Tra le molte forme che illustrano la relazione tutta particolare che lega una pianta e il suo fiore a un territorio, alla cultura e alle esistenze delle genti che lo abitano, quella del giaggiolo, specialmente nella Toscana della valle dell’Ema e di gran parte del Valdarno, del Chianti fiorentino e della provincia di Arezzo, è una vicenda che assume i tratti di una sorta di microstoria rivelatrice.
E questo ben al di là dell’esser stato assunto – Iris germanica, varietà florentina o giaggiolo bianco – come emblema di Firenze fin dall’XI secolo, seppure oggi con colori invertiti (il fiore in rosso su sfondo bianco) come vollero i guelfi dopo aver cacciato i ghibellini nel 1251, e per quanto spesso erroneamente scambiato per un giglio, con lo stesso slittamento per cui talvolta iris e giglio si sovrappongono come simbolo della monarchia francese, o ancora per l’etimologia popolare – a fianco di quella latina, da gladiolus, piccola spada, in ragione della forma delle foglie – che in toscano lo vuole ghiaggiuolo, diacciolo, poi giaggiolo, per il colore e la forma allungata del suo bocciolo, bianco azzurrato, come del ghiaccio
Da impiegarsi come estratto o polvere in varie preparazioni mediche o cosmetiche, il rizoma di iris, specialmente tra secondo 700 e primo 900 viene coltivato qui pressoché in ogni podere, in piccoli appezzamenti su superfici sassose dove cresce quasi spontaneo e senza bisogno di troppo lavoro, su terrazzamenti rimediati o nei pressi di muri a secco, terreni spesso non utilizzati e quindi senza sottrarre spazio, come complemento alle colture principali, fino a ordinare e caratterizzare il paesaggio costituendo un’integrazione significativa nell’economia contadina, una presenza caratterizzante nel percorso di vite vissute, nelle sorti di territorio. Una vera e propria epopea, come raccontano nella loro ricerca Andrea Bettarini e Lucia Diodato (Il giaggiolo, Edizioni Polistampa, pp. 138, € 18,00).
Di già gli etruschi raffiguravano l’iris sui frontoni delle urne funerarie e la cultura greca ricollegava la varietà dei suoi colori al mito dell’omonima messaggera degli dei, tramite tra cielo e terra discendendo e rimontando arcobaleni, così come i sacerdoti egizi se ne servivano per entrare in contatto con dei e abitanti dell’oltretomba, viatico in forma di oli essenziali, sostanze aromatiche, profumi.
A lungo prevalenti sono gli usi terapeutici. Ippocrate suggerisce unguenti a base di giaggiolo per disturbi epatici, infezioni, dolori articolari, o per uso ginecologico e Plinio descrive 41 rimedi naturali a base di iris, mentre Carlo Magno lo includerà nel Capitulare de villis, nell’elenco di piante delle quali si dispone la coltivazione.
Ancora, poi, in ambito monastico, con Ildegarda di Binden che suggerisce la polvere di rizoma per le affezioni di bronchi e, dagli orti dei conventi alle università, dove lo speziale o rizotomo, raccoglitore di radici, oltreché addetto alla preparazione dei medicamenti, approntava inchiostri e colori per scrittura e disegno per fornire ai pittori solventi e pigmenti. Come già Teofrasto lo ricorda nel suo trattato sui colori come fiore dalle infinite tonalità, così con i fiori di giaggiolo si preparava un verde che nel suo De coloribus diversis tractatus del1398 Johannes Archerius denomina verdilis o verde iris, descrivendo come ottenerlo.
Ma, oltre a questi usi, la radice dell’iris rivela eccellenti proprietà aromatiche per il confezionamento di oli essenziali e profumi.
Lasciati seccare per tre anni, i rizomi sviluppano la capacità di mantenere a lungo il loro aroma, esaltando anche quello delle sostanze con le quali vengono mischiati. Di questo pregio profitterà con estro l’alchimista Renato Bianco, che, al seguito di Caterina dei Medici, andata in sposa nel 1547 del re di Francia, diverrà, ribattezzato René le florentin, maestro profumiere, diffondendo a corte l’uso, poi la moda, di fragranze che, tra cuoio profumato, guanti, gilet, pelli odorose, diverranno presto segno di distinzione sociale, anche per la scarsa igiene caratteristica dei tempi, fin anche a corte.
