Tratto distintivo degli alberi anche in quanto elemento costutivamente dinamico per come, continuamente crescendo, si riconfigura, la corteccia esige un’attenzione che se da un lato la assimila al soggetto di cui è veste e interfaccia, al tempo stesso, da questo la isola in una sorta di straniamento. Perché specialmente per indagarne il dettaglio che fa inesauribile la varietà di combinazioni delle sue forme e colori, la corteccia va osservata a sé, da vicino, isolata, quasi riquadrata.
O, almeno, questo è l’assunto da cui parte il fotografo naturalista Cédric Pollet che all’universo delle cortecce ha dedicato un progetto decennale che lo ha portato tra i continenti a visitare 450 specie di piante per distillarne 81 ritratti, da presso (Cortecce. Viaggio nell’intimità degli alberi del mondo, L’ippocampo, pp. 192 € 25,00 traduzione Ombretta Romei).
Nel suo percorso di ricerca, l’aspetto estetico è demandato, senza nessun intervento, alla restituzione in fotografia del ritaglio dei soggetti. E soltanto in seconda battuta gli si affianca l’immagine dell’albero nel suo contesto naturale.
Considerando che già ogni corteccia ricomprende in sé un insieme di relazioni fin quasi a farsi ecosistema: si dica del caso dell’Acacia a corna di toro dove la colonia di formiche che difende la pianta con cui vive in simbiosi trova rifugio in grandi spine ormai ipertrofiche a forma, appunto, di corna di toro e piuttosto residuo segno distintivo.
Scorrono così tra le pagine ritratti di cortecce striate, screpolate, incise da verruche e lenticelle, squamate per frammenti rettangolari, lamine molteplici o strati sovrapposti, spesse, fibrose fino a essere ignifughe ricche di tannino contro funghi e insetti, percorse da placche, losanghe, bocche, cerniere verticali, lacerate orizzontalmente a intervalli regolari, crepate da solchi ritorti, tappezzate di spine
Volta a volta tracce, o sigilli ed emblemi destinati a restar fissi nel tempo o a variare per grana, cromia, iridescenze. A segnare anche il trascorrere delle diverse fasi della vita dell’albero come del volger delle singole stagioni nell’arco dell’anno: il sommarsi di strati sovrapposti di placche di corteccia rosso violaceo che crescendo conforma il pino marittimo; lo sfogliarsi con il sopraggiungere della calura estiva di frammenti rettangolari che dal tronco del corbezzolo greco si avvolgono come bastoncini di cannella svelando il fugace verde mela della nuova corteccia; il verdeazzurro che la grigia, vecchia corteccia dell’eucalipto rosso di Sydney assume subito prima di virare al cambio sui toni del giallo e poi dell’arancio.
E, allargando appena lo sguardo, i contrasti si moltiplicano: tra il fogliame grigio verde della californiana manzanita di San Luis Obispo e la sua sottile corteccia di un tenue color porpora che con la desquamazione dell’estate lascia via via apparire una favolosa tavolozza di verdi arancio, rosso scuro e viola; quello tra i rami bianchi e il tronco nero dopo un incendio che spiega l’origine del nome greco della Melaleuca quinquenervia (niauli), la cui compatta corteccia papiracea è serviva via via da isolante per le case tradizionali, per cucinare e avvolgere dolcemente di neonati; o quello ancora tra i fusti spinosi dell’ocotillo e le miriadi dei suoi rossi fiori melliferi che fugacemente illuminano i paesaggi desertici dal sud-ovest dagli Stati Uniti al Messico.
Estensivamente, oltre a quelle degli alberi, l’autore include tra le cortecce i rivestimenti anche di bambù e felci arboree, di liane come ilFico strangolatore della Florida, di erbe giganti a forma di albero, come la pirofila Xanthorrhoea australis, sorta di fossile vivente, dalla crescita che non supera il metro in cento anni, ma anche il corsetto vegetale dalle tinte policrome costituito dalla base delle foglie del sabal palmetto disposte a crociera.
Implicate in queste meravigliose forme d’arte involontaria si accompagnano soluzioni efficaci, ingegnose invenzioni dell’evoluzione. Come per la corteccia di mimetizzazione che nel pino di Bunge cambia colore a seconda delle stagioni e dell’orientamento, o nel caso delle lenticelle che sul candido tronco del pioppo bianco talvolta si uniscono a disegnare bocche – vere e proprie aperture capaci di agevolare scambi gassosi. E mentre la colorazione sul verde di molte cortecce nuove – ad esempio nel cosiddetto Blu paloverde o Parkinsonia florida – tradisce la ricchezza di pigmenti clorofilliani e la capacità delle cortecce di effettuare fotosintesi spesso in condizioni di caldo eccessivo, la vite della Namibia vira invece in estate al bianco, favorendo così una migliore riflessione dei raggi solari. In alcuni casi poi – come per il kauri neozelandese, l’albero sacro dei Maori – è l’esigenza di scrollarsi di dosso parte almeno delle piante epifite che la ricoprono a spiegare il regolare rinnovo della corteccia.
Così quest’elemento, seppur discretamente molto presente nella nostra vita quotidiana – sotto le forme più varie, sughero cannella, caucciù incenso, prodotti medicinali, pigmenti, fibre, gomme da masticare –, si proietta a evocare paesaggi, libere astrazioni, mimetismi, carte geografiche, grafie.
Come per l’Eucalyptus sclerophylla, popolarmente detto dagli aborigeni australiani, scarabocchiato: sul cui tronco improvvisamente appare una sorta di scrittura a zigzag, articolata in una serie di diversi, riconoscibili ma incomprensibili moduli. Di cui si è decifrata l’origine soltanto negli anni 30, nel segno della larva di una piccola farfalla in azione tra vecchia e nuova corteccia, che si rivela però soltanto allo fogliarsi della prima.
Cédric Pollet, Cortecce. Viaggio nell’intimità degli alberi del mondo, L’ippocampo, pp. 192 € 25,00 traduzione Ombretta Romei, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 38 Supplemento de Il Manifesto del 29 settembre 2024