Informatico, poeta, etnobotanico, oltreché gran conoscitore di piante e droghe psicoattive, nonché sperimentatore su di sé dei loro effetti, che così ci descrive in prima persona, Dale Pendell, si è mosso per anni a cavallo tra ricerca scientifica su fisiologia e poteri venefici delle piante – tutte le sostanze derivate da quelle che lui descrive agiscono sul corpo umano come droghe, quindi come veleni –, e la prassi dei loro usi storici e culturali, dallo sciamanesimo alla creazione artistica, per via di mitologie, condivisioni con demoni, poi dall’antropologia all’erboristeria, dall’etnobotanica all’etnofarmacologia fino alle neuroscienze. Indagando in particolare l’intersecarsi tra composti psicoattivi derivati da quelle distillatrici esperte di sostanze chimiche che sono le piante, e, oltreché insetti e uccelli, tra gli animali, specialmente gli umani. Una relazione, quella tra umani e popolo delle piante, che esiste in ogni parte del mondo sin dall’antichità, dalle “felci frattali” alle “rose algoritmiche”, di cui evidenzia le forme e la dimensione di alleanza, in particolare con le piante maestre, nonché il riconoscimento a esse di uno statuto di soggetto.
Dopo la traduzione in italiano del primo e del terzo volume della serie Pharmako, rispettivamente dedicati a Poeia Veleni e arti erboristiche e a Gnosis, su allucinogeni e piante visionarie come ipomea, funghi psilocibina, peyote, Mimosa hostilis, la trilogia di Pendell si completa ora conPharmako/Dynamys.Piante eccitanti, pozioni e la via venefica, traduzione di Anita Taroni e Stefano Travagli, (ed. or. 2002), add editore, pp. 307, € 25,00.
Empathogenica, come noce moscata, MDMA, Ecstasy, GHB, ma soprattutto Excitantia – caffè, tè e cacao, collocate nel loro contesto storico, per come quasi contemporaneamente arrivarono in Europa verso la fine del 600, con al seguito zucchero per addolcirle e un Voltaire che Pendel definisce “il quintessenza dello sciamano del caffè”, nonché poi in relazione con l’affermarsi dell’industrializzazione – ma anche mate, Cola nitida, betel, canapa gialla, khat, Erythroxylum coca.
Come in un’assortita guida di riferimento si susseguono e intersecano indicazioni botanichee di proprietà terapeutiche, tassonomie e informazioni pratiche (la parte usata della pianta, il modo di assumerla e le descrizioni degli effetti, composizione chimica della sostanza che ne deriva, indicazioni farmacologiche), ma anche note etnobotaniche, citazioni bibliche, letterarie, ragionamenti su Questioni di stato e libertà, dipendenze, implicazioni storiche, effetti sociali dell’uso degli psicoattivi.
Ad ogni pagina, un catalogo di poesie, citazioni, illustrazioni, che vanno da Goethe a Edgar Allan Poe, al poeta amerindio Tlaltecatzin, da Bruegel a Dürer a Max Ernst, passando per foto etnografiche, diagrammi chimici, maschere rituali, poster, tappeti. Continuamente ci si perde e ritrova in una selva di corrispondenze, liste, classificazioni magiche e formule divinatorie, racconti di sperimentazioni personali, illusioni, saperi indigeni, incontri con piante maestre, persone-albero.
Se l’editore raccomanda di contestualizzare conclusioni e affermazioni alla personale visione del mondo dell’autore, che per parte sua avverte il lettore della struttura “tridimensionale e olografica” del testo, di certo, Pendell, consapevole che “i libri stessi sono veleni”, nel suo stile evocativo che procede tra virtuosistica erudizione e scrupolosa, autoironica pratica alchemica, scienza, folklore e poesia, tenta a ogni passo di incorporare la dimensione della coscienza nell’approccio della tradizione scientifica.
Nella costruzione del testo, in interlocuzione serrata con quella dell’autore si intromette – segnalata in corsivo – la voce della pianta-farmaco: l’Alleata. Se voci diverse evocano molteplici letture e livelli di analisi dell’opera, alla maniera di una sorta di alchimista, sciamano e poeta, oltreché ricercatore, Pendell consulta qui e fa parlare piante e sostanze alteranti in quanto alleate. Affermando come con le loro molteplici abilità trasformative, insite nella natura ambivalente dell’esser pharmakon, rimedio e veleno assieme, costoro risultino perciò interlocutrici a pieno diritto in un dialogo aperto tra diverse soggettività.
Dale Pendell, Pharmako/Dynamys.Piante eccitanti, pozioni e la via venefica, traduzione di Anita Taroni e Stefano Travagli, (ed. or. 2002), add editore, pp. 307, € 25,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 3, Supplemento de Il Manifesto del 21 gennaio 2024
Orto Botanico – Roma, 17-18 gennaio 2024. In onore di Franco Zagari Questo è paesaggio Intervento di Andrea Di Salvo
La valenza tutta politica e vorrei dire sovversiva del paesaggio emerge rivelata dalle tante preziose bellezze che indossa come anche dalle tante cicatrici che scopre. Valenza politica da leggere tanto nell’urgenza degli avvenimenti dell’oggi quanto nella placida irrequietezza, di quei tempi lunghi che ci è così difficile assumere come misura
il Paesaggio è questione politica e, proprio nella sua irriducibilità a definizioni chiuse con cui Franco ha da sempre condotto il suo corpo a corpo, è uno strumento che ha la plasticità per interagire, davvero, con la complessità di un reale in continuo divenire.
Interagire, come forse non riesce più tanto la politica, per come almeno la abbiamo a lungo pensata (Collana Habitus, Deriveapprodi editore).
Per rendersi conto della pervasività con la quale vien chiamato in causa il concetto di paesaggio, basta verificare frequenze di utilizzo e occorrenze del termine in tanti ambiti diversi. Un utilizzo che quasi sempre finisce però per esser precisato, declinato…con un aggettivo. O molto spesso per essere impiegato in senso traslato. Paesaggio urbano, paesaggio sonoro, paesaggio interiore, della guerra, paesaggio del vino, paesaggio educativo, paesaggi dell’aldilà
I rischi più evidenti sono la perdita di pregnanza e la sovraesposizione. Sempre più spesso al paesaggio si chiede di prefigurare per supplenza un modello sostitutivo di società verso cui orientarsi. Altro rischio è la tendenza all’accaparramento in esclusiva del paesaggio, una ortodossia dell’uso da parte di alcuni (rischio dal quale ovviamente, non vanno esenti neanche i paesaggisti).
Quindi, paesaggio come questione politica. Ma le crisi che di questi tempi constatiamo numerose, spesso esito di una globalizzazione che procede omologando e che al tempo stesso però frammenta e sradica territori e singolarità, queste crisi son prodotte non tanto dall’uomo in astratto (quello dell’antropocene), quanto da specifici modelli di dominio storicamente determinati.
Il paesaggio ci aiuta aInterrogarci su cosa oggi qualifichi il nostro con-vivere, il nostro abitare, cosa costituisca il nostro ben essere. Domande che abbiamo finito per porci sempre più di rado. Forse considerandole ovvie. Perché immersi in una dominante dimensione produttivo-consumistica, che finisce per assecondare lo status quo, pretendendoci semplici consumatori, osservatori passivi.
