Per quanto sia poi spesso nutrito di irrefrenabili letture di riviste, cataloghi, libri, il percorso che ci avvince al giardino nasce quasi sempre da una memoria lontana o da un luogo maestro, da un incontro mentore, magari nell’infanzia, spesso da un sogno. E, prima del giardino, sovente l’insight è l’esperienza di “un sentiero nel bosco”, ci dice Maurizio Zarpellon, giardiniere, a lungo vivaista specializzato in erbacee perenni, nel suo ultimo volume dove procede con l’andamento riflessivo del memoir a cavallo tra giardini vissuti, o magari a lungo abitati nello studio di tipologie e tendenze del passato, e quelli, ancora, da lui ideati nel segno di una passione di cui risulta spesso difficile parlare per il rischio di scivolare nel sentimentalismo.
Il volume riesce però ad avvicendare nelle pagine anche una serie di pertinenti considerazioni pratiche e progettuali che restituiscono la circolarità di un’attitudine ch’è sempre, al tempo stesso, un sapere e operare creativo. Una pratica, composita sensibilità, appunto, da appassionate Anime da giardino come son quelle evocate nel titolo da Zarpellon per l’editore Gribaudo (pp.153, € 16,90). E che pure risuona nell’edizione in italiano dell’Enciclopedia del garden design a cura di Cris Yang, della Royal Horticultural Society, pubblicata contemporaneamente sempre da Gribaudo: anche se qui di tratta piuttosto di una sistematica, capace di illustrare le più recenti tendenze a coniugare concettualismi progettuali, ibridazione di stili del passato nella lettura di un contemporaneo segnato da inedite funzionalità e soluzioni tecnologiche, con una rinnovata, consapevole attenzione alle piante in un contesto climatico in ripido mutamento.
Il sentiero al giardino è così un viaggio tra fruscii, colori, ombre, luci, trasparenze, dove dal caos per noi dell’indistinto le piante san bene come emergere, far parlare di sé, come… parlare da per sé. Come singoli individui e come insieme.
Zarpellon ci ricorda che qui noi concorriamo con il vivente in qualità di coautori, in un disegno che sempre più deve farsi capace di osservare, tener conto e pensare a lungo termine.
Prevedendo come saranno le piante in età adulta, calcolando la loro rusticità, le loro esigenze in termini di acqua e nutrienti, come pure la loro capacità di assorbimento di CO2. Prefigurando il girare delle ombre di sempreverdi o dei muri attorno al giardino, la sua esposizione e i venti dominanti, immaginandovi la presenza, il dinamismo, il suono e i riflessi dell’acqua, con la vita al seguito di piante e animali ospiti.
Nell’orchestrazione del progetto occorrerà accompagnare nel loro coesistere parti differenti, elementi strutturali, materiali e piante, come pure il loro ricombinarsi e variare nel corso di tutte le stagioni. Secondo una visione d’insieme che articoli il disegno di vialetti e sentieri, snodi, passaggi, punti focali, considerare relazioni e prospettive tra casa e giardino, l’integrazione tra dentro e fuori. Dove occorrerà, semmai, ampliare le vedute con espedienti prospettici o celare la vista con schermature, incanalare lo sguardo, articolare per tappe i percorsi, con archi, portali, guidarci su viali o curve sinuose, tra aperture e restringimenti.
Ma specialmente, anticipando un più generale cambiamento di mentalità, immaginare giardini sostenibili anche in ragione del complicarsi di condizioni climatiche e ambientali. Giardini, fin dal loro progetto, a ridotto impatto ambientale per la manutenzione che richiederanno.
Prati con miscugli naturali per api, farfalle, grilli, lucciole, siepi miste dove arbusti diversi siano assortiti a mescolare fiori, bacche e frutti, utili per costituire corridoi rifugio, per fornire cibo e tane a piccoli mammiferi e uccelli; stagni e laghetti ospiti di microclimi diversi e maggiore biodiversità, ma anche pratiche virtuose come il compostaggio o l’utilizzo di materiali compatibili con l’ambiente.
Non dimenticando che se ciascun giardino ha per inclinazione una propria diretta maestria nell’economizzare risorse, acqua, energie e nel conservare varietà di specie animali e vegetali, piante adatte a un clima che muta, nella loro molecolare sommatoria queste miriadi di microcosmi finiscono per costituire un insieme di paesaggio che nell’economia del complesso del vivente risulta determinante nella ricerca di un rinnovato equilibrio con la natura e quindi noi stessi.
Tra le molte forme che illustrano la relazione tutta particolare che lega una pianta e il suo fiore a un territorio, alla cultura e alle esistenze delle genti che lo abitano, quella del giaggiolo, specialmente nella Toscana della valle dell’Ema e di gran parte del Valdarno, del Chianti fiorentino e della provincia di Arezzo, è una vicenda che assume i tratti di una sorta di microstoria rivelatrice.
E questo ben al di là dell’esser stato assunto – Iris germanica, varietà florentina o giaggiolo bianco – come emblema di Firenze fin dall’XI secolo, seppure oggi con colori invertiti (il fiore in rosso su sfondo bianco) come vollero i guelfi dopo aver cacciato i ghibellini nel 1251, e per quanto spesso erroneamente scambiato per un giglio, con lo stesso slittamento per cui talvolta iris e giglio si sovrappongono come simbolo della monarchia francese, o ancora per l’etimologia popolare – a fianco di quella latina, da gladiolus, piccola spada, in ragione della forma delle foglie – che in toscano lo vuole ghiaggiuolo, diacciolo, poi giaggiolo, per il colore e la forma allungata del suo bocciolo, bianco azzurrato, come del ghiaccio
Da impiegarsi come estratto o polvere in varie preparazioni mediche o cosmetiche, il rizoma di iris, specialmente tra secondo 700 e primo 900 viene coltivato qui pressoché in ogni podere, in piccoli appezzamenti su superfici sassose dove cresce quasi spontaneo e senza bisogno di troppo lavoro, su terrazzamenti rimediati o nei pressi di muri a secco, terreni spesso non utilizzati e quindi senza sottrarre spazio, come complemento alle colture principali, fino a ordinare e caratterizzare il paesaggio costituendo un’integrazione significativa nell’economia contadina, una presenza caratterizzante nel percorso di vite vissute, nelle sorti di territorio. Una vera e propria epopea, come raccontano nella loro ricerca Andrea Bettarini e Lucia Diodato (Il giaggiolo, Edizioni Polistampa, pp. 138, € 18,00).
Di già gli etruschi raffiguravano l’iris sui frontoni delle urne funerarie e la cultura greca ricollegava la varietà dei suoi colori al mito dell’omonima messaggera degli dei, tramite tra cielo e terra discendendo e rimontando arcobaleni, così come i sacerdoti egizi se ne servivano per entrare in contatto con dei e abitanti dell’oltretomba, viatico in forma di oli essenziali, sostanze aromatiche, profumi.
A lungo prevalenti sono gli usi terapeutici. Ippocrate suggerisce unguenti a base di giaggiolo per disturbi epatici, infezioni, dolori articolari, o per uso ginecologico e Plinio descrive 41 rimedi naturali a base di iris, mentre Carlo Magno lo includerà nel Capitulare de villis, nell’elenco di piante delle quali si dispone la coltivazione.
