cfr. anche Animals, Biopolitics, Law. Lively Legalities, Ed. Irus Braverman, Routledge, 2016; Animali, giardini, paesaggi, Giornate internazionali del Paesaggio della Fondazione Benetton, 2017.
[13] Fulminanti al riguardo, le stranianti, paradossali considerazioni del punto di vista vegetale, espresse nella lettera indirizzata da un Hieracium pilosella, per il tramite di Gilles Clément, a Vous animaux. Cfr. Gilles Clément, in Les carnets du paysage n° 26, printemps 2014.
[14] Nell’interpretazione, tra altri di Harrison, ripresa poi, via Harendt, da Brunon.
[15] Brunon, Amitiés cit., p 38 analizza gli apporti degli studi dell’etica ambientale e dell’ecologia simbolica sviluppata da Philippe Descola e mutua l’idea della relazione dall’etnologia di Martine Bergues. Cfr. La relation jardinière, du modèle paysan au modèle paysager. Une ethnologie du fleurissement, Ruralia, 15 (2004), http://ruralia.revues.org/1045.
[16] Hervé Brunon, Prendersi cura: giardino, vita activa, saggezza, in Curare la terra. Luoghi, pratiche, esperienze, a cura di Patrizia Boschiero, Luigi Latini, Simonetta Zanon, Treviso Fondazione Benetton, 2017, pp. 15-29, p 69. Brunon riconsidera come peraltro la vera cura di sé (epimeleia) avvenga attraverso il curarsi degli altri. Cfr. anche Idem, Giardini di saggezza in Occidente, Roma Deriveapprodi, 2017.
[17] La consapevolezza sconcertante e rivoluzionaria della finitudine del pianeta ristretta nei confini della biosfera confronta l’umanità a una responsabilità inedita, farsi garante dell’avvenire della vita sulla terra. È questa consapevolezza che, ripensando e rimodellando distanze nello spazio e nel tempo, crea una sorta di senso di appartenenza planetaria, induce una forma di solidarietà obbligata e impone con urgenza la pratica di resistenza. Gilles Clément, L’Alternative ambiante, in Carnets du Paysage, 2009, Écologies à l’oeuvre, Sens & Tonka, Paris 2014. Il testo è anche disponibile sul sito di Clément.
[18] Karel Čapek, L’anno del giardiniere, pp. 208, Palermo Sellerio, 2008.
[19] Il riferimento è al pensiero di Vandana Shiva e Kate Raworth.
[20] Sul rilievo delle pratiche partecipative di riappropriazione dello spazio pubblico tramite il giardino si vedano Anna Lambertini, Urban beauty! Luoghi prossimi e pratiche di resistenza estetica, Bologna Editrice Compositori, 2013 e Atlante dei paesaggi riciclati, a cura di Michela De Poli e Guido Incerti, Milano Skira, 2014. Sul piano dell’etica, e del rilievo che assume il propagarsi dell’esercizio diffuso di giardinaggio nelle costellazioni urbane, con l’effetto domino di trasporre dall’individuo alla collettività un esercizio ecologico di attenzione e salvaguardia ambientale si veda anche Marcello Di Palma, Giardini Globali: una filosofia dell’ambientalismo urbano, Roma LUISS University Press, 2012. Cfr. anche Pablo Georgieff, La poetica della zappa. L’arte collettiva di coltivare giardini, traduzione dal francese di Flavia De Luca, Roma Deriveapprodi, 2018.
[21] Massimo Venturi Ferriolo, Paesaggi in movimento. Per un’estetica della trasformazione, Roma Deriveapprodi, 2016, p. 152.
[22] John Dixon Hunt, The Afterlife of Gardens, University Pennsylvania Press, 2004. Poi, “The afterlife” dei giardini. “un oggetto non può competere con un’esperienza”, in Sette lezioni sul paesaggio, cura Valerio Morabito, Melfi Libria, 2012.
[23] Sulla centralità del tema dell’impermanenza nel giardino, specialmente orientale, si veda Yolaine Escande, Giardini di saggezza in oriente. Cina e Giappone, traduzione dal francese di Maruzza Loria, Roma Deriveapprodi 2018, spec. p. 71.