La vitalità euristica, conoscitiva, del paesaggio, resta invece legata al suo esser generatore di interrogativi, piuttosto che non risposta univoca.
Credo siano parole di Franco Zagari, o da lui ispirate quelle che auspicano un approccio non tanto teso a risolvere i problemi, quanto a lavorare ai loro margini: “porsi accanto” a un processo cognitivo dove intuito e esperienza giocano in armonia nell’elaborare … in base a ibridazioni e incertezze; “spostare” i termini di lettura da piani consueti a piani creativi.
Per altro verso, il paesaggio, come sempre Franco più occasioni ci ha in mostrato nella pratica, non può mai dirsi neutrale.
È questione politica – e, proprio per questo, presuppone di affermarsi soltanto insieme al diffondersi di una “cultura del paesaggio”. Cultura del paesaggio che presuppone una educazione alla consapevolezza del paesaggio. Consapevolezza non scontata, anzi tutta da enucleare e alimentare
A fronte di un analfabetismo che malgrado tanti sforzi nell’ambito della formazione, superiore, tecnica e universitaria, nell’universo comunicativo di studiosi e appassionati sui più vari media e sui territori, in alcune filiere del florovivaismo, nell’attivismo dei singoli e delle associazioni, si misura dal rilievo – diciamo così – e dalla presenza del tema del paesaggio nel senso comune, perlopiù nelle cristallizzazioni discorsive che lo riducono a oggetto di conservazione e decoro, valorizzazione; marketing, marchio per identità di luogo, volano per consumi culturali, ostaggio di leggi e decreti applicativi che ne ignorano le grammatiche e la sintassi del progetto.
Come avviene per le piante (che riusciamo a vedere soltanto come uno sfondo indistinto su cui si stagliano protagonismi altri) così pure, si può parlare di cecità del paesaggio. Di un analfabetismo, anche affettivo nei suoi confronti. Con l’aggravante della distorsione di vivere ormai buona parte del nostro percepire il mondo attraverso uno schermo.
Il paesaggio si fa carico invece di una dimensione sempre più spesso omessa. Quella corporale, Il rapporto diretto, immediato, fisico con gli elementi sensibili del mondo terrestre. Il paesaggio è esperienza polisensoriale. Prima di vederlo, noi abitiamo un paesaggio. L’esperienza sensibile del paesaggio si dilata oltre la concezione puramente “visuale”. Per quanto tutt’ora egemonica. Occorre considerare l’intrinseca psichicità del movimento che non accetta separazione tra sensoriale, motorio, cognitivo. L’invito è a considerare una spazialità del contatto, della partecipazione con l’ambiente esterno (Besse). Mentre si parla di Mindscape (Lingiardi). L’esperienza del paesaggio è un’esperienza primaria, che accade nel corpo, precede il linguaggio. Perciò il paesaggio è una delle fonti di quel sapere implicito che vien prima della coscienza e della ragione, generatore di Habitus (Regni). Abitare un paesaggio è condizione del nostro stare al mondo. farne parte significa che lì attingiamo la nostra identità
Siamo Corporalità in movimento.
Dalla vita cellulare totipotente alle molte contemporaneità del paesaggio di cui ci dice Massimo Venturi Ferriolo, tutto è movimento. Anche se su scale e velocità tra di loro diversissime
Certo, corporalità in movimento, in relazione a un punto di visuale. Con una metafora abusata si può ben evidenziare come, se il mondo visto dal finestrino di un noi in movimento accelerato ci sembra che fugga sempre a gran velocità, questa condizione va assieme alla fissità del vincolo del punto di vista. La fissità obbligata dello sguardo [a gran velocita non ci possiamo auspicabilmente distrarre] e del dover continuamente riconfigurare in un senso, in una sintesi di senso ciò che andiamo vedendo consapevoli che molto in ogni caso sfugge: in una obbligatoria accettazione del limite.
Rallentando…, si tratta di quel che vien chiamato sapere paesaggistico (Besse), qualcosa di più di un’intelligenza pratica quotidiana del mondo e dello spazio, una familiarità fondata sull’uso.
Quel che si diceva prima è che occorre portarla a consapevolezza. Fino a attingere una responsabile consapevolezza del nostro scegliere ad ogni passo una direzione: agire comunque, anche se talvolta vorremmo illuderci che a ciò è possibile sottrarci – il famoso quanto costa non fare, di Franco Zagari.
Tutta fondata sulla relazione è quindi una possibile, auspicabile etica dell’azione del paesaggio – che alcuni ritengono addirittura “consustanziale al paesaggio” (Brunon). Un’azione-reazione, un tipo di corrispondenza che per il tramite del paesaggio (prima ancora, del giardino) intratteniamo con il mondo. Una relazione paesaggistica che lega in modo interattivo e interdipendente società e paesaggio, le cui pratiche implicano una tessitura continua di connessioni tra noi stessi, le nature del vivente, il territorio.
Così, Il tema del paesaggio (e del giardino) irrompe nell’ambito delle ricerche che variamente si rifanno agli Environnemental studies che nell’analisi della società intendono includere il non umano: in un dialogo fra vari generi di persone: alcune umane, altre non umane, persone senza differenziazioni ontologiche gerarchiche. Un dialogo basato piuttosto su parentele e solidarietà che non su separazione e dominazione, fatto di pratiche che, sperimentando un continuo, inesausto negoziato, sempre alla ricerca di equilibri, definiscono appunto un modo di essere al mondo nei termini relazionali di un mutuo determinarsi attraverso attenzione e reciprocità, una mutua “rispettosa amicizia”. Persone tutte: come quando, quasi a farsi teatro (Turri), il paesaggio, allargato ad agenti umani e non umani, esprime e sintetizza la trama di queste relazioni, ospitandole. Ma essendo al tempo stesso interprete e implicato co-protagonista lui stesso, in qualità di paesaggio-soggetto, con una sua qual certa autonomia, cui riconoscere statuto personale.
Tra le tante lezioni di Franco ritorna spesso l’invito a partir sempre assumendo le molteplicità del paesaggio: di questo sistema vivente di relazioni sempre in divenire, al tempo stesso strumento di lettura dell’insieme, opportunità del convergere di pensiero e azione, sfida tesa alla costruzione progettuale, sociale, politica. Mai neutrale. E, oltre l’incrementale ansia definitoria – spesso pervasa da una nota lieve di fertile ironia – l’invito di Franco Zagari all’accettazione anche dei tratti contraddittori di fisionomie stravolte. E quello a considerare il paesaggio nel suo continuo evolversi, trasformarsi e quindi nella sua costitutiva contemporaneità. Contemporaneità che Franco ha contribuito a render viva, attuale, in un gioco continuo di bilancio e rilancio. Con la sua spiccata vocazione alla sperimentazione (che Franco condivideva con il paesaggio), il suo muoversi sul confine di diversi saperi; il suo piacere di ibridare esigenze, vocazioni, narrazioni, senso condiviso, autorappresentazioni, linguaggi della contemporaneità, suggestioni delle arti.
Ma sempre in un procedere che privilegia lo studio delle relazioni più che non dei singolari oggetti in sé.