Ancora, poi, in ambito monastico, con Ildegarda di Binden che suggerisce la polvere di rizoma per le affezioni di bronchi e, dagli orti dei conventi alle università, dove lo speziale o rizotomo, raccoglitore di radici, oltreché addetto alla preparazione dei medicamenti, approntava inchiostri e colori per scrittura e disegno per fornire ai pittori solventi e pigmenti. Come già Teofrasto lo ricorda nel suo trattato sui colori come fiore dalle infinite tonalità, così con i fiori di giaggiolo si preparava un verde che nel suo De coloribus diversis tractatus del1398 Johannes Archerius denomina verdilis o verde iris, descrivendo come ottenerlo.
Ma, oltre a questi usi, la radice dell’iris rivela eccellenti proprietà aromatiche per il confezionamento di oli essenziali e profumi.
Lasciati seccare per tre anni, i rizomi sviluppano la capacità di mantenere a lungo il loro aroma, esaltando anche quello delle sostanze con le quali vengono mischiati. Di questo pregio profitterà con estro l’alchimista Renato Bianco, che, al seguito di Caterina dei Medici, andata in sposa nel 1547 del re di Francia, diverrà, ribattezzato René le florentin, maestro profumiere, diffondendo a corte l’uso, poi la moda, di fragranze che, tra cuoio profumato, guanti, gilet, pelli odorose, diverranno presto segno di distinzione sociale, anche per la scarsa igiene caratteristica dei tempi, fin anche a corte.
Per l’epopea che qui interessa, è nella settecentesca Toscana granducale, tra paternalistica attenzione al miglioramento di condizioni e cultura agraria – quando il pievano agronomo Ferdinando Paoletti scrive le sue Riflessione sulla cultura dell’iride ossia Giaggiolo – che la coltivazione del giaggiolo si impone come risorsa, realtà molto redditizia, anche in valuta, per il bilancio dello stato.
Le richieste di mercato di rizoma di giaggiolo, alimentate specialmente dall’estero, Europa e paesi d’oltreoceano, viaggiano sull’onda della moda di lusso per profumi e cosmetici.
Son molti e differenti gli impieghi di questa pianta, presente anche in cucina, farine per aromatizzare vini, vermouth, amari, oppure per marcare di fragranze esotiche il tabacco dei sigari, oltre a ciprie destinate alle acconciature o ancora, come ausili sanitari in pratiche di chirurgia curativa che, fino alla scoperta degli antibiotici e della penicillina, impiegavano palline di giaggiolo per l’eliminazione degli umori infetti
E tuttavia è l’invenzione di un prodotto alternativo ai tradizionali impieghi del giaggiolo per usi farmaceutici e in profumeria, a costituire un ulteriore osservatorio, a tratteggiare un ulteriore capitolo di questa microstoria: nel 1825, il francese Pietro Rambaud avvia a Pontassieve una manifattura per ricavare dalla lavorazione al tornio del rizoma essiccato sfere e palline di varie dimensioni forate al centro e poi colorate per farne collane, bracciali e rosari profumati destinati alla vendita, specialmente in estremo Oriente (annualmente circa 130 quintali di radice di giacinto). Un opificio che impiega 20, poi 50 operaie, esclusivamente donne, con un salario per i tempi di tutto rispetto.
Queste novità, assieme ad altre forme di conduzione familiare, poi cooperativa, che operano nel settore della cosmetica e delle essenze odorose, come la famiglia Piazzesi a San Polo in Chianti che tra metà 800 e inizio novecento si muove con viaggi di rappresentanza cogliendo più ampie potenzialità commerciali e economiche, hanno anche l’effetto parallelo di rianimare un territorio e un’industria agraria in difficoltà. Fino alle crisi di eccedenza del volgere di primo 900, complice anche il profilarsi della concorrenza dell’industria chimica.
Presenti secondo alterne mode e fortune anche nei giardini, e sempre più dal 900, con la creazione accanto a quelle botaniche di migliaia di nuove varietà e ibridi, gli iris han da sempre intercettato simbologie e immaginari. Fiore della primavera, come lo definisce il medievale Pier de Crescenzi nel suo Trattato dell’Agricoltura (LXII, il giaggiuolo “cogliesi nel fin di primavera e si secca, e serbasi, per due anni”), associato a Flora nella Primavera di Botticelli che lo ritrae secondo la lezione dei Fasti di Ovidio nell’angolo in basso a destra del quadro, come anche spesso protagonista nei quadri di Vincent Van Gogh, che spesso si rivolse loro.
Come ne scrive Corrado Govoni, “celesti giaggioli/ sono i fiori più belli della terra, /vere orchidee dei poveri/ che nemmeno li guardano” (I fiori che amo). Ma se si è a Firenze, questo è il momento di ammirarne le fioriture nei due ettari e mezzo del Giardino dell’iris, orto botanico monogenetico con vista sul panorama della città, dove dal 1954 la Società italiana dell’iris organizza il prestigioso concorso internazionale chiamato per valutarne le migliori varietà.
Andrea Bettarini e Lucia Diodato, Il giaggiolo. Edizioni Polistampa, pp. 138, € 18,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 15 Supplemento de Il Manifesto del 12 maggio 2024
“Siamo fiori / del mare selvaggio / e della costa rocciosa; / nati tra le onde / in grotte nascoste / quando si quieta la tempesta”. Così, in prima persona, recita una sorta di inno che chiude le ventidue pagine dell’erbario di alghe conservato nella biblioteca dell’università di Basilea e dove attorno al 1851 Eliza French dispose campioni raccolti dall’acqua annotando luogo e data di riferimento.
L’album, come molti altri esemplari che probabilmente l’algologa americana veniva allora realizzando, era destinato ai collezionisti così sensibili all’algomania diffusasi a cavallo dell’800, nel contesto dell’entusiasmo collettivo per la spiaggia, esperienza sensoriale diretta di una natura da praticare non più soltanto come gli osservatori a distanza, del pittoresco.
Se in epoca vittoriana le collezioni di felci imperversano, alghe e conchiglie ne sono degno contrappunto tanto che in una caricatura disegnata per la rivista satirica Punch nel 1856 da John Leech si enfatizza il piglio marziale di un gruppo di collezioniste di alghe attrezzate di tutto punto, chinate a schiera a raccoglierle sulla spiaggia al ritirarsi della marea.
Sul come e perché le alghe, sensuali maestre di seduzione e mistero, accendano l’immaginazione con il loro inesausto fluttuare si interroga l’artista visiva e scrittrice olandese Miek Zwamborn nel suo volumetto per Nottetempo, Alghe. Un ritratto(pp. 182, € 15,00, traduzione di Stefano Musilli). Dove, andando oltre le sue precedenti opere di narrativa, alterna racconti ed esperienze personali con la ricerca inesausta di emergenze letterarie, lessicali, pittoriche, cinematografiche, scientifiche e d’uso, tali che finiscono per produrre una storia culturale sui generis riguardo questi iridescenti organismi vegetali.
Flessibili, prolifici e resilienti come pochi altri, con oltre 10.000 specie diverse, le alghe pervadono tutte le zone climatiche, abitando ambienti instabili, dai tropici ai poli, viaggiando trascinate a riva dalle correnti a volte per settimane senza rispettare limiti e confini.
Classificate come piante inferiori, le alghe vengono divise in sei gruppi principali a seconda del colore – contengono clorofilla ma con pigmenti variabili –, della struttura e del ciclo vitale, verdi, rosse brune, tonalità intermedie, maculate, perforate, traslucide, albine. Sono tra le principali componenti del fitoplancton, costituiscono circa la metà della biomassa marina e producono la maggior parte dell’ossigeno presente nell’atmosfera.
