Premiare un luogo significa saperne cogliere la singolare, esclusiva, fisionomia parlante.
Ma, prima ancora, l’idea stessa di attribuire un premio a un luogo significa riconoscere rilievo fondativo alla specificità del sistema e del tessuto di relazioni che lo costituiscono e lo animano. Relazioni ecologiche, storiche, sociali che ci implicano e che sole consentono intelligenza corporea delle cose sensibili, presa di coscienza e relazione con l’altro e quindi l’abitare il sistema di temi politici che provengono da ogni periferia del mondo. Significa, nel rilievo che si riconosce a ciascun luogo, che quel luogo in particolare possa insegnarci a pensare e agire opportunamente, con maggiore consapevolezza, equilibrio, rispetto e ingegno creativo.
È dal 1990 che il Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino promosso dalla Fondazione Benetton prosegue ogni anno un impegno avviato allora con lungimiranza nell’individuazione di specifiche realtà che si facciano interpreti di una mappa di snodi tematici e problematici. E che problematizzando evolve, come bene si rileva a leggere la sequenza dei luoghi premiati nelle 29 edizioni di quello che non è certo un semplice conferimento del sigillo disegnato da Carlo Scarpa, volta a volta al “custode” – singolo o comunità – del luogo indagato, quanto l’esito di vere e proprie campagne di ricerca e analisi sul campo. Che si concretano poi in mostre fotografiche e documentarie, incontri di studio, la pubblicazione in volume di un articolato dossier. Dal Sitio, casa laboratorio del paesaggista brasiliano Roberto Burle Marx, e poi dalla casa giardino di Vita Sackville-West e di suo marito Harold Nicolson, a Sissinghurst, premiate nelle prime edizioni, al dilatarsi di orizzonti del Cimitero di Stoccolma di Asplund e Lewerentz, dalle Cave di pietra per i templi di Selinunte al ridisegno dei sentieri che ad Atene conducono all’Acropoli ad opera di Dimitris Pikionis, fino alle certo meno giardiniere e più intese a indagare esperienze anche liminari di presidio e cura di luoghi come quella dell’orto-giardino creato a inizio secolo scorso nell’inospitale fiordo islandese di Skrudur, o quella della recente rinascita di villaggi coltivati e convivenze nei pressi di Srebrenica.
Fino al paesaggio premiato quest’anno, quello dei Céide Fields della Contea di Mayo, nell’Irlanda occidentale (a cura di Patrizia Boschiero e Luigi Latini con Seamas Caulfield, pp. 196, € 18, Antigua, con una mostra fotografica e documentaria a Treviso, presso la Fondazione, dal titolo I Céide Fields nei paesaggi irlandesi. Un luogo di storia millenaria lungo un viaggio di ricerca). Un sistema integrato di campi destinati a pascolo oltre 5.000 anni fa dopo l’estinzione qui della foresta, un paesaggio rurale del Neolitico evocato dalla trama di muretti a secco poi sepolti e preservati dalla torba spessa fino a 4 metri. E che proprio dalla torba tagliata via per uso combustibile riaffiorano in seguito all’affascinante vicenda di curiosità e affetti, attenzione e cura dei luoghi da parte dei singoli e della collettività, in parte scavati, in parte volutamente no, ma rilevandone il disegno in una pratica archeologica con lunghe aste e sonde metalliche che ricorda una performance artistica o un antico rituale.
Come sempre per il premio, dall’episodio centrale si riverberano diverse analisi di contesto, da quella del paesaggio di frontiera e rovine esito e testimone di colonizzazioni, carestie, spopolamenti, a quella ecologica sull’ecosistema della torbiera umida, dall’indagine sulla variante dei giardini paesaggistici e del turismo del pittoresco – o del sublime – in terra d’Irlanda, al ruolo della lettura cartografica e al rilievo di un’archeologia rinnovata nelle metodologie, e integrata alle scienze biologiche, nella ricerca sulla storia dei giardini, del paesaggio, degli spazi coltivati.