E sempre affinando il prediletto grimaldello del progetto: strumento-estensione-evoluzione plastica, che concorre a strutturare la percezione e il pensiero umano per modificar l’ambiente: si potrebbe dire: qualcosa che viaggia sullo stesso filo di quello stretto, ancestrale rapporto mano-pietra (che, secondo l’archeologia cognitiva di Lambros Malafouris, presiede alla fabbricazione di selci come strumenti litici da parte dei nostri progenitori).
Ma qui mi fermo. Sarà meglio. E vi saluto con alcuni versi di una poesia di Valerio Magrelli che ogni volta mi fa pensare a Franco, in tanti modi diversi: è parte di un testo apparso in Nature e venature, del 1987. Versi che isolo a partire da uno strumentale riferimento al fumo. Fumo che però, in questo caso, evoca piuttosto, l’aura di ciascuno, la nostra anima, e di certo il nostro anelito. Versi che dicono
Io cammino fumando e dopo ogni boccata attraverso il mio fumo e sto dove non stavo dove prima soffiavo.
Il titolo della poesia recita E mi meraviglio E questo sorprenderci, sempre in un altrove rispetto a dove lo si aspetta, era per me il tratto più “rasserenante”, anche affettivamente parlando, di un Franco che si sperperava spesso con lieve grazia gratuita
Dall’attenzione alle variabili del microclima che la coltivazione accorta di ogni giardino impone, a quella per la vita del suolo che lì calpestiamo – un ecosistema dinamico di microrganismi, funghi e batteri –, fino alla consapevolezza delle fisionomie botaniche delle piante che decidiamo di trapiantarvi – e quindi dell’habitat di provenienza di cui occorre tener conto –, la lezione del giardinaggio comporta un continuo sguardo interrogativo che dalla relazione quotidiana con la vita vegetale si dilata alla conoscenza dei meccanismi sottesi al dispiegarsi del vivente in quest’artefatto dove tentiamo di orchestrarli al passo della nostra immaginazione.
Con spirito pratico e il piglio dissacrante della divulgazione di tradizione anglosassone, Stuart Farrimond, ci conduce a indagare come La scienza del giardinaggio rivesta un grande ruolo in ogni piega delle sue attività (Dorling Kindersley-Gribaudo, pp. 224, € 26,90).
Mr Digwell’Gardening Book, anni Cinquanta
Dalla fisiologia vegetale al suolo osservato in relazione alla sua struttura, acidità, dalla fotosintesi al programma del seme e ai suoi fattori di sopravvivenza, vengono via via ripercorsi i meccanismi sottesi: cicli della dormienza (proteine che bloccano la crescita, endodormienza), con un controllo di sicurezza che evita loro di ripartire troppo presto, capacità meristematica di riprodursi per via vegetativa (a prescindere dalla via dei semi) da cui la passione dei giardinieri per le talee, ragioni della diversità della scelta dei colori dei fiori in relazione ai diversi impollinatori con cui le piante son coevolute, quelle del fenomeno dell’alternanza di produzione dei fruttiferi tra annate molto produttive e raccolti scarsi, il meccanismo che consente alle piante che fioriscono soltanto a maturità, dopo molti anni di vita, di calcolare il passare delle stagioni necessarie. E così, a seguire.
A corredo, i protagonisti della chimica, l’acido abscissico rilasciato dalle radici come segnale che il terreno è troppo secco o la capacità delle piante rustiche di affrontare il freddo intenso trasformando l’amido immagazzinato in zuccheri e producendo proteine antigelo (ragione per cui alcune verdure con il gelo hanno un sapore più intenso).
In un contesto dove sempre più vengono rilevate le forme di intelligenza di piante in grado di percepire l’ambiente, svolgere compiti complessi, comunicare, nonché i ruoli sociali e civili assolti dal giardino – dai suoi effetti terapeutici al rilievo della presenza del verde molecolare nelle aree urbane, con i noti vantaggi di assorbimento di inquinanti nell’aria, riduzione delle isole di calore, raccolta e rallentamento del deflusso delle acque delle precipitazioni estreme, costituzione di corridoi verdi come rifugio di vita animale e vegetale, piccole galassie, dagli insetti agli uccelli, organismi del suolo aperto – è proprio nel giardino che in dimensione di pratica immediata vanno affermandosi una serie di idee e sperimentazioni – anche estetiche. Che prospettando un cambio di mentalità e l’assunzione di pratiche e saperi volti a cooperare con la natura, comprendono il ritmo delle successioni naturali e si ispirano alle associazioni tra specie in natura, le consociazioni, tendono all’autosufficienza, alla conservazione e al riuso, ispirati alla circolarità.
Consentendo all’irrinunciabilità dell’uso della nomenclatura latina, Stuart Farrimond dispensa consigli ragionati su tagliare o meno i fiori appassiti, dare il giusto peso alle piante autoctone – definizione certo non univoca – pure meglio sincronizzate con il clima e l’entomofauna locale, valutarne opportunità e modi della potatura a partire dall’illustrazione dei meccanismi che vengono così indotti. E, sempre scientificamente, vengono sfatate una serie di leggende del giardinaggio, dal fatto che i frammenti di coccio alla base delle piante favoriscano davvero da soli il drenaggio senza calcolare la tensione superficiale dell’acqua che la fa aderire ai pori del substrato, o di quanto l’aria risulti depurata dalle piante negli appartamenti, a meno che non ne ospitiate alcune centinaia. Mentre certo, il diffuso vezzo di parlare con loro, visti gli alti livelli di anidride carbonica emessi dal respiro umano potrebbe, oltreché rassicurarci, esser affatto gradito …per la loro fotosintesi.
In un contesto di piena crisi ecologica, dominato ormai da preoccupazioni, ansie climatiche, sensi di colpa ambientali, nostalgie per ecosistemi a rischio o già scomparsi, si afferma seppur per barlumi la consapevolezza di dover ripensare forme e categorie interpretative dei modi in cui condividiamo il pianeta con molti soggetti non-umani, altre specie di viventi, ma anche entità litiche, acquatiche, atmosferiche.
Riprendendo il titolo di un breve testo dove Italo Calvino dà voce a una roccia che in soggettiva restituisce il suo punto di vista sul mondo, Federico Luisetti, nel solco degli studi post umanistici, proprio a partire dalla soggettività litica prende in conto il campo relazionale dove gli esseri umani si definiscono attraverso il loro rapporto con il mondo non umano. Una ecologia della vita che mette in crisi la distinzione tra quella organica e l’esistenza inorganica (Essere pietra. Ecologia di un mondo minerale, Wetlands, pp. 112, € 16, 00).
Una visione della natura dove presenze naturali come montagne, fiumi e foreste vengono sussunte nel concetto antropologico degli esseri-terra. Soggetti politicamente rilevanti, con capacità di agire, esistenze multiple dai tratti compositi, risultanti della sfera naturale come pure catalizzatori di mitografie e rituali, simbolici e politici, entità non umane da considerare – assieme alla natura composta degli altri esseri viventi, animali, piante, funghi – soggetti ecopolitici. Montagne e ghiacciai, parte del mondo abiotico, ma anche corpi geologici, massi erratici, concrezioni sferiche di arenaria, pietre sacre, sassi modellati da fiumi.