A lungo fondamentali per la dieta degli umani già nelle fasi iniziali del loro sviluppo, come attestato dalle alghe fossili, quelle marine esistono però già da molto prima, 1.7 miliardi di anni. Più di recente, oltre gli usi medicinali (stimolano la circolazione, favoriscono il metabolismo cutaneo, disintossicano l’organismo e ripristinano i livelli di umidità della pelle) e gastronomici (nel libro un’intera sezione è dedicata a ricette) sono state impiegate come materiali – seppur deperibili – per costruire oggetti in molte culture costiere o come materia prima da cui estrarre sali e potassio, per la manutenzione delle dighe (in Olanda dopo la mareggiata del 1775-76, i mucchi di alghe accumulati raggiungevano 2 metri e mezzo di larghezza e oltre 5 in altezza), come pure, in Scozia e nei paesi scandinavi, come foraggio capace di incrementare la produzione di latte per pecore e vacche da condurre sulla spiaggia con la bassa marea. E ancora, venivano utilizzate come barometro, nel caso della Saccarina latissima che, appesa alle pareti, se le lamine rimanevano rigide, significava che nei giorni successivi l’aria sarebbe stata secca, mentre se si ammorbidivano c’era probabilità di pioggia. E via, fino agli usi contemporanei delle alghe nel design, da Julia Lohman progettista e pioniera dell’industria internazionale delle alghe e agli studi della designer Maria Blaisse sulla loro capacità di resistere alla trazione della corrente.
Con l’irlandese William Kilburn, uno dei tre illustratori della Flora londinensis di William Curtis e al tempo stesso stampatore di tessuti, l’attitudine alla classificazione e la tensione dell’illustrazione naturalistica nel disporre gli esemplari di alghe finiscono per riflettersi perfino nel mondo della moda. Nel 1790 Kilburn realizza per la regina Carlotta, moglie di Re Giorgio III, una stoffa a motivi ispirati da un intreccio di alghe in diverse tonalità di viola, trasfondendovi senso di meraviglia ed echi del progresso scientifico
Nella letteratura, oltreché in Oriente dove figurano come simbolo di prosperità, spesso in occasione del nuovo anno e si ritrovano in molte poesie, metafora di desiderio e amore, le alghe fin dal medioevo si affacciano nella figura del pericolo costituito dal mare coagulatum. Che poi, nella testimonianza di Colombo, ostacolerà anche le sue caravelle sulla rotta tra le Canarie e le Bahamas. Ricordate nei puntuali resoconti di Alexander von Humboldt sul Mar dei sargassi, alga dorata che forma foreste galleggianti (e che di recente ha cominciato a proliferare a un ritmo pericoloso per barriere coralline e ecosistemi vegetali), come pure, spesso, in quelli invece di tanti marinai convinti di aver avvistato serpenti marini lunghi decine di metri che si son perlopiù rivelati mostruose matasse di alghe alla deriva.
Evocazioni e raffigurazioni diverse impreziosiscono il volume. Come gli acquerelli su strane piante che crescono tra rocce e scogliere realizzati nel primo cinquecento dall’olandese Adriaen Coenen, commerciante all’ingrosso di pesce e autore di quattro albi consacrati a balene, mammiferi acquatici, pesci e altre creature splendide. O come la scena d’ambiente dedicata da James Clarke Hook alla falciatura e raccolta delle alghe in mare (The Seaweed Raker), 1889, oggi alla Tate di Londra, o, ancora, alle Pêcheuses de goémon ritratte nel 1889 da Gauguin in Bretagna, presso Le Pouldu (collezione privata).
Mentre spiccano su sfondo blu quelle riprese con la tecnica della cianotipia dalla fotografa e botanica Anna Aktins (1799-1871), adagiate sulle pagine immerse nell’acqua il tempo necessario perché il sole che illumina la carta attorno a loro possa fissarne il disegno del contorno, in generale le alghe saranno protagoniste anche di molte pellicole, dal cortometraggio sperimentale del 1929 in 35mm di Ralph Steiner H2O, sulle superfici acquatiche, al film, sempre nello stesso anno, di Jean Epstein Finis terrae, al documentario irlandese, vincitore della Coppa Mussolini come miglior pellicola straniera alla biennale del cinema di Venezia del 34, Man of Aran, diretto da Robert Flaherty.
Bel ciglio, ladra d’ostriche, dita di morto, la scapigliata, denti di forca, capelli d’alga delle sirene, grembiule del diavolo. Morfologie e immaginazione si fondono nei nomi che le alghe assumono nelle diverse lingue. Ed è al dùlamàn, nome irlandese della Pelvetia Canaliculata,che è poi la stessa parola con cui si indica la ballata tradizionale dedicata al fascino delle alghe, che nel 1976 la band musicale folk dei Clannad intitola il suo famoso album.
Una fantasmagoria, questa sulle alghe orchestrata da Miek Zwamborn, dove l’autrice interviene con palpitante, partecipata osservazione diretta. Rilevando tra l’altro come quando grandina sulla spiaggia, per ogni diverso ammasso d’alghe i chicchi riempiendo le cunette della sabbia finiscano per scrivere in caratteri diversi, in stampatello o corsivo.
Nella foresta d’alghe che con lei traversiamo, è sempre un intero paesaggio a muoversi lentamente, tutto insieme
Esempio forse di un mondo ideale – quello dell’interconnessione sottomarina – “dove le specie si tollerano e si offrono a vicenda un appiglio per sopravvivere nella corrente. Pura simbiosi”.
Miek Zwamborn, Alghe. Un ritratto, Nottetempo, pp. 182, € 15,00, traduzione di Stefano Musilli, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 13 Supplemento de Il Manifesto del 28 aprile 2024
Nel succedersi di letture e interpretazioni che dalla fine dell’Ottocento – con la nuova attenzione preraffaellita e poi lo scandaglio da parte di figure come Aby Warburg e Ernst Gombrich – investono la fortuna critica di Botticelli e in particolare della sua Primavera, un capitolo a sé è costituito dal primo tentativo di censimento e identificazione puntuale delle numerosissime specie floreali raffigurate con minuzia e disseminate nel dipinto con un protagonismo pressoché inedito. Per misurare poi, nel fitto sovrapporsi e intrecciarsi di associazioni e significati simbolici che spesso in quelle presenze vegetali si condensano, la distribuzione e il rilievo che giocano nell’evocare avvenimenti storici, idee, filosofie sottese.
Opportunamente contestualizzato nella più ampia vicenda storiografica da Lucia Tongiorgi Tomasi, viene ora proposto da Olschki il pionieristico volume pubblicato in inglese nel 1983 dalla storica dell’arte italoamericana Mirella Levi D’Ancona, La Primavera di Botticelli. Un’interpretazione botanica, pp. 93, € 20.00. Con le avvertenze che se la nuova attenzione per il mondo vegetale, anche nella sua dimensione medicinale o nella pittura – da Gentile da Fabriano all’Angelico, a Filippo Lippi – dev’essere ricondotta pure alla presenza fisica di giardini spesso anche a Firenze occasione di convegno per politici e diplomatici, umanisti e accademici, nella sua lettura occorre sempre comprendere la complessità di livelli e la pluralità di accezioni proprie dei significati simbolici floreali: in relazione a differenti contesti e fasi e rispetto a tipologia e intenti delle fonti.
