Se collezionare piante significa sempre anche un po’ accumulare paesaggi e reinventare mondi, collezionarle “con le spine” vale a evocare le condizioni spesso estreme degli habitat dove solitamente si trovano a vivere in natura fieri protagonisti vegetali come agavi e opunzie, lithops, ferocactus, mammillarie. Si tratta di solitudini riarse, deserte distese ininterrotte, ritmate soltanto dalla verticalità di monoliti spinosi, dall’inciampo di vegetali che a terra mimano pietre, dalla soggezione che aggressivi incutono gli aculei che li ricoprono, dal disporsi a corona dei frutti sulle loro sommità, dopo l’improvviso rapimento di incongrui fiori annuali che, appariscenti, ci adescano dal nulla.
Capita così che a furia di trapianti e innesti dagli altopiani africani, o del nord o sud America, queste acuminate formazioni colonnari o a rosetta, figure ispirate, forme primarie che paiono scolpite in un limbo a cavallo tra i regni, minerale, vegetale e animale assieme , finiscano per disporsi custodite in conchiuse oasi artificiali: giardini ma del tutto particolari.
E se le attestazioni dell’avvicendarsi di storie e piante son davvero frequenti tra gli appassionati, scrittori e coltivatori dei giardini più consueti, quelli di ombrosi, morbidi fogliami e rigogliosi rincorrersi di fioriture, rare sono invece per quelli di spine, da parte della particolare congrega dei loro curatori – perlopiù schivi, a imitazione della predilezione per piante tutte concentrate a lottare per la sopravvivenza. Rare le confessioni della vicenda che tra storie di scoperte botaniche e incontri con individui vegetali con cui si intesse poi un rapporto d’elezione che dura negli anni della vita, li ha portati a ricreare, in un’analogia con paesaggi interiori temprati dalla confidenza con l’austerità dei sensi e della mente , questi singolari mondi in miniatura.
È il caso del medico e pittore, collezionista e giardiniere autodidatta Agostino Muratori, narratore capace di evocare, per archi progettuali, succedersi di stagioni e trascorrere delle ore del giorno, il divenire e gli snodi del farsi e disfarsi del suo giardino di Anzio, che va ben oltre la collezione e la sola Collezione di spine del titolo del volume dove racconta le sue Storie di un giardino (Bompiani, pp. 165, € 17,00).
Assecondando una tendenza alla miniaturizzazione, qui si procede per quadri e microhabitat. Oltre le spine delle succulente e i drenaggi con cui amministrarne con parsimonia la sete, c’è la zona delle piante tropicali e subtropicali , e, con grande varietà di datteri, le palme esotiche che si carezzano a vicenda, il viale maturo di olmi, bagolari, querce, pini e ginepri, l’eco delle paludi delle Everglades con il ricadere degli aghi del cipresso calvo. A costeggiare il laghetto, poi, l’angolo del Giappone dove collocare in equilibrio un giardino di bonsai, isolati su sfondo neutro per non mortificarne le potenzialità illusionistiche nella confusione prospettica e, ancora, gli angoli bui, luoghi segreti e ritrosi dove alberga, sempre soltanto intravisto, il genius loci. E il vecchio susino esausto che, misurandoci, sembra imbalsamato, assieme ai cento tronchi delle cycas – tra sudafricane (Encephalartos), messicane, australiane (macrozamie e zamie), disseminate per raccordare le varie zone del giardino: piante ancestrali, totemiche testimoni immutate dal giurassico, più vicine alle conifere che alle palme di cui a prima vista sembrerebbero le progenitrici.
Paesaggi custoditi ad accompagnare la collezione principale, con cui nel tempo si va costruendo un’intimità che impara a sottrarsi alla frenesia dell’accumulo e a modificare, correggere errori. Liberando il giardino per via di attenuazioni, cancellazioni, spostamenti, accogliendo il diradarsi nello spazio, utilizzando i vuoti per sperimentare paesaggi potenziali. Consentendo così apparizioni repentine, nella consapevolezza, sempre, della regola che son le piante che si cercano tra loro.
Evocate a ogni passo, tra profumi che consentono di traguardare il tempo, dal giardino affiorano anche le storie. Quelle che, tra profumi che traguardano il tempo, incrociano collezionismo maniacale, piante, luoghi e uomini affetti da cactofilia. Dalla fulminante agnizione iniziatica, nel giardino esotico a strapiombo sul mare, a Montecarlo, ritmato dall’incedere serrato dei gruppi botanici che si fanno incontro all’autore , all’affidamento del nucleo costitutivo di quel suo futuro giardino da parte dell’ormai troppo anziano, rassegnato collezionista alsaziano, al magistero sempre riluttante che il siciliano dalla folta barba esercita nel suo anarchico contro orto botanico allestito riutilizzando rottami di automobili, strutture dismesse di circhi, cabine telefoniche.
E a sera, subito prima che faccia buio, quando la luce ormai radente rivela, sedimentato negli anni, l’eco delle potature che con discrezione modellano ed esaltano il carattere di ciascuno – del piede radicato al terreno, delle curvature del tronco e del disegno dei rami –, il giardiniere, come in un rapido, consueto, viaggio tra deserti e paesaggi amati, va in ronda d’ispezione, attentamente osservando, pianta per pianta. In una temporalità sospesa come sinfonia con la sordina, disegna in coreografa la sua personale fenomenologia dell’annaffiare dove, secondando un ordine tutto suo, soffermarsi, adacquando.
Anche se, per le succulente che fan quasi tutto da sole, vale piuttosto compagnia, controllo, approvazione.
E innaffiature diradate, per quanto certo non risicate.
Agostino Muratori, Collezione di spine. Storie di un giardino, Bompiani, pp. 165, € 17,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XI, 27, Supplemento de Il Manifesto del 25 giugno 2021