Dalle pietre scheggiate del paleolitico – che secondo l’archeologia cognitiva di Lambros Malafouris, nel rapporto stretto mano-pietra della fabbricazione degli strumenti litici hanno strutturato la percezione e il pensiero umano per modificar l’ambiente – ai lapidari, dalle rocce sacre che fin dal neolitico accompagnano la vita quotidiana e alimentano connessioni simboliche e pratiche cerimoniali alla più recente Land art, l’universo litico, con il suo persistere oltre la misura dell’umano ha da sempre significato anche nell’ambito della cultura occidentale (e ben altrimenti in Oriente) una imprescindibile alterità. Passando per miti di creazione, sistemi cosmologici e leggende di pietrificazione, minerali rari per colori e luminescenza, pietre animate, quelle della tradizione classica, del trattato di Teofrasto, della cultura popolare, che ritrovano la strada o che ricrescono se vengon seppellite, l’homphalos di Delfi, la pietra nera della Mecca o quelle della Teogonia di Esiodo, le concrezioni sferiche di arenaria, le pietre sacre dei lacota…
Soggetti non biologici la cui esistenza contempera inconciliabilità nell’essere e mette in discussione la concezione biocentrica della vita e della persona, soggetti che peraltro resistono all’estrattivismo planetario della globalizzazione neoliberale della natura, come confermano tante lotte e politiche indigene contro le privatizzazioni dei beni comuni dagli anni 80 di acqua foreste terreni agricoli e sottosuolo in cambio del credito o della riduzione del debito.
Alternativo al paradigma della competizione tra individui biologici autonomi, è l’approccio multispecie e collaborativo della simbiosi universale dove agli organismi biologici si riconosce un’identità composita che supera confini tra specie e individualità. E non è un caso che diversi innovativi studi recenti su intelligenza, socialità e sensibilità delle piante insistano sul tema della comunicazione tra specie, in un consesso della vita dove si è piuttosto parte di alleanze e scambi orizzontali.
D’altro canto, questa indistinzione, assieme all’allargamento agli esseri non umani di una soggettività politica, e quindi di una personificazione giuridica della natura “senza distinzioni tra esseri organici e inorganici specie origine” come recita la Dichiarazione universale dei diritti della Madre terra (2010) che apre la strada al riconoscimento di diverse formazioni naturali come entità viventi dotate dello status giuridico di persona (il Gange riconosciuto dall’Alta corte giuridica indiana, il dibattito sul ghiacciaio francese della Mer de glace, il conferimento di personalità giuridica ad un ecosistema come la laguna costiera del Mar Menor in Spagna nel 2022) si scontrano con la nozione occidentale di persona che a partire da un rigido fondamento biocentrico fatica ad attribuire una soggettività politica autonoma a entità quali piante o pietre.
Con la loro dimensione ibrida e irriducibili alle forme di individualità caratteristiche degli organismi biologici, gli esseri-terra, mettendo in relazione mondi tra loro diversi, obbligano a ripensare la frattura tra natura e società operata da un pensiero coloniale ed evidenziano la dimensione relazionale del mutuo determinarsi – tra esseri naturali, umani, formazioni geologiche, entità inanimate – attraverso pratiche fondate su attenzione e reciprocità.
Così, essere soggetti ecologici, sociali e politici ed essere persone “sono esperienze che non coincidono”.
Declinati fin dal titolo in climax percorribili anche al viceversa, argomenti come giardino, città, paradiso, utopia – e natura –, individuano ambiti e genealogie di senso che nel volume di Alessandro Carrieri per Mimesis vanno poi a disporsi tra loro in tensione dialettica come in una sorta di incrementale gioco ricombinatorio (Urban eden. Giardino Città Utopia, pp. 236, € 20,00).
Il giardino come costrutto sociale, oltreché nella sua dimensione estetica, con il dibattito al seguito sul suo insopprimibile carattere politico; come luogo privilegiato di meditazione nei giardini monastici; in quelli officinali e poi botanici occasione di innesco di una rivoluzione dello sguardo; come luogo consono alla riflessione, alla creazione artistica, spazio della memoria, ma specialmente segno, metafora, esibizione del potere. Incluso quello di dominare la natura. Una natura le cui potenti valenze magiche e simboliche paiono condensarsi in quella foresta dove nasce lo spazio della soglia, del limitare; che, nell’incessante tentativo umano di comprendere, ricomporre il caos, si ritroverà depotenziata, ma ordinata, nel giardino, e per contrapposizione identitaria sarà spesso chiamata a definire proprio quella stessa città che in buona misura, a sua volta, se non è proprio dal giardino che mutua elementi e struttura, certo con questo li condivide. E mentre la progettazione vieppiù formale del giardino si accorda alle simmetrie architettoniche urbane, con l’integrazione che va stringendosi tra città e contado, è ancora sul giardino, mediatore tra costruito e paesaggio, che fa perno la teatralizzazione della natura intera.
In realtà, qui, città e natura, paradiso e giardino sono enunciati diversi riconducibili però a un medesimo desiderio di ordinare l’esistente, a un’insopprimibile tensione tutta umana a progettare il proprio ambiente di vita (e quello degli altri), al rimpianto costitutivo di un primigenio luogotempo felice – condizione ideale, immune da preoccupazioni e lavoro, con annessa nostalgia di un paradiso perduto che non sappiamo smettere di provare a ricreare.
Jardins de Marqueyssac, Perigord, Francia
In una dimensione utopica cui tendere e con la quale misurarsi nel segno ancipite della propensione dell’uomo alla cura del tessuto di relazioni di cui è parte e al tempo stesso di un dominare, controllando e manipolando l’ambiente naturale per sfruttarlo strumentalmente come spazio produttivo.
Dal “giardino architettonico che si trasferisce nell’urbanistica” a quelli botanici e zoologici, di epoca e risonanza coloniale, la dimensione funzionale finisce per farsi prevalente, mentre nella pianificazione urbana esigenze di salute pubblica si associano a propositi di controllo sociale tanto negli interventi haussmaniani di embellissement stratégique, come nei progetti di città-giardino.
Con l’affermarsi dei più recenti processi di standardizzazione di un’urbanistica tecnocratica che privilegia su tutto la circolazione di merci e capitali, tra psicosi securitarie, retoriche da smart-city, affermarsi di disuguaglianze socio-spaziali e gentrificazioni, la natura finisce surrogata al più nel decoro, neutralizzata, ridotta a elemento disciplinato e burocratizzato di arredo urbano; oppure relegata nella riserva protetta delle attrazioni a pagamento; o ancora rimasterizzata da realtà virtuali o aumentate che siano come fantasmatica tecno-natura.
Per quanto, spesso in pochi metri, il giardino ci ricorda l’evidenza del nostro dipendere dall’universo nonché l’indispensabile necessità di confrontarci da presso con la complessità di relazioni con il vivente entro cui siamo immersi. E se l’inquietante dissociazione tra uomo e natura che nell’attuale profilarsi del disastro ambientale si manifesta anche nella crisi della vocazione del giardino come cura, rischia di intaccarne anche la tensione utopica che da sempre ne alimenta l’idea, quella di immaginare e concepire possibili alterità, ogni giorno in giardino fissa l’orizzonte indifferibile di una nuova sensibilità, di un’etica che, intanto, nella pratica è già habitus, intrinseco agire politico.