Anche con riguardo al loro associarsi e alla posizione nel dipinto, Levi D’Ancora identifica quaranta tipi di piante, restituite con appositi schizzi numerati e quindi in un riepilogo dei significati per ciascuna, ripercorsi a corredo, o smentita, delle diverse fonti e interpretazioni dell’iconografia del dipinto.
Tra i protagonisti, articolato in gruppi di figure sulla base delle Stanze per la Giostra di Angelo Poliziano e specialmente dei Fasti di Ovidio, Zefiro (tra due alberi di alloro, diversi per grandezza, attributo forse di Lorenzo il Magnifico e del suo pupillo e cugino Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, detto anche “il Lorenzo Minore”) che nella leggenda aggredisce la ninfa Cloris divenuta poi sua moglie come Flora, divinità che presiede il mondo vegetale. Al centro della scena, Venere, dea dell’amore e del rigenerarsi della vita, che nel richiamo religioso del gesto benedicente si volge a destra mentre sopra di lei si libra in volo suo figlio Cupido, e ancora, a sinistra, il gruppo delle Tre grazie impegnato in un’avvincente danza nuziale, seguito, a chiudere, dall’ultimo personaggio, Mercurio.
Questo, nell’interpretazione ripresa da Levi D’Ancona che ipotizza il dipinto concepito inizialmente, all’incirca nel 1476, per celebrare l’amore tra Giuliano dei Medici e Fioretta Gorini e modificato successivamente, con la raffigurazione di Mercurio e le Tre grazie al posto di un’allegoria del Giudizio di Paride (citato in una lettera di Marsilio Ficino all’astrologo Lorenzo Bonincontri), quando, dopo la morte di Giuliano ucciso nel 1478, nel corso della congiura dei Pazzi, venne completato come dono per il matrimonio del 1482 tra Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici e Semiramide Appiani. Tantoché l’autrice identifica Talia, la Grazia centrale cui Cupido, bendato, indirizza la sua freccia, come Semiramide: rivolta a Mercurio (Lorenzo), a sua volta con lo sguardo al cielo, a significare il trascorrere tra amore terrestre e contemplazione di Dio.
Un’altra lettera di Marsilio Ficino, questa volta del 18 ottobre 1481 a Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, illustra il significato delle Tre Grazie anche dal punto di vista astrologico, secondo cui le figure del lato sinistro dovevano rinviare al mese di maggio, data in cui era previsto il matrimonio Medici-Appiani. E molte delle piante raffigurate nella Primavera rivestono un significato particolare legato proprio al matrimonio, o ne richiamano, appunto, la data.
Come nella lezione di Ovidio, dalla bocca di Cloris, che sposandosi si rinnoverà in Flora, escono rose di primavera; mentre Flora indossa una veste bianca ornata da garofani (fiore del matrimonio) e fiordalisi (attributo della sposa felice), rose (amore trionfante) e fragole (seduzione e piacere sensuale). E porta al collo una corona nuziale di pervinche (il vincolo del matrimonio), myosotis (il ricordo) e, a simboleggiare amore eterno, un fitto intreccio di fiori di melograno e foglie di mirto, secondo la credenza che le due piante – così raffigurate anche da Francesco del Cossa nel suo Giardino d’Amore, parte del Trionfo di Venere a Palazzo Schifanoia a Ferrara – si amassero talmente da non saper vivere separate.
Nell’analisi dei fiori come chiave di lettura della Primavera vale tanto il dettaglio – come la pianta di antirrino, detta anche lanterna della fanciulla utilizzata per l’iniziazione delle giovani donne ai misteri dell’amore, raffigurata sotto la centrale delle Tre Grazie – quanto, a dare il senso dell’ambientazione generale e richiamare il Giardino delle esperidi, la presenza dell’arancio, emblema mediceo e al tempo stesso pianta della sposa. Nonché il luogo-tema del prato fiorito, sul quale Levi D’Ancora si esercita nel dettaglio.
Se, come si ritiene, l’interesse di Botticelli per il simbolismo botanico sembra potersi ricondurre anche alla traduzione in italiano della Storia naturale di Plinio da parte di Cristoforo Landino, pubblicata nel 1476, è dalla combinazione di una serie di piante, in questo caso raffigurate sotto la Grazia di sinistra, – euforbia, giglio e antirrino – che Levi D’Ancora legge un messaggio diretto a chi guarda: “guarda attentamente, affina la mente, vedi la luce”.
Mirella Levi D’Ancona, La Primavera di Botticelli. Un’interpretazione botanica, introduzione di Lucia Tongiorgi Tomasi, pp. 93, € 20.00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 11 Supplemento de Il Manifesto del 14 aprile 2024
Spazio reale o trasfigurato in proiezioni ideali, innesco narrativo o teatro d’iniziazioni, protagonista primo o aggregatore di caratteri e simbologie, volta a volta o in sintesi plurale, il giardino si fa largo nella sua proiezione in scrittura tra le pagine in florilegio di oltre cinquanta tra prosatori e poeti italiani convocati da Guido Davico Bonino nel suo volumetto ora riproposto per il Saggiatore La felicità è nel giardino (pp. 184, € 16,00). Impreziosito dal corredo di illustrazioni Art nouveau di iris, nasturzi e lillà ma anche glicini, ninfee e perfino zucchette decorative raccolte nel 1896 da Eugène Grasset nei suoi studi sulle applicazioni ornamentali delle piante, si tratta di una personale guida letteraria, come recita il sottotitolo, ad ampio spettro. Che include la trattatistica del Liber ruralium commodorum del giudice ghibellino Pier de Crescenzi che nella seconda metà del Duecento scrive sull’organizzazione di spazi, viste e funzioni dei giardini di re e d’altri nobili e ricchi, come la cronachistica del frate milanese Bonvesin de la Riva che equipara la Città celeste a un giardino pieno di colori e fioriture, senza turbamenti.
Nei diversi contesti culturali, giardino come paesaggio ideale, filiazione dell’Eden, dalla Genesi o nella variante dell’enciclopedista Fazio degli Uberti, in quella dell’Alighieri del ventottesimo canto del Purgatorio, ma anche per contrappunto nel giardino del Veglio della montagna descritto da Marco Polo. Poi, giardino come modello umanistico, snodo relazionale della “vita in villa”, utile, commoda, conveniente, come la codifica Leon Battista Alberti nel De re aedificatoria.
Tra descrizioni di giardini reali – in terra di Francia “i due orticelli adatti quant’altri mai al mio gusto” di un Petrarca che meticolosamente annota il suo diario botanico – e immaginari – quelle evocate da Boccaccio o esemplate per forme e modelli in quel catalogo di un giardino già rinascimentale che è il Sogno di Polifilo nell’edizione originale aldina del 1499 e attribuito a Francesco Colonna –, è invece un gioco di mutue rifrazioni a governare l’ingannevole continuum di pitture, giardino e viste sul giardino, raccontato da Vasari nelle Vite, riferendo della logge affrescate della Villa Farnesina.
