Per quanto ogni capitolo sia intitolato a un singolo esemplare, uno specifico albero – cui d’altro canto solitamente associamo il protagonismo della sua individua verticalità –, in realtà la voce in partitura che amplificata ci rimanda la penna felice del naturalista David George Haskell nel suo Il canto degli alberi, piuttosto che non quella di singoli solisti, è il risultato di una sinfonia di storie che da questi grandi connettori naturali promana a dar conto dell’interdipendenza della rete del vivente (Einaudi, pp. 297, € 28.00, traduzione Chiara Stangalino).
Dalla voce a grana grossa delle querce al tremolio inesausto delle foglie del pioppo, al secco andamento di quelle della betulla bianca, che con il vento trascorre dal ticchettio al suono spumeggiante, dal fruscio lieve dell’abete balsamico al ritmo serrato del venir giù sul muschio di pigne ed aghi morti, dallo sferragliare del silicio nelle foglie del palmetto ai gemiti del pino giallo delle montagne rocciose del Colorado, fino alla melodia rallentata del procedere delle radici nel mentre che si gonfiano. In una circolarità che, ricombinando comunità, si estende alle colonie di relazioni con insetti, animali, bromeliacee, nel caso dell’albero del corallo in Amazzonia, come altrimenti per l’ulivo al crocevia di storie condivise dal consorzio umano ed ecologico nel Levante Mediterraneo.
Nella prospettiva che ipotizza il superamento della natura atomistica della vita e che, sempre alla ricerca di humboldtiane familiarità, tutto legge in una logica d’interdipendenza delle più disparate sue forme è allora l’intera foresta di relazioni – che ci include – a dissolvere l’individualità.
Identità, intelligenza, finanche articolazione dei processi “decisionali”, risiedono allora nella colonia ecologica, nelle connessioni e conversazioni con altre specie.
Se per molti alberi gli elementi costitutivi della rete sono specie non umane (insetti, uccelli, funghi e batteri, per il tramite del dialogo assicurato via estremità delle radici) e se una parte del volume è dedicata a storie biologiche e geologiche di alberi del passato (dai ceppi delle sequoie pietrificate della valle di Florissant al decomporsi del frassino verde appena caduto e mensilmente visitato negli anni dall’autore), di albero in albero Haskell ci racconta come sia anche l’esperienza umana a diversificarsi nella relazione con gli alberi che vivono nelle città e nei campi.
Rendendo l’ambiente ospitale – dall’innesco dell’età delle nocciole del mesolitico, all’inscindibile vicenda dell’ulivo –, modificando spazio sociale e clima in città, dalla piccola scala del marciapiede all’intera metropoli (pure correggendo certo anti urbanismo ambientalista) ad esempio nel caso del pero cinese, il più resistente tra gli alberi da strada di New York.
In una pratica costante dell’ascolto ripetuto, l’invito è allora a cogliere un’estetica ecologica nella bellezza delle relazioni incarnate e ad abitare quella trama in un’etica dell’appartenenza, come anche quella del giardino più avveduto ci insegna, fatta di attenzione, reverenza, rispetto.
David George Haskell, Il canto degli alberi. Storie dei grandi connettori naturali, Einaudi, pp. 297, € 28.00, traduzione Chiara Stangalino, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XI, 10, Supplemento de Il Manifesto del 10 marzo 2019