Alessandro Carrieri, Urban eden. Giardino Città Utopia, Mimesis, pp. 236, € 20,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 47, Supplemento de Il Manifesto dell’11 dicembre 2023
Parco delle sculture di Franciacorta, Erbusco (BS)
Fin nel linguaggio metaforico e figurato si segnala l’affermarsi in diversi ambiti della riflessione critica di una nuova centralità del tema della vita, con l’allargarsi del riconoscimento dello statuto di soggetti anche a entità non umane – animali, fiumi, territori, suolo. Il tema della relazione tra vita, spazio e potere torna così, oltre il registro organicistico, anche nel disegno della città e del territorio. La spazialità intrinseca della vita, che spesso resta sottintesa, ritrova il profilo di una soggettività attiva, dove lo spazio non è più tanto merce, risorsa da utilizzare ma, appunto, capitale collettivo, soggetto agente.
Tra le premesse di questo processo sta la potente lettura foucaultiana di uno spazio dove l’articolarsi della vita biologica si dispiega e ricombina in strategie e relazioni di potere, spazio di corpi che assieme gli danno forma e ne sono condizionati.
Pur segnalando il rischio di un uso inflazionato del concetto di biopolitica, e allargando i temi foucaultiani – disciplina, sicurezza e governamentalità – all’ecologia profonda e all’emancipazione del soggetto, quindi alla possibilità di una politica della vita volta a sé, una biopolitica affermativa, Paola Viganò, docente di Teoria e progettazione urbana a Losanna e allo Iuav di Venezia, ma anche progettista e realizzatrice di molti interventi di trasformazione, anche a scala territoriale, riprende questo strumentario nel suo ultimo libroIl giardino biopolitico. Spazi, vite e transizione, Donzelli, pp. 280, € 35,00. Tra analisi critica e dimensione progettuale, continua qui la sua riflessione sul ruolo abilitante dello spazio – dispositivo di liberazione del potenziale per ciascuno di emancipare sé stesso e “strumento essenziale di redistribuzione: di opportunità, giustizia, orizzontalità” –, nonché il ripensamento e la messa a verifica del progetto di città e territorio come tema biopolitico. Entro il più ampio orizzonte di un complessivo sistema di relazioni tra entità, si tratta perciò di un territorio allargato ad agenti umani e non umani. E però, lui stesso, un territorio-soggetto con una sua qual certa autonomia, di cui in premessa Viganò sostiene occorra assumere le ragioni perché possa avviarsi una vera transizione ecologica, sociale ed economica.
Ripercorrendo temi progettuali e metafore di una loro possibile lettura biopolitica e analizzandone lasciti e permanenze, vengono ripercorsi tre fondamentali tipi di spazio innovativi del Novecento: lo spazio funzione (utilitarista, normativo, dell’ordine e standardizzazione), lo spazio natura (organico, discontinuo, delle città giardino e delle forest towns), lo spazio sociale (dominato dall’idea di struttura, flessibilità, modularità, partecipazione). Con corredo di relative idee ed estetiche. Mentre, per converso, l’impianto teorico del volume viene misurato sui temi che emergono dalla negoziazione e dalla pratica di progetto degli specifici interventi presentati nella terza parte del volume: dal consumo e rigenerazione di suolo, anche di quello urbano, alla metropoli orizzontale, dall’idea di paesaggio come infrastruttura alla metodologia del procedere per prototipi della transizione, dall’ingiustizia spaziale e sociale al dispositivo narrativo e progettuale dell’utopia.
Così, mentre a cornice delle possibili ragioni dello spazio moderno, si sollecita un (per quanto prototipale e utopico) “allargamento dell’immaginario economico” e una complessiva revisione di paradigmi produttivi e aggregazioni politiche alternative, nonché l’urgenza di saldare le riflessioni urbanistico-architettonica con quelle sul paesaggio e la sua ecologia, il giardino biopolitico, nella sua accezione propositiva, si prospetta luogo ideale e assemblaggio in simultanea di modelli e spazi reali, opportunità di interazione e ridefinizione delle relazioni tra umani e non umani, misura di coesistenza, sociale e assieme ecologica, ipotesi di una biopolitica affermativa.
Paola Viganò, Il giardino biopolitico. Spazi, vite e transizione, Donzelli, pp. 280, € 35,00 , recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 45, Supplemento de Il Manifesto del 26 novembre 2023
Tra le molte riflessioni critiche dedicate a nuovi, consapevoli modi di vivere immersi nel sistema di relazioni con il vivente che chiamiamo natura, quelle che attingono alle pratiche ci parlano con un’efficacia davvero immediata.
E le pratiche della coltivazione dell’orto – a cavallo tra esercizio di attività concrete e vocazione meditativa, svago e fonte di integrazione alimentare, gioco, esperienza creativa e momento spesso di condivisione – condensano in sé una sorta di continuo spiazzamento, tra scoperta e apprendimento.
Dato che nel prendersi cura della terra, là dove intervengono mille variabili, non valgono tanto ricette universali quanto un’attitudine a sperimentare continuamente. Ad affinare un’attenzione che parte dall’osservazione delle erbe che spontaneamente crescono e nel corso dell’anno variano in un terreno di cui si rivelano così elemento bio-indicatore, fino alle piante poi coltivate, che devono diventare nostro alimento senza impoverire il suolo di cui sono il principale attore trasformativo.
Proprio il rispetto e l’amore per il suolo sono il fondamento delle sperimentazioni che Francesca Della Giovanpaola richiama nel suo volume di riflessioni e spunti pratici intitolato a La cura della terra. Seminare, coltivare, vivere, Mondadori, pp. 173, € 18,50.
Giornalista e poi permacultrice, da ormai oltre dieci anni ha avviato un percorso di ritorno alla terra, con relativo variar di mestiere e prospettiva, concretizzatosi nell’esperienza del Bosco di Ogigia – con un ideale richiamo nel nome all’isola della ninfa Calipso come esempio di antica foresta commestibile. Un bosco alimentare, spazio condiviso racchiuso in soli 2.500 metri quadrati, ma anche un sito internet, innesco di interventi su temi orticoli e ambientali tramite canali social, con video postati al seguito delle stagioni da questo crocevia di boschetti di alberi da frutto, viti, esperimenti ortistici, prati spontanei, linee di riforestazione.
Diana Scherer, InterWoven
Frutto delle tante variabili che contribuiscono a formarlo, il suolo, la sua parte superficiale di poche decine di centimetri, un sottilissimo strato in grado di sostenere la vita sulla superficie terrestre, è un organismo vivente dove interagiscono con le componenti minerali miliardi di forme di vita che abitano la terra e contemporaneamente la creano. In un processo dunque dai tempi lunghissimi dove concorrono insetti decompositori, ragni, grillotalpa, lombrichi, radici delle piante – con estensioni inimmaginabili e che si spingono fino ai 40 metri di profondità di quelle di una quercia – batteri e funghi micorrizici con la loro pervasiva rete di distribuzione di nutritivi e informazioni, e perfino i moltissimi semi immersi nel sottosuolo sempre pronti a uscire dalla quiescenza. Malgrado la conflittualità che nella coltivazione dell’orto talvolta oppone i vari protagonisti che si contendono i raccolti (le lumache, tanto per dire) quel che emerge è il rilievo imprescindibile della rete di connessioni che legano tra loro esseri viventi e ecosistemi.