Fitte le presenze vegetali evocate a costituire ecosistemi, quinte corali. Dal Giardino della viola dedicato a Isabella d’Este dal notaio bolognese Giovanni Sabadino degli Arienti, dove son “erbe olenti, mazorane [maggiorane], serpilli timi e salvie in pallidetta foglia … E da questo prato, passando in fra il mezzo delle murate banche, entrammo sotto un lungo pergolato voltato di vite con egregia arte, producente uve lugliatiche e moscatello: e dai lati sono rosari bianchi e rossi e osmarini e lavande delli cui fiori si fanno odorifere acque”. Al giardino di Careggi di Lorenzo de Medici, descritto da Alessandro Braccesi per come si presentava a inizio Cinquecento: dove assieme ai consueti protagonisti si registrano “pepe, garofano, basilico, nardo balsamico, mirra, loto, cicoria, cannella, cedro e la nobile canna profumata” . Mentre, tra allegoria e realistica descrizione da botanico dilettante, Manzoni scrive della vigna di Renzo come di una “marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene salvatiche, d’amaranti verdi, d’acetoselle …” .
Dalle pagine qui collezionate affiorano una serie di temi “giardineschi” come il rapporto con una natura reinventata, secondo la moda settecentesca del giardino paesaggistico all’inglese illustrato in Italia da Ippolito Pindemonte nella sua Dissertazione sui giardini inglesi , oppure la sensibilità al trascorrere continuo del giardino nel bosco – nelle memorie dello scrittore e patriota mazziniano Ippolito Nievo, e già in Sannazzaro che parla di una disposizione naturale degli alberi come se “maestra natura vi si fusse con sommo diletto studiata in formarli” . Ma anche la disputa sulla valenza produttiva o meno degli alberi, ed è il caso del napoletano Giambattista Marino nel suo Adone , oppure sul serrato convivere tra orti e giardini, come quando il granturco che straborda nelle aiuole più formali del giardinetto pensile che invece a immagine e similitudine del personaggio Franco, nel Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro, con archi rivestiti dalle passiflore dai grandi occhi celesti, cerca di contemperare gli “ideali orticoli del povero custode”.
Fino poi a lasciar intravedere, nelle descrizioni di un racconto milanese di Giovanni Verga, la dimensione cittadina e sociale, di rappresentanza, del giardino pubblico che si afferma, dove, nel folto del verde cantano gli uccelli e “sotto, nel largo viale, la città arriva ancora col passo affaccendato di qualche viandante, col lento vagabondaggio di una coppia furtiva” .
Tra protagonismi vegetali nel gioco dei ruoli, se nella seconda metà del Settecento Gasparo Gozzi metteva in scena un dialogo morale tra garofani rose e viole, e Leopardi in un brano dello Zibaldone raffigurava il giardino come “quasi un vasto ospitale e se questi esseri [vegetali] sentono, o vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere ”, nel racconto di Pirandello, Di sera, un geranio, il protagonista, cui è stato diagnosticato un male incurabile, desidererà soltanto, farsi erba, vasca, giardino .
Guido Davico Bonino, La felicità è nel giardino. Una guida letteraria, il Saggiatore, pp. 184, € 16, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 9 Supplemento de Il Manifesto del 31 marzo 2024
Nel novero di un incombente, ancora stentato processo di ripensamento dell’attuale visione del vivente dove mondo umano e universo animale e vegetale risultano ordinati secondo tratti di irriducibili alterità, come ambiti distinti e non comunicanti, può tornar buono considerare l’eco pervasiva degli usi culturali che gli antichi han fatto dell’albero nei loro racconti, miti, riflessioni, metafore, forme lessicali. Nel segno di evidenziare – pur nel vivo delle diffuse pratiche di sfruttamento intensivo di boschi e risorse naturali secondo logiche di controllo politico di territori e commerci – i tratti di un’ideale relazione reciproca che si sviluppa lungo un asse di continuità. Relazione di prossimità tra uomini e alberi di cui, in prospettiva etnobotanica, Mario Lentano evidenzia il rilievo nel protagonismo che pioppi, fichi, mirti, palme e cipressi, prugni e noci, viti, querce, cornioli, … si ritrovano a giocare nella cultura greca e soprattutto in quella romana, ambito privilegiato della sua indagine. Nel volume «Vissero i boschi un dì». La vita culturale degli alberi nella Roma antica, Lentano indaga infatti, nei più diversi domini, dalle biografie alla religione, al diritto, alla medicina, una gran varietà di pratiche discorsive, funzioni narrative, inneschi simbolici, forme lessicali, specialmente nelle fonti letterarie, nella storiografia, nella trattatistica (Carocci editore, pp. 257, € 24,00).
Si vien così profilando in filigrana per il mondo romano una possibile antropologia dell’albero, a partire da alcune sue affordances, volta a volta caratteristiche biologiche e ragioni empiriche, suggestioni onomastiche o valenze simboliche, specialmente efficaci nei processi di significazione.
Se la durata secolare del ciclo vitale di un albero, il suo proiettarsi a coprir d’ombra quel che lo circonda si prestano a rendere con immediatezza il progredire di successi di una città o di un impero, i modi della sua crescita, verso l’alto e in ampiezza, e il suo articolarsi per diramazioni successive risuonano tanto nel dispiegarsi in successione delle generazioni di un gruppo familiare, quanto come modello analogico inteso a figurare il progressivo determinarsi delle membra del bambino nel grembo materno.
Così, a partire da analogie funzionali o morfologiche, assonanze, usi linguistici (predicati come “vivere”, “essere in salute”, “invecchiare” attribuiti agli alberi) e le frequenti metafore vegetali nel campo della parentela, si riverberano nel nutrito lessico condiviso tra mondo umano e mondo vegetale. Come pure, nell’espediente narrativo del sogno, il ricorso a una metafora vegetale evidenzia il rilievo del compiersi di un processo, del divenire (piuttosto che, in quella animale, tesa a esprimere tratti della personalità).
A evidenziare la continuità tra vegetale e umano, oltre alle figurazioni del mito che, sotto il segno della metamorfosi leggono pioppi, cipressi, lauri derivare da esseri umani – da Mirra a Dafne, da Ciparisso alle sorelle di Fetonte –, specialmente donne, il filone dei racconti sugli alberi antropogonici e che nutrono l’umanità primitiva riconduce invece l’origine dei primi esseri umani a querce, frassini, ontani, allori, pini, progenitori vegetali che li avrebbero generati dal loro tronco, trasmettendo quasi in eredità una serie di tratti caratteristici.
Numerose evidentemente risultano le piante coinvolte nella sfera del sacro, in un rapporto di triangolazione come elementi dell’identità distribuita degli Dei. Mentre alcuni alberi son chiamati ad amplificare o presagire la vicenda di loro illustri corrispettivi umani: doppi vegetali implicati in un fitto rimpallo di simboli e metafore: principi e poeti (la fioritura prodigiosa di un ramo d’alloro e l’altezza strabiliante del pioppo piantato alla nascita di Virgilio), gruppi sociali (le alterne vicende dei due mirti di fronte al tempio di Quirino a figurare destini di patrizi e plebei), dinastie (l’appassire di un boschetto di allori a rivelarne la fine imminente, il risollevarsi di un cipresso abbattuto, a dire delle incipienti fortune di un’altra) e persino un’intera comunità politica (a rischio, con il disseccarsi di un fico o corniolo legati alla vicenda del fondatore di Roma).