Per l’epopea che qui interessa, è nella settecentesca Toscana granducale, tra paternalistica attenzione al miglioramento di condizioni e cultura agraria – quando il pievano agronomo Ferdinando Paoletti scrive le sue Riflessione sulla cultura dell’iride ossia Giaggiolo – che la coltivazione del giaggiolo si impone come risorsa, realtà molto redditizia, anche in valuta, per il bilancio dello stato.
Le richieste di mercato di rizoma di giaggiolo, alimentate specialmente dall’estero, Europa e paesi d’oltreoceano, viaggiano sull’onda della moda di lusso per profumi e cosmetici.
Son molti e differenti gli impieghi di questa pianta, presente anche in cucina, farine per aromatizzare vini, vermouth, amari, oppure per marcare di fragranze esotiche il tabacco dei sigari, oltre a ciprie destinate alle acconciature o ancora, come ausili sanitari in pratiche di chirurgia curativa che, fino alla scoperta degli antibiotici e della penicillina, impiegavano palline di giaggiolo per l’eliminazione degli umori infetti
E tuttavia è l’invenzione di un prodotto alternativo ai tradizionali impieghi del giaggiolo per usi farmaceutici e in profumeria, a costituire un ulteriore osservatorio, a tratteggiare un ulteriore capitolo di questa microstoria: nel 1825, il francese Pietro Rambaud avvia a Pontassieve una manifattura per ricavare dalla lavorazione al tornio del rizoma essiccato sfere e palline di varie dimensioni forate al centro e poi colorate per farne collane, bracciali e rosari profumati destinati alla vendita, specialmente in estremo Oriente (annualmente circa 130 quintali di radice di giacinto). Un opificio che impiega 20, poi 50 operaie, esclusivamente donne, con un salario per i tempi di tutto rispetto.
Queste novità, assieme ad altre forme di conduzione familiare, poi cooperativa, che operano nel settore della cosmetica e delle essenze odorose, come la famiglia Piazzesi a San Polo in Chianti che tra metà 800 e inizio novecento si muove con viaggi di rappresentanza cogliendo più ampie potenzialità commerciali e economiche, hanno anche l’effetto parallelo di rianimare un territorio e un’industria agraria in difficoltà. Fino alle crisi di eccedenza del volgere di primo 900, complice anche il profilarsi della concorrenza dell’industria chimica.
Presenti secondo alterne mode e fortune anche nei giardini, e sempre più dal 900, con la creazione accanto a quelle botaniche di migliaia di nuove varietà e ibridi, gli iris han da sempre intercettato simbologie e immaginari. Fiore della primavera, come lo definisce il medievale Pier de Crescenzi nel suo Trattato dell’Agricoltura (LXII, il giaggiuolo “cogliesi nel fin di primavera e si secca, e serbasi, per due anni”) , associato a Flora nella Primavera di Botticelli che lo ritrae secondo la lezione dei Fasti di Ovidio nell’angolo in basso a destra del quadro, come anche spesso protagonista nei quadri di Vincent Van Gogh, che spesso si rivolse loro.
Come ne scrive Corrado Govoni, “celesti giaggioli/ sono i fiori più belli della terra, /vere orchidee dei poveri/ che nemmeno li guardano” (I fiori che amo). Ma se si è a Firenze, questo è il momento di ammirarne le fioriture nei due ettari e mezzo del Giardino dell’iris, orto botanico monogenetico con vista sul panorama della città, dove dal 1954 la Società italiana dell’iris organizza il prestigioso concorso internazionale chiamato per valutarne le migliori varietà.
Andrea Bettarini e Lucia Diodato, Il giaggiolo. Edizioni Polistampa, pp. 138, € 18,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 15 Supplemento de Il Manifesto del 12 maggio 2024