Della Giovanpaola ripercorre nel volume esperienze e rinunce, tecniche e filosofie sperimentate nel Bosco di Ogigia. Dall’agricoltura naturale del microbiologo e contadino giapponese Masanobu Fukuoka, che nel suo La rivoluzione del filo di paglia mette in discussione la moderna agricoltura sostenendo che arare il terreno faccia solo danni e che soltanto non capovolgendo le zolle si rispettano le reti sotterranee della vita, all’agricoltura sinergica ispirata a Emilia Hazelip. Dalla coltivazione biointensiva che lavora sulla profondità, la condizione del suolo e il suo nutrimento, alla permacultura, ispirata a diversità e flessibilità degli ecosistemi naturali, enfatizzando le connessioni tra elementi.
Per finire alle linee di riforestazione con il metodo dell’agricoltura sintropica. Dove, nel suo caso, associare alberi da frutto, siepi miste, e vegetali in collaborazioni fruttuose – leguminose per fissare l’azoto, piante per attrarre gli impollinatori o adatte a fornire una pacciamatura nutriente, che respingono i parassiti (come tagete e nasturzio) o capaci di estrarre sostanze nutritive presenti in profondità.
Pratiche nuove che, contro l’agricoltura estrattiva, che sottrae fertilità al suolo senza restituirla, contro disboscamenti, avvelenamenti da pesticidi, cementificazione, – in Italia si consumano al secondo più di 2,2 metri quadrati di terra allo stato naturale e ogni giorno si perde terreno per 19 ettari, con incremento di superfici artificiali – assieme con l’impegno di prendersi cura del suolo e delle sue fragilità, siano in grado di individuare e sperimentare modi capaci di conservarne – o ricrearne – la fertilità.
Tutto inteso a mostrarci Perché il mondo vegetale ci assomiglia più di quanto crediamo, come evidenziato già a partire dal sottotitolo, l’impianto del volume del filosofo della scienza Paco Calvo, Pianta Sapiens, si colloca sul filo del paradosso nel divario che ci confronta con la sconcertante alterità di quelle onnipresenti forme del vivente.
Che, per quanto imprescindibili per la nostra esistenza di animali umani – con le nostre capacità percettive e organi di senso tarati su altre scale, nonché i molteplici autoinganni di una prospettiva tutta antropocentrica –, ci risultano spesso così difficili da comprendere talché nei loro riguardi, fin dagli anni 90, si parla di una nostra umana, irriducibile cecità (con Natalie Lawrence, traduzione di Allegra Panini, Il Saggiatore, pp. 360, € 23,00).
Un’alterità, quella delle piante, cui occorre rapportarsi quindi con uno sguardo diverso e un’attenzione nuova, propri di una ricerca multidisciplinare che nel solco di un filone ormai cospicuo di studi da alcuni anni concorre a ripensare un mondo naturale fatto di molti attori interconnessi e relazioni in continuità, smontando e faticosamente correggendo convinzioni riguardo a centralità e supremazia del punto di vista umano sull’universo. E dell’intelligenza come suo presunto tratto esclusivo.
Marc Quinn, Prehistory of Desire, 2010 Bronzo dipinto
Per cercare di comprendere la vita interiore delle piante, approssimarsi a intendere la vera natura della loro intelligenza, un certo acume o ingegnosità oltre l’adattamento reattivo, di pure e semplici risposte automatiche e nella direzione di una capacità cognitiva anticipatoria – i girasoli non reagiscono ma anticipano la direzione del sole –, flessibile, e interessata a produrre cambiamenti nell’ambiente, una serie di studi che si collocano sul crinale tra botanica e scienze cognitive vengono qui ripercorsi fino alle più recenti acquisizioni. Dalla fisiologia alla neurobiologia vegetale – ma anche dalla biosemiotica alla fitoetica –, riconvocando per le piante capacità a lungo ritenute di dominio esclusivo degli animali. Dal movimento della circumnutazione dei viticci già studiati da Darwin alla ricerca di un sostegno nello spazio al funzionamento della comunicazione di meccanismi elettrici di segnalazione di un sistema fitonervoso che risponde a stimoli, variazioni di luce, temperatura, a sofisticati esempi di apprendimento, capacità di ricordare (condizioni di siccità precedenti, conservando acqua) e di distinguere, nella competizione per le risorse, specie diverse dalla propria.
Nell’inestricabile dialettica tra fisiologia e comportamento, tra qualche scetticismo e nell’ambito del più generale dibattito sulla natura della coscienza, spesso si affaccia la questione controversa su come considerare che le piante siano senzienti, in senso lato coscienti, e di come i tratti di una loro specifica intelligenza o vita cognitiva, insomma una coscienza vegetale tra molte virgolette, comporti implicazioni etiche, considerazioni sul loro statuto morale, e anche a una loro presa in conto come soggetti di personalità e diritti.
Un intero capitolo è dedicato poi a illustrare come la nuova prospettiva che ci inducono ad acquisire questi attori vegetali sia di ispirazione in vari ambiti, dalla biomimesi alle suggestioni sui tipi di materiali da loro impiegati. Fino a come stiano giocando un ruolo importante, per esempio nell’ispirare nuovi paradigmi nella robotica, aprendo una nuova era di Robot verdi, con corpi modulari, capaci di estendersi nello spazio.
Un dinamismo, quello delle piante, fatto di crescita piuttosto che non locomozione. Per i nostri pregiudizi animali che inestricabilmente collegano invece movimento e intelligenza, così poco immediatamente apprezzabile e comprensibile. Anzi sconcertante. Tanto che, senza scampo, fin nel titolo misuriamo il divario con il vegetale basandosi su quanto… ci si somiglia.
Prima ancora di precisarsi come genere o ambito a sé, l’illustrazione botanica, svolge a lungo, di pari passo con il perfezionarsi delle pratiche di identificazione e documentazione delle piante, la funzione di accompagnare e puntellare l’anelito classificatorio che fin dal XVIII secolo, nel quadro del dilatarsi di orizzonti e curiosità naturalistiche, anche per via dei nuovi viaggi di esplorazione, informa il definirsi della botanica come disciplina.
Frutto spesso di rilevazioni sul campo da parte di abili disegnatori in collaborazione stretta tra pittori e botanici, nonché di successive rielaborazioni e sistematizzazioni come materiali d’insegnamento o in vista di pubblicazioni complessive, queste raffigurazioni restituiscono variamente informazioni accurate, d’insieme e di dettaglio, focalizzando aspetti specifici, anatomici e funzionali o illustrando il progredire delle diverse fasi di sviluppo dei soggetti ritratti, dal seme al frutto.
In un inesausto operare per tentativi tra giardinieri e botanici, appassionati e collezionisti, finisce così per precisarsi un linguaggio condiviso di arte botanica immediatamente comprensibile, a vari livelli di approfondimento e per un pubblico internazionalmente diffuso.
