Come per pochissime altre piante, l’incrocio felice tra alcune delle incredibili specificità botaniche delle orchidee e l’addensarsi su di esse di significati simbolici e proiezioni culturali ha caratterizzato assieme la loro diffusione sul pianeta e la nostra consuetudine e fin dimestichezza con almeno alcune di esse.
In un lungo percorso evolutivo, affinato in una mirabile vicenda di ingegnosi intrecci e diversificazioni, questa enorme, variegata famiglia composta da migliaia di specie differenti – circa un decimo di tutti i fiori che popolano il pianeta – ridotta sotto il termine ombrello di orchidea, è riuscita, come ci racconta Alessandro Wagner nel suo Fare l’amore come un’orchidea, a colonizzare i più diversi habitat attraverso un incredibile numero di varianti in diversi formati, dai pochi grammi ai diversi metri di altezza e qualche tonnellata di peso (Storia e mirabilia del fiore più intelligente del mondo, Ponte alle grazie, pp. 246, € 18).
Per altro verso, l’assidua frequentazione tra umani e orchidee si conferma nella loro presenza nelle più remote culture. In quella orientale e nella sua estetica, già da Confucio, come emblema di purezza e di innocenza, forza d’animo, nobiltà di carattere e modestia, grazia e gentilezza. Nonché di bellezza dai tratti essenziali ed eleganti ispirata specialmente dai Cymbidium, un genere allora diffusissimo di orchidee miniature con piccoli fiori cerosi, caratterizzati da profumi soavi, colori intensi, eppure discreti, molto spesso stilizzati e raffigurati in pittura.
Poi in Occidente, dove il termine orchidea appare nella Historia Plantarum di Teofrasto, con riferimento all’aspetto dei bulbi che ricordano quello dei testicoli umani, con annessa, presunta associazione al seguito di proprietà afrodisiache. E non a caso, la bellezza dei suoi fiori verrà poi spesso collegata alla dimensione erotica e all’arte della seduzione, fino allo stereotipo che collega bellezza femminile e orchidee. Ma questo, solo in secoli recenti. Le orchidee europee, difatti, quelle conosciute dai popoli mediterranei sin dall’antichità, erano piante ben diverse da quelle oggi solitamente evocate con questo nome. Erano molto rustiche, piante annuali, minute, perlopiù terricole, che crescevano da un bulbo o un rizoma, poco vistose e interessanti sotto il profilo estetico.
È soltanto con l’epoca dei grandi viaggi di esplorazione che l’Occidente conoscerà quelle invece eleganti, appariscenti, spesso strabilianti e in gran misura rare, provenienti dalle foreste tropicali, fin lì perlopiù inesplorate, che nell’arco di pochi decenni, sbarcate dalle navi di botanici e cacciatori di piante sconvolgono, per vastità e variabilità impreviste, il panorama delle categorie vegetali europee e i tentativi di ordinamento delle tassonomie linneiane. Nuove specie, con nuovi nomi da inventare
E, proprio nelle foreste tropicali, 35 milioni di anni fa si era attuato uno dei principali snodi del percorso evolutivo delle orchidee che avevano cominciato ad arrampicarsi sugli alberi liberandosi dal vincolo di uno spazio affollato di concorrenti vegetali e animali. Anche se già un paio di milioni di anni prima, dopo la grande estinzione del Cretaceo, quando esisteva una sola linea evolutiva di orchidee, queste avevano messo a punto un’altra invenzione, quella dei pollinia, aggregazioni di polline, poi specializzati per essere affidati alla consegna esclusiva ad altri fiori della stessa specie da parte di diversi corrieri del mondo animale.
Sarà proprio ripercorrendo l’evoluzione dei diversi stratagemmi congegnati dalle orchidee per attirare i grandi insetti e i colibrì delle foreste tropicali, sviluppando fiori dalle forme e colori vistosi e dall’ingegnosa morfologia dei meccanismi funzionali all’impollinazione, che Darwin appassionato di orchidee, tra quelle selvatiche dei dintorni e una discreta collezione di tropicali, risponde, poco più di due anni dopo L’origine della specie, a quanti avevano criticavato la sua teoria. Nel 1862, pubblicando il volumetto sulla Fertilizzazione delle orchidee, sottolinea proprio nel funzionamento del loro apparato riproduttore, il rilievo della fecondazione incrociata.
Risultato, lo sviluppo di una vertiginosa differenziazione in nuove specie – fissato nelle cinque sottofamiglie – per arrivare alla più diffusa, quella delle Epidendroideae, tra le epifite, che oggi sono l’80% delle specie delle orchidee.
Con l’inizio dell’800, il massiccio arrivo in Europa delle inconsuete, spettacolari orchidee tropicali si innesta su una diffusa passione tributata alle piante del nuovo mondo, soprattutto quelle tropicali, tra l’aristocrazia e la borghesia finanziaria e mercantile, specialmente inglese.
Ma, in ragione della loro difficoltà ad acclimatarsi e dato che allora non si conosce ancora il modo per riprodurle, le orchidee risultano spesso, rispetto alle altre piante, esemplari unici, rare presenze evanescenti da collezionare. Un bene di valore da vantare e mettere in mostra, presto diventato status symbol.
La maggior parte non sopravvive alle lunghe traversate oceaniche e per mantenerle in vita replicando le condizioni dell’ambiente di origine occorrevano serre estremamente costose. Almeno fino all’abolizione della tassa sul vetro nel 1845, a partire da quando, per almeno cinquanta anni, il collezionismo di orchidee conosce un grande incremento, alla frenetica ricerca di rarità. E al tempo stesso, una sorta di democratizzazione, dato che per ospitarle non occorrevano vasti possedimenti.
Ai cacciatori di piante inviati alla loro ricerca dagli orti botanici nelle foreste tropicali, si affiancano presto quelli delle prime ditte specializzate in orchidee che ne promuovono la vendita in aste specializzate, ricorrendo anche a spregiudicate trovate di marketing come l’enfasi sulla storia della Cattleya labiata ‘vera’, a lungo ritenuta perduta e di cui si annuncia sulle maggiori testate dell’epoca il ritrovamento in Brasile nel 1891, o sul rarissimo Dendrobium phalaenopsis varietà schroederianum, battuto, in forma macabra, per esser venduto come rinvenuto, assiema al teschio umano sul quale cresceva.
Un episodio dai tratti romanzati che ben si inscrive nel genere letterario allora agli esordi dell’Orchid horror. Dalla omonima novella di John Blunt, pubblicata sulla rivista popolare da 500.000 copie The Argosy nel 1911, dove si anticipa il filone centrato sull’identificazione fra orchidea e femminilità escogitatrice di inganni malvagi, con vere e proprie propaggini cinematografiche e un inedito intersecarsi di territori con la scienza, talché le piante finiscono per esser guardate sotto una nuova luce.
Se anche Marcel Proust utilizzerà le orchidee per due memorabili metafore, è soprattutto nel genere poliziesco che l’orchidea si ritrova associata a crimini e delitti, sulle pagine e sugli schermi. A partire da Marylin Monroe di Orchidea bionda (1948, nella traduzione italiana), Wagner sostiene non esista un altro fiore così di frequente citato nei titoli dei film (dove spesso con la trama poco davvero c’entrano le orchidee). Si tratta perlopiù di utilizzi “botanicamente” approssimativi e incongrui.
Diverso è il caso del personaggio dell’investigatore Nero Wolfe (dal 1934) e del suo creatore Rex Stout, entrambi esperti competenti (Wolfe, raffinato ibridatore, ha 10 mila piante di orchidee, Stout ‘solo’ 300) e espressione del fenomeno di un nuovo, diffuso collezionismo di orchidee che si stava sviluppando, in particolare negli Usa, tra associazionismo, concorsi, esposizioni e la corsa alla creazione di nuovi ibridi. Che nell’ultimo secolo infatti vedono aggiungere alle 30.000 e oltre specie in cui le orchidee sono andate differenziandosi nei miei primi cento milioni di anni di vita, altre 100.000 nuove, differenti orchidee create dall’uomo.
Per quanto spesso travisandone l’essenza, i successi romanzati contribuiscono alla fama delle orchidee – nonché a un protagonismo finalmente vegetale – e dal secondo dopoguerra, ben oltre il mondo di ibridatori e collezionisti amatori, l’orchidea diventa estremamente diffusa e popolare nelle sue forme più gestibili, specialmente delle Phalaenopsis, anche come pianta di appartamento, con le sue generose fioriture, economica e poco ingombrante con il suo andamento monopodiale.
E chissà che anche questa relazione non sia che una variante di un più ampio meccanismo.
Wagner sottolinea come nella specificità delle orchidee, fragilità e successo vadano insieme. In un percorso di superspecializzazione e simbiosi stretta, sempre specifica, con animali impollinatori e funghi simbionti che, soli, consentono ai semi di germinare. Con una capacità di mimesi multipla che, dall’assunzione da parte dei fiori delle Ophrys delle sembianze specifiche delle femmine dell’imenottero che hanno scelto come impollinatore (fiori che, quindi, i maschi ingannati finiscono per impollinare in una pseudocopulazione ‘mimetica’), arriva perfino, con il genere Dracula che deve attirare i suoi moscerini impollinatori,a imitare nei disegni, nella consistenza nei tessuti e nell’odore, il regno dei funghi dove questi ultimi vivono.
In questo caso, una mimesi multipla, indiretta e ancor più sofisticata. Intesa non tanto a imitare un soggetto (l’imenottero femmina) ma a ricreare un intero ambiente. E neanche copiandolo da un modello preciso, ma creando una nuova versione di fungo gradita al moscerino. Inventando un nuovo mondo, inesistente in natura.
Alessandro Wagner, Fare l’amore come un’orchidea. Storia e mirabilia del fiore più intelligente del mondo, Ponte alle grazie, pp. 246, € 18, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 21, Supplemento de Il Manifesto del 4 giugno 2023