Così, ripercorrendo tra analogie morfologico-funzionali e matrici di tipo genealogico, ruoli e funzioni assolte dagli alberi nel pensare il mondo dei romani, s’impone nel dibattito filosofico e scientifico il tema dello statuto da riconoscere ai vegetali fino a parlare anche per le piante di un’anima, come modulo iniziale di un processo per aggiunzioni progressive, comune a tutte le manifestazioni del vivente.
Nell’idea di un continuo trascorrere della materia tra le forme, uomini e vegetali son mondi separati non tanto da una differenza ontologica, quanto da passaggi tra confini porosi, tra elementi comuni che si caratterizzano per correlazioni biunivoche.
Pur tenendosi stretto alle categorie del mondo romano, e rifuggendo da presunti archetipi universali come pure da inattuali proiezioni, ben di qua del paradigma cartesiano, il mondo antico nella lettura di Lentano ci restituisce una particolare, opportuna, attenzione per un mondo naturale di cui siam parte in relazioni di prossimità diverse tra organismi viventi.
Al centro dell’orchestrazione della vita nei giardini, la dialettica luce-ombra vien spesso letta per abbaglio o strabismo tutta a vantaggio della prima. Mentre l’approfondimento della conoscenza delle molte fisionomie di quell’ombra che è componente essenziale, specie per quelli mediterranei, fin dall’archetipo dell’oasi, e tantopiù in vista dell’incombente riscaldamento climatico, innesca una gran ricchezza di spunti di lettura e occasioni compositive.
Si può trattare, per scelta, dell’intento di dar ritmo a un giardino soleggiato con pause, zone di quiete, riposo, riflessione, cui di solito si associa la presenza dell’ombra, tramite il filtro del fogliame delle volte di alberi che si intrecciano, pergolati, percorsi ombrosi o, invece, di dover trovare soluzioni compositive al vincolo indotto da contesti oscuri. Dagli angoli più bui dei giardini di campagna agli ambienti urbani dove, come spesso accade, all’esposizione modesta si somma l’ombra portata dalla densità del costruito. Rivestendo magari, con cascate di piante, cupi cavedi o spazi comuni, affacci di verde dagli open space degli uffici, patio, terrazzi interni che si animano di colonnati d’edera: e ciò per il tramite delle suggestioni ispirate ai giardini boschivi, con le loro complesse stratificazioni di piante in comunità, diversificate per condizioni di luce via via ridotte. D’altro canto, non è a caso, che della radura che interrompe l’ombra fitta della foresta si è parlato come occasione di innesco dei primi giardini.
Ombra fredda, piena, profonda. Penombra, mezz’ombra, ombra portata, filtrata, aperta, leggera. Diverse per qualità, densità, spessore e trasparenze, son le gradazioni che la paesaggista Laura Pirovano ci avvia a intravedere, percepire, discernere nel suo repertorio di Giardini d’ombra, e a saperne trarre partito compositivo, ispirazione (Libreria della natura, pp. 414 con ricco corredo fotografico di piante e contesti, € 32).
Ombre a macchie, sotto le volte di alberi dalle foglie rade, ombre lacunari, arcipelaghi d’ombra, ombre totali sotto chiome persistenti, ombre ai piedi di un muro o di una siepe, o in un cortile senza sole.
Ombre che però danno risalto, restituiscono tridimensionalità, creano profondità. Ombre come criterio di classificazione del tipo di piante. In particolare quelle che han finito per tollerare e perfino prediligere questa condizione. Ombrivaghe o sciafile, amanti dell’ombra e dell’umidità, hanno sviluppato foglie larghe, tondeggianti, appiattite, intensamente verdi, di molte tonalità di verde. Con forme articolate, perfino traforate, in certi casi riflettenti, per catturare e far passare tutta la poca luce disponibile. Con fioriture ridotte e la predilezione per le variegature.
Con la sapienza di queste alleate, in un giardino d’ombra occorrerà perciò accentuare il ritmo screziato dei pochi giochi di luce, orchestrando le variazioni tra forme, portamenti e architetture, e dimensioni, trame, tessiture del fogliame, moderando contrasti eccessivi, giocando sulla variegature, specie quelle color crema o argento, e procedendo per giustapposizioni cromatiche di colori chiari e delicati, in combinazioni assortite di begonia evansiana e persicarie, sassifraghe, anemoni, ajughe e farfugium.
Sullo sfondo di uno scenario di transizioni sempre scandite dal variar delle ombre, delle loro diverse temporalità, nel corso della giornata e dell’anno, e dalla costante proiezione in filigrana del loro alternarsi a passo di danza con la luce. In una risonanza così mirabilmente racchiusa nell’espressione giapponese komorebi, letteralmente “luce che filtra tra gli alberi” che fin dall’ultimo film di Wim Wenders pervade il trascorrere delle cose evocando la lezione della complementarità e dell’impermanenza, della costante mutevolezza, così cara ai giardini (in specie, quelli dell’ombra).
Laura Pirovano, Giardini d’ombra, Libreria della natura, pp. 414, € 32, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 5, Supplemento de Il Manifesto del 3 marzo 2024
Sempre al traverso, come gli è congegnale, tra analisi filologiche e affondi combinati di storia delle religioni e delle idee, mitologia, storia sociale e antropologia, il filosofo Massimo Venturi Ferriolo – già docente di estetica al Politecnico di Milano e grande maestro della riflessione sul tema del giardino – torna in questa raccolta Giardino & paesaggi. Scripta minora, sui suoi temi con alcuni inediti e nuove messe a punto (Librìa editore, pp. 185, € 16.00).
Oltre a insistere sulla valenza pedagogica del rapporto stretto tra paesaggio e narrazione, viaggio e conoscenza, con riferimento alle metodologie itineranti di indagine dei luoghi messe a punto nel quadro delle molte edizioni del Premio internazionale Carlo Scarpa per il giardino, capaci di ripercorrere i lasciti della memoria attualizzati però in un’etica del progetto contemporaneo che si misura in un accorto governo dei luoghi, Venturi Ferriolo torna qui a inseguire con nuovi elementi e lenti aggiornate le figure dell’equivalenza terra-giardino-Grande Madre-Maria.
Con uno sguardo lungo che rifacendosi all’antichissima comunione mediterranea tra mondo divino, animale e vegetale, e recuperandone anche gli strumenti di salvaguardia dei paesaggi e dell’ambiente, risale all’oggi approfondendo l’urgenza di una filosofia interculturale di paesaggio aperta al multinaturalismo e alle molteplici visioni della natura presenti nelle diverse cosmologie.
Se i paesaggi sono animati da margini e conflitti che li segnano – margini in relazione, piuttosto che identità – il giardino, da quello informale inglese del 700 che si apre agli esotismi, a quello, luogo d’incontro di rappresentanze botaniche universali nella lezione fondata sulla natura del novecentesco maestro modernista brasiliano Roberto Burle Marx, costituiscono un giro del mondo in uno spazio ristretto, che accoglie, visioni del mondo, rappresentazioni espresse in un linguaggio vegetale estetico.
Massimo Venturi Ferriolo, Giardino & paesaggi. Scripta minora, Librìa editore, pp. 185, € 16.00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 5, Supplemento de Il Manifesto del 18 febbraio 2024
Intervista a Nadine Schütz, artista del suono e paesaggista a cura di Andrea Di Salvo pubblicata su Il Manifesto del 18 febbraio 2024 in occasione delle Giornate internazionali di studio sul paesaggio organizzate dalla Fondazione Benetton studi e ricerche: Soundscapes. L’esperienza del silenzio e del suono nel paesaggio (Treviso, 22-23 febbraio 2024)
Assieme alla considerazione sempre maggiore riservata a una dimensione corporale del paesaggio che, oltre il “visuale”, si dilata in percezione e commistione polisensoriale, e dopo la lunga incubazione dei soundscape studies e relative analisi critiche, s’impone una complessiva riflessione sulla dimensione sonora dei paesaggi.
Merito del tema messo a sistema dalle Giornate internazionali di studio sul paesaggio che si terranno a Treviso oggi e domani presso la Fondazione Benetton, orchestrate da Luigi Latini, docente di Architettura del paesaggio allo Iuav di Venezia, e di Simonetta Zanon, rispettivamente presidente e responsabile ricerche e progetti della Fondazione
Sotto l’ombrello di un titolo ricco di echi e implicazioni, Soundscapes. L’esperienza del silenzio e del suono nel paesaggio, si annunciano interventi (che sipossono anche seguire on line) sul dibattito relativo alle estensioni del concetto di paesaggio nelle diverse variabili del sonoro, dai silenzi geografici a suoni e rumori della foresta, dalle isole di quiete restituite alle città al variare di gradiente di un margine rurale da attraversare in ascolto.
Alla luce di un interesse nuovo nei confronti della dimensione uditiva, l’attenzione è sui diversi, molteplici protagonismi nell’uso di codici sonori nell’esplorare e connettersi con l’ambiente, sulle valenze del silenzio tra suono e parola, sulla difesa degli ecosistemi dall’inquinamento acustico e il ruolo dell’ecoacustica nell’ecologia della conservazione del paesaggio sonoro.
Nell’incrocio di temi e prospettive – dall’ecologia del paesaggio alla letteratura, dall’architettura, al cinema, all’arte dei giardini – si affaccia il fondamentale contributo creativo e di riflessione teorica portato da esempi diversi di installazioni, performance e progetti acustici. Tra arte, scienza, progetto e divulgazione, dagli interventi di arte sonora site-specific nel Parco di Scania all’indagine dell’intersezione tra pratiche del giardinaggio e della creazione musicale, ai giardini sonori di Nadine Schütz.
Intervista a Nadine Schütz
Nel segno dell’approccio interdisciplinare, ormai una consuetudine per le annuali Giornate internazionali di studio sul paesaggio, oggi e domani a Treviso, presso la Fondazione Benetton studi e ricerche, convergono alla ribalta della ventesima edizione, in questa occasione intitolate a Soundscapes. L’esperienza del silenzio e del suono nel paesaggio, specialisti del campo, progettisti e ricercatori dalle competenze più diverse – ecologia, geografia, biologia, architettura del paesaggio, urbanistica. Ma anche artisti del suono e compositori.
Tra i protagonisti a confronto, interroghiamo Nadine Schütz, artista del suono di origine svizzera ed esperta di acustica del paesaggio, con base a Parigi, autrice di molte opere integrate in progetti architettonici, paesaggistici, urbani, nonché di ambienti acustici, installazioni temporanee, performances, scenografie e inneschi sonori progettati per musei, mostre e giardini. Modalità diverse attraverso cui esplora la dimensione sonora del nostro esser parte del paesaggio, distillandone strumenti di analisi e di intervento per confrontarsi con urgenti criticità ambientali.
Come lei sostiene, siamo perlopiù adusi a una lettura privilegiata, quando non a senso unico, di paesaggi e giardini attraverso lo sguardo. Una lettura che, pur nella sua presunzione d’insieme, resta comunque lineare, sequenziale. Mentre sottostimiamo quanto la dimensione acustica ci ponga invece in una interrelazione totalizzante, immersiva, con gli ambienti che abitiamo assieme con le altre voci del vivente. Cosa ci dice, in più, nella sua esperienza di progettazione del paesaggio e di intervento artistico, l’attenzione al sonoro che lei sollecita e che è al centro delle riflessioni delle giornate del paesaggio?Nei luoghi soliti della nostra esperienza quotidiana, come in quelli dell’arte?
La dimensione sonora dei paesaggi si rivela innanzitutto a livello dell’ascolto. Un ascolto che va oltre la semplice capacità fisiologica umana di ricevere e classificare le onde sonore. L’ascolto implica un atto empatico, un’attenzione verso gli altri, siano essi i nostri vicini o esseri viventi non umani o, ancora, quelle dinamiche naturali geologiche e atmosferiche che tendono a sfuggire al nostro senso del vivente. La particolarità della percezione sonora è in questo senso il suo carattere presenziale. Il paesaggio risuona qui e ora, in uno spazio-tempo condiviso e concreto. E per quanto noi sentiamo il canto di un merlo o il gorgoglio di un piccolo ruscello, sentiamo anche un suono tonale, melodico e articolato che scompare, appare e si muove con il passare delle ore, oppure un suono più rumoroso e continuo la cui presenza varia su orizzonti temporali molto più estesi, quello delle stagioni meteorologiche e degli anni climatici.
È a questa consapevolezza di condivisione spaziale e temporale obbligata che mi appello, ma anche a un’altra nozione di tempo, più complessa, quasi rinaturalizzata, che dà voce a cicli celesti e terrestri, meteorologici e organici. Allo stesso modo, l’ascolto del paesaggio ci porta a una nozione molto eterogenea di spazio, o meglio di spazialità. Il risultato non è soltanto una maggiore consapevolezza della diversità percettiva, ma anche un’intelligenza sensibile (naturale) che potrebbe aiutarci a condividere uno spazio limitato.
Penso che si tratti di aspetti strettamente legati al quotidiano, ma anche in grado di offrirci scoperte poetiche all’interno dei nostri luoghi abituali. I luoghi dedicati all’arte possono offrire un campo di sperimentazione allargato, ma l’arte può anche essere un modo per ancorare queste sensibilità nell’ambiente quotidiano.
Nei suoi progetti lei utilizza spesso tracce sonore, che sono esito dei luoghi ed espressione dei contesti dove si producono e vengono raccolti, come il vento, il sole o la pioggia, ma anche il passaggio di un treno, per restituirli in partitura così che divengano una forma musicale. Quale è la relazione tra la loro reale vita autonoma (i paesaggi che “involontariamente” ci additano) e la percezione che nei suoi progetti si innesca, magari con l’effetto di identificare, o creare luoghi inediti?
Nella mia tesi di dottorato Cultivating Sound – The Acoustic Dimension of Landscape Architecture (Coltivare il suono – La dimensione acustica dell’architettura del paesaggio), presentata al Politecnico di Zurigo nel 2017, ho esplorato l’idea che l’acustica sia una dimensione inerente elementi fisici del paesaggio che siamo abituati a modellare (topografia, vegetali, acque, ambienti). Accostando l’esplorazione acustica di questi elementi alle mie osservazioni sulla percezione del suono ambientale, ho potuto evidenziare il legame diretto tra sonorità e materialità. Mi sono anche resa conto di quanto la questione della generazione o della produzione del suono venga trascurata nei comuni approcci acustici architettonici e ambientali messi in atto nell’ambito della valorizzazione delle nostre città e dei nostri paesaggi. Da qui è nato un approccio ambientale che potremmo definire “strumentale”, presente in diversi miei progetti recenti.