Con esiti diversi, attitudine analitica e aspirazione per la catalogazione si combinano a curiosità, meraviglia, valenza conoscitiva del saper cogliere sinteticamente la varietà del reale.
Narrazioni di grande raffinatezza, nell’impaginazione del soggetto come nella cura scientifica della resa dei dettagli, son quelle delle tavole realizzate dal pittore di talento Sydney Parkinson, che il grande naturalista e botanico inglese Joseph Banks invia nel Pacifico al seguito del primo viaggio di esplorazione dell’Endeavour, sotto il comando del capitano James Cook nel 1768.
A partire dagli schizzi rilevati sul campo, e ripresi poi come base di molte tavole realizzate al ritorno dai viaggi di esplorazione, con la regia di Alexander von Humboldt vengono messe a punto procedure che privilegiano una fitta integrazione di testo e immagini, verso la resa di quell’impressione totale che, collegando il dettaglio e l’insieme, ricerca relazioni. In una sperimentazione delle tecniche della rappresentazione delle piante che ibrida codici di saperi diversi verso una sintesi tra pensiero razionale, emozione, immaginazione, si arriva – assieme con disegni naturalistici, tavole di anatomia comparata, paesaggi geologici e idrogeologici, vedute pittoresche di paesaggi e carte geografiche – all’uso dei tableaux, sorta di riassunto grafico, sistema sinottico tra rappresentazione pittorica e elaborazione visiva dove, incorniciando figure e relazionandole a una serie di misurazioni e tabelle, vengono visualizzati un gran numero di dati raccolti, ordinati in una logica comparativa per ricercare e evidenziare rispondenze e analogie, interconnessioni tra i fenomeni.
Con Carl Friedrich Philipp von Martius, che esplora il Brasile dal 1817 al 1820, assieme ai Resoconti di viaggio lodati da Goethe per la qualità letteraria, e alla descrizione sistematica della Flora Brasiliensis, il risultato del tutto innovativo è una monografia che, a partire dall’esperienza diretta ma anche tramite lavori altrui, sistematizza le conoscenze del tempo su una famiglia specifica.
La Historia naturalis palmarumanalizza “tutte le palme apparse sulla terra, quelle ancora viventi e le testimoni fossili”. Tre ponderosi volumi corredati da 240 litografie di grande formato saranno stampati tra 1823 e 1853 grazie a sottoscrizioni e prenotazioni in varie versioni, alcune colorate. L’immagine esatta della pianta e delle sue parti in prospettiva – con la composizione sinottica nella tavola delle relazioni tra i diversi elementi – arriva a includere il disegno “di paesaggio” di palme isolate (che invece raramente si presentano tali in natura) funzionale a farne risaltare la struttura, ma inquadrandola così nel contesto del suo habitat, si direbbe oggi.
Kate Nessler, Althaea rosea, Acquerello e matita su pergamena, 2003
Al di là del ruolo di supporto alla riforma della nomenclatura delle piante, le diverse rappresentazioni grafiche delle loro fisionomie si affermano in questi secoli come fonte diretta di studio. Imprescindibile, immediata integrazione visiva. Mentre dal punto di vista pratico, oltre a catturare l’interesse del lettore, servono a documentare varietà di frutti coltivati per la vendita, nonché come supporto per la commercializzazione di nuove piante da luoghi remoti.
Dando seguito a questa lunga tradizione di attenzione e sensibilità, un importante volume presenta ora una raccolta di alcune tra le più belle, recenti tavole premiate con la medaglia d’oro per l’illustrazione botanica assegnate da una delle più antiche e tutt’ora prestigiose istituzioni nell’ambito della ricerca botanica e del giardinaggio, la Royal Horticultural Society e conservate dalla Lindley Library: Illustrazione botanica, a cura di Charlotte Brooks Royal Horticultural Society-Guido Tommasi Editore, pp. 256, € 35,00.
Già nel 1806, un paio d’anni dopo la sua fondazione, la Società aveva cominciato a commissionare a illustratori e incisori assunti disegni e dipinti di specifiche piante.
Tra i suoi consiglieri, sir Joseph Banks, Richard Salisbury e Thomas Andrew Knight, sempre al lavoro a stretto contatto con gli artisti, e, tra le prime immagini, quelle realizzate per illustrare una raccolta di articoli dei membri da William Hooker, celebre anche l’enorme Victoria regia (oggi denominata Victoria amazonica) fiorita per la prima volta nei giardini di Kew a metà 800.
Immagine tratta da Description of Victoria regia, or, Great waterlily of South America, 1847
E se durante i primi 50 anni si era così andato costituendo un corpus di oltre 2.000 dipinti, oggi la collezione della Lindley Library consta di circa 30 mila opere e comprende anche alcune immagini di giardini che si rivelano testimonianze tanto più preziose per ricostruirne lo stato dell’epoca.
Nel 1859, come risulta dal catalogo di vendita Sotheby’s, il materiale della Lindley e la collezione di disegni dovettero però essere venduti all’asta per raccogliere fondi per la Società, allora sull’orlo del dissesto finanziario.
Molti originali saranno poi recuperati nel corso del XX secolo, tra cui gli album di frutti di Hooker, nel 1926.
Tra lasciti, esposizioni, mostre competitive e nuovi acquisti – nel 1912 quello di 100 acquarelli botanici cinesi –, il patrimonio di album e disegni si andò ricostruendo malgrado gli impedimenti delle due guerre mondiali e il calo di considerazione per il montante ruolo della fotografia, dopo la seconda.
Con gli anni 60 si assiste però a un ritorno di interesse per l’arte botanica e negli anni 90, una nuova politica di acquisizioni sposta l’enfasi della collezione dai soggetti agli artisti, con maggiore attenzione a progetti e temi, finché una nuova ribalta dell’arte botanica si apre in questi ultimi vent’anni del nuovo millennio.
La selezione proposta nel volume da Charlotte Brooks, curatrice della collezione, testimonia anche di quanto questi riconoscimenti abbiano, nel tempo, fissato in certa misura un parametro di valutazione e dà conto specialmente di un recente ritorno in auge dell’illustrazione botanica, perfino in questa nostra epoca della fotografia digitale.
Al di là di una rassegna di testimoni insigni della storia di quest’arte – in gran misura, di talenti declinati al femminile –, il volume evidenzia e isola alcune tendenze e temi ricorsivi.
Per ritrarre e trasferire l’essenza di una pianta in un dipinto si assume così spesso un’angolazione insolita, oltre a forzare il confronto dei portamenti. L’esigenza di ridire i cambiamenti stagionali, che condiziona a dipingere nell’arco di più stagioni di crescita, si spinge fino a ritrarre soggetti in decadimento (Gael Sellwood), esemplari curvi e logorati in una sorta di Celebrazione dell’imperfezione, come recita il titolo di una serie di dipinti o come nel caso degli anemoni di Giulia Trickey, che ri disseminandosi, spiumano intorno i semi.
Un gruppo di dipinti è intitolato alle Infiorescenze, come quelle spumose, color champagne della olmaria raffigurata da Bernard Carter, o alle Piante con nomi di animali nel nome comune – la ligularia, in inglese leopard plant. La serie delle Piante parassite della regione di Città del Capo, dipinte a grandezza naturale per l’identificazione da Lynda de Wet, viene resa nella rispettiva gerarchia dei ruoli, con l’acquerello per la parassita Harveya capensis e in grafite per l’ospite, Centella asiatica.
