La progettualità dell’incolto

Nel convergere di letture critiche intese a destrutturare la dicotomia che nel pensiero egemonico occidentale nettamente separa cultura e natura, colto e incolto, gli strumenti e le analisi dell’antropologia culturale giocano un ruolo rilevante proprio a partire da quest’ultima nozione grimaldello
Ben presente come dimensione di tramite e momento dialettico nelle società del Pacifico o dell’oltremare europeo, dove diverse l’hanno sacralizzato proteggendolo con norme e divieti, l’incolto come ci ricorda Adriano Favole, antropologo specialista dell’Oceania insulare, non funziona per opposizione: è spazio complementare, ad alta densità di vita e con un proprio potere generativo. Luogo di rifugio e riserva di cibo e risorse che “nei dintorni di quella organizzazione che chiamiamo cultura” si organizza diversamente e continuamente rinasce in un perdurante intreccio di destini, dove uomini, entità non umane, specie e fenomeni naturali appartengono a un medesimo ordine. Una natura di cui l’umano è parte (La vita selvatica. Storie di umani e non umani, Laterza, pp. 148, € 16).
La nozione di incolto – o selvatico, pur sempre ricavata per opposizione – torna perciò utile per ripensare il modello occidentale che a lungo ha visto l’essere umano imporsi su una natura pensata come altra da sé, governata da leggi meccanicistiche da piegare a proprio vantaggio e dove l’imposizione di sovranità sull’incolto, compresi i suoi abitanti non umani, è parte del processo di colonizzazione.

Ernesto Treccani, Siepe blu, anni 90

L’antropologia aiuta a tener nel conto anche quei casi in cui una relazione con l’ambiente fatta di interdipendenza e vulnerabilità, più che non di predazione e dominio, possa essere scelta e non subita. Dal doppio registro delle società eschimesi diversamente in relazione con l’incolto del clima, in estate e in inverno, al convivere nelle “società” complesse abitate da umani vegetali domestici piante spontanee, animali selvatici che sono i giardini di Futuna, in Polinesia occidentale, al concetto di incolto esteso anche ai mari laddove i diritti fondiari dilagano oltre la linea di costa, fino alla piattaforma corallina o fin dove il fondale sia ancora percepibile, agli svariati modi di abitare con l’incolto anche in città da parte dei kanak a Nouméa capoluogo della Nuova Caledonia.
Ma, così come per tante società non antropocentriche dove l’agricoltura risulta frutto della convivenza tra umani e non umani (magari da regolare tramite forme di magia agricola), così si suggerisce siano da rivedere tempi e forme del mito archeologico che associa la fondazione della società a una rivoluzione agricola che si diffuse invece soltanto con grande lentezza nel neolitico, convivendo per millenni con altre modalità di sostegno alimentare. Argomenta Favole: fu piuttosto “il passaggio da forme di convivenza con l’incolto – con o senza agricoltura – a cosmologie e forme di produzione che assolutizzarono il ruolo dell’essere umano nell’universo a creare le condizioni per uno sfruttamento senza fine dell’incolto …La creazione di un muro tra Natura e Cultura fa parte di questo processo” 51.
Se la funzione mediatrice dei boschi comunitari o il ricorso alla fecondità delle forze dell’ incolto con l’inclusione del maggese (anche da parte dei pescatori, nel mare) non è certo estranea nel passato delle società contadine occidentali, Nelle nostre società l’incolto è oggi piuttosto un residuo. Margine discontinuo, imprevisto, mal tollerato. Salvo accorgersi quanto i suoi paesaggi conservino anche qui tracce di ricchezza biologica – tra luoghi liminari e di scarto, siepi, bordure – creando vie dell’incolto, zone rifugio, beni comuni. Margini anche di diversità culturale e sociale.
Dipendenti (come siamo) in tutto dalla vita vegetale; e avvinti con i non umani in relazioni tanto pervasive quanto inavvertite, perlopiù in dimensione macro, dai sempre nuovi paesaggi determinati dal variare di temperature, confini di foreste e oceani o dall’attività di vulcani, al micro del nostro biota; sempre condizionati nel nostro rapporto con i luoghi, sotto il segno del paradigma estrattivista – dalla serie di ricadute a catena determinate attorno a competizioni come il commercio della noce moscata nel 600, all’uso massiccio di quell’incolto fossile formato da idrocarburi e gas che nel suo distribuirsi naturale vien modellando la geopolitica contemporanea – siamo pur sempre, tutt’ora, una società di raccolta.
Sulla scorta dell’incrocio di attenzioni come quella che Darwin dedicava al ruolo fondamentale dell’azione dei vermi sulla vita del suolo (e a cui dedica il suo ultimo libro prima della morte nel 1881) o riservata ai giardini di corallo di cui Malinowski evidenzia la funzione di innesco di costruzioni di biodiversità e culture, l’indicazione è a riconoscere nell’incolto un assemblaggio di progettualità altre. Implicando, con l’importanza del lato selvatico della cultura, un nuovo mondo di partecipazioni, somiglianze, relazioni.

Adriano Favole, La vita selvatica. Storie di umani e non umani, Laterza, pp. 148, € 16, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 50 Supplemento de Il Manifesto del 5 gennaio 2025