In questo senso, le mie creazioni non riguardano tanto la partitura quanto il dispositivo musicale o sonoro. Come possiamo rivelare, trasmettere, tradurre o trasporre le molteplici voci del paesaggio senza al tempo stesso strumentalizzarle, ma piuttosto creando un dispositivo, un’interfaccia che permetta loro di farsi sentire, diventando esse stesse musiciste? Voglio creare esperienze in cui queste voci e sonorità del paesaggio diventino agenti. Allo stesso modo, invito il pubblico, le ascoltatrici, gli utilizzatori a diventare essi stessi coltivatori e coltivatrici del loro paesaggio sonoro, e non più semplicemente a subirlo, ma a entrare in dialogo attraverso un ascolto attivo, a remixarlo attraverso i loro corpi e movimenti, e a diventare parte di esso attraverso dispositivi sonori interattivi.
Il suo lavoro mira a rendere evidente il ruolo del suono in quanto dimensione centrale, intrinseca del paesaggio inteso come esperienza sensoriale immersiva e interattiva. Mira a rivelare le molte articolazioni di un suono spesso ridotto invece in modo binario a rumore o alla sua assenza, in una indicazione riduttiva di silenzio. Per questo, lei sembra proporre un nuovo lessico del paesaggio sonoro. Può farci qualche esempio di come risuona questo vocabolario?
Prendiamo la nozione di spazialità sonora, che preferisco a quella di spazio. Questa spazialità è ben lontana dall’essere un semplice contenitore. È una qualità percettiva a sé e un’impressione relazionale complessa. Riunisce i diversi domini dello spazio uditivo: sonotopico (sentire un suono vicino o lontano, dalla nostra sinistra o dalla nostra destra), spettro-temporale (percepire una distanza tra due suoni a causa della loro diversa composizione di frequenza e dinamica) e intersensoriale (sentire un effetto di raffreddamento quando si sente il fruscio delle erbe nel vento). In pratica, tenere conto di questa eterogeneità spaziale caratteristica del paesaggio sonoro ci permette di concepire lo spazio in modo più efficace. Considerando la differenza qualitativa come alternativa alla distanza metrica, ad esempio, aumentiamo lo spazio per una potenziale coesistenza, anche in ambienti urbani densi. La separazione spaziale ad opera di strutture fisiche lascerebbe così il posto a una differenziazione sonora, un approccio che probabilmente corrisponde meglio alla natura relazionale dello spazio pubblico e che chiamerei orchestrazione.
Un secondo esempio di vocabolario che gioca un ruolo centrale nelle mie ricerche è la nozione di vivacità. Le sottili interazioni di suoni che appaiono qua e là, vicino e lontano, trasmettono una doppia voce al nostro ambiente: una composizione dinamica di esistenze sonore multiple e singolari, che animano e rivelano collettivamente una distesa fisica con caratteristiche acustiche particolari e interconnesse. Se il paesaggio è sonoro, la natura è correlata a una presenza vivente, che potrebbe condurci a una comprensione più sfumata del silenzio dei nostri desideri come coscienza uditiva e relazionale, la consapevolezza e il coinvolgimento nella vita che ci circonda
Giornate internazionali di studio sul paesaggio 2023 organizzate dalla Fondazione Benettonstudi e ricerche, ventesima edizione: Soundscapes. L’esperienza del silenzio e del suono nel paesaggio, giovedì 22 e venerdì 23 febbraio 2024, Auditorium spazi Bomben, via Cornarotta 7, Treviso e online Intervista a Nadine Schütz a cura di Andrea Di Salvo su Il Manifesto del 18 febbraio 2024
Muovendosi a cavallo tra storia naturale e ambientale, ma con l’ambizione di integrare questi due approcci pur nelle relative, irriducibili specificità, la storia ecologica, ricompone le tracce delle fisionomie e dei processi di trasformazione dei paesaggi – comprese quelle impresse nei secoli dall’impronta dell’uomo – attraverso una pluralità di dimensioni spaziali e scale temporali.
Dai tempi geologici, lunghi o lunghissimi della tettonica alle variazioni dei cicli glaciali e interglaciali, fino a quelli più rapidi, biologici ed ecologici. Con un’attenzione in particolare alle interdipendenze tra diversi sistemi ambientali.
Difficile dunque il tentativo di catturare tali protagonismi in divenire, fluidi e che si configurano diversamente a seconda degli sguardi disciplinari con i quali li si intende. Tantopiù se si ritaglia come soggetto, seppur convenzionale, un continente.
Ed è quanto Emilio Padoa-Schioppa si propone nel suo La Storia ecologica d’Europa. Un continente nell’Antropocene, dove disarticola e riordina per ripercorrerle in caleidoscopio il contrappunto di visuali d’insieme e peculiarità che la compongono (Il Mulino, pp. 230, € 22,00).
Volta a volta leggibili in dimensione geografica, o in quella politica di insediamenti, ordinamenti e Stati, nella lettura geologica della divisione in placche, in quella delle carte bioclimatiche, e altrimenti nelle proiezioni di lingue, usi, culture. Da seguire fin anche nei segni tracciati in proiezione su altri continenti, fuor dall’Europa, con espansioni, invasioni di suoi popoli, morali, interessi. Ciascuna con cartografie di forme diverse e dai confini spesso sfocati (specialmente quelli orientali e meridionali), per un’Europa di cui raccontare la storia ecologica attraverso contesti e protagonisti. E quindi montagne, acque, foreste, isole, pianure, da un lato e gli organismi – come piante, animali e, buon ultimi, gli uomini – per il loro ruolo nel costruire e modificare i paesaggi, concorrendo alle dinamiche dei luoghi.
Mentre si sofferma su alcune peculiarità della storia naturale europea – in termini di specie, endemismi, eventi specifici, paesaggi particolari – poste in relazione alla scansione di grandi snodi correlati – estinzioni dei grandi mammiferi, avvento di agricoltura e domesticazione, globalizzazione economica e omogeneizzazione ecologica con l’apertura al nuovo mondo, accelerazioni, almeno quelle della rivoluzione industriale e del XX secolo – Padoa-Schioppa si concentra in particolare sul tempo recente degli ultimi 10.000 anni, quindi sull’interrelazione stretta tra fattori naturali e agire dell’uomo. Testimoniando nella sua analisi, come, con tutte le evoluzioni di significato del primo termine e la pluralità di accezioni del secondo, l’ecologia del paesaggio proceda nel suo trasformarsi da scienza descrittiva in direzione e dimensione quantitativa e predittiva.
In un intersecarsi di variabili e approcci, dall’influenza del clima nell’indirizzar paesaggi, faune e flore, all’impronta umana legata a una agricoltura che modifica habitat e suoli, altera cicli biogeochimici, modellando società, si trascorre alla zoogeomorfologia che studia i modi in cui gli animali posson cambiare i paesaggi, nonché al ruolo che nell’immaginario collettivo essi svolgono per come contribuiscono a dargli forma, e all’”inquietudine migratoria” che caratterizza noi umani, con i suoi derivati, l’iperurbanizzazione e le nuove sfide ecologiche connesse, i paesaggi dell’energia così dirimenti in questa fase di transizione.
E se si evidenzia così da un lato come in buona misura è a partire dalle grandi, più recenti trasformazioni, avvenute proprio in Europa, che ci stiamo inoltrando nell’Antropocene, la buona nuova e che, essendo perlopiù umana la responsabilità della crisi ambientale dovrebbe esser possibile se non invertir direzione, almeno variare, e, talvolta, astenersi.
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