Altre mostre a tema riproposte nel volume riguardano Aspetti dell’aglio o l’insolito Fascino delle radici, nel rabarbaro di Norma Gregory. Acquarelli di classici crisantemi giapponesi si affiancano a quelli di verdure, dal carciofo al cavolo, di cui si evidenzia rilievo e ravvicinata bellezza domestica, come per la cipolla tagliata di netto o la buccia srotolata della patata che vien mostrata pelata da Clare McGhee.
Se molto importante è, pressoché sempre, lavorare con materiale botanico vivente, le tecniche, oltreché a scelte di stile, si associano volta a volta a tipologie di soggetti e alle differenti esigenze di resa.
Dalla composizione tradizionale per elementi con sezioni trasversali e ingrandimenti, o secondo diversi angoli di osservazione in ragione di essenziali reinterpretazioni, magari in assenza di foglie e rami, per ottenere un’immagine più contemporanea, pulita. La scelta di scorcio e prospettiva per dare all’orchidea un aspetto naturale o la disposizione degli esemplari di Piccoli frutti estivi, ognuno accompagnato con un’ombra per accentuarne il rilievo e evitare che sembrino fluttuanti, posti uno vicino all’altro come appena raccolti, a confrontarli per dimensione, trama e forma.
La tecnica delle matite colorate, funzionale a ottenere tenui variazioni, ritorna popolare dalla metà degli anni 80 del 900, mentre è l’acquerello a catturare trasparenza e sugosità del limone in sezione di Annie Hughes, come le ghiandole dell’olio sulla sua buccia. E gli essenziali disegni a grafite son quelli che meglio si addicono alle Felci native del Peak District, con le fronde che si aprono man mano. Mirabile, la resa nel dettaglio degli aghi di pino o delle complesse venature e della trama delle foglie della Begonia masoniana di Sue Williams.
Alcune composizioni fanno un uso deciso dello spazio non dipinto della carta, utilizzato come colore di base per raffigurare fiori bianchi posti dinanzi a foglie scure (come la vaniglia imperiale di Lizzie Sanders). Meticolosi studi a penna con inchiostro vengono scelti per ritrarre esemplari imperfetti già citati, come li incontra Chatarine Nicholson, mentre colorazioni e venature della pergamena non trattata vengono incorporate nel disegno di Kate Nessler, nell’alcea con le foglie divorate, ridotte a scheletriche nervature.
Così, tra riproduzioni che continuano a ispirarsi alla tradizione di fine 800, specialmente nella pittura di orchidee, e opere che si fanno quasi astratte, ispirate a sagome, forme e trame del mondo naturale, si gioca lo spazio dialettico tra creazione artistica e illustrazione naturalistica.
Con usi laterali che sempre più – e nuovamente – strabordano dimotivi floreali su piatti, decorazioni, arredi, stoffe, porcellane, cartoline.
Illustrazione botanica, a cura di Charlotte Brooks, Royal Horticultural Society-Guido Tommasi Editore, pp. 256, € 35,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 39, Supplemento de Il Manifesto del 15 ottobre 2023
Con il suo lento procedere e l’ipertrofia linguistica che su scala globale la connota, l’architettura contemporanea si è spesso andata ritirando dal suo ruolo pubblico e sociale. Eppure, in un tempo sempre più spaesato, inquieto, costantemente in emergenza fino a ridursi a un fluido, eterno presente cannibalizzato da un immaginario collettivo onnivoro, il reale dei luoghi diventa centralità ancor più necessaria.
Anche dopo il superamento della divisione modernista degli spazi per funzioni è prevalso un indistinto totalitarismo di luoghi anestetizzati dove, smarrita ogni organica, anarchica, stratificata ricchezza di storie, ogni irregolare ambiguità è stata progressivamente espunta. Eppure, la qualità dello spazio resta uno dei pochi antidoti rispetto a un individualismo che rimuove la complessità del sistema di relazioni in metamorfosi continua entro cui siamo immersi.
Con sguardo eccentrico, l’architetto e curatore Luca Molinari mette ora a tema l’esigenza da parte dell’uomo sensoriale di reinventare una perduta relazione con l’anima dei luoghi, nonché il ruolo di innesco progettuale costituito dal lasciarsi sorprendere dalla presenza di luoghi involontari e anomali, disoccupati che si fanno laboratori aperti, nonché dalla bellezza dello spazio comunitario, democratico, dove riconoscere disuguaglianze e abitare il conflitto.
Aldo Van Eick, Playground Zaanhof, Amsterdam, 1948, Foto Wim Brusse
Procedendo per frammenti, esempi d’interventi progettuali, artistici – da quelli di Aldo van Eyck, ad Amsterdam, con un sistema di centinaia di parchi gioco come modo per ripensare la città, all’operazione di Lacaton & Vassal, che a Bordeaux anteponendo alla facciata residenziale un nuovo corpo profondo due metri, completamente aperto e trasparente, cambiano gli affacci senza spostare gli inquilini – La meraviglia è di tutti, quasi in uno sfogliar d’immagini e suggestioni, indaga la relazione tra sensi, desiderio, progetto (sottotitolo: Corpi, città, architetture). In particolare nella fertile dialettica tra sentimento della meraviglia e i grandi spazi della narrazione collettiva, i luoghi del potere, la tecnica, il nostro corpo, le nature del vivente. Ovunque, dove variamente si appalesano il potenziale di resistenza dei luoghi al continuo fluire di un consumo immediato e l’occasione d’invenzione che per una riformulazione poetica del reale implica il vuoto in attesa (Einaudi, pp.155, 14,00).
Riflettere sul senso e sul ruolo della meraviglia, nel disorientamento e nel senso di inadeguatezza prodotti dal cambiamento repentino e radicale di un punto di prospettiva, significa per Molinari integrare le nostre emozioni come strumenti di attività progettuale. Tornare a dar centralità al progetto in una dimensione critica, mobilitando nuovi interrogativi, avviando rotture di senso, decolonizzando concetti e linguaggi. E in questa presa di responsabilità politica e visionaria, dove il progetto gioca un ruolo eversivo, aperto e poetico, assume rilievo la nuova centralità, simbolica e sociale, del progetto di paesaggio.
Un approccio capace di ripensare le relazioni con la natura in una strategia postumanista di rigenerazione circolare, in grado di integrare le molteplici differenze e interazioni tra umano e altre forme viventi. E dove, tenere in conto l’impermanenza e le diverse temporalità, non soltanto umane, imparare dal caso affinando l’attenzione – anche all’arte involontaria che si produce in natura, additataci da Gilles Clément –, accogliere l’imperfetto, il residuo, lo scarto, ma anche il conflitto, son tutte attitudini che concorrono a ripensare gli spazi condivisi, riconsiderando anche la relazione tra progetto e comunità che lo abitano in una logica di condivisione.
Tra architetture sociali temporanee, inclusive, fin anche mobili, a integrare il divenire, l’eterogeneità, e attenzione agli antichi saperi climatici come all’idea di un nuovo “contratto spaziale”, occorre insomma imparare di nuovo, con meraviglia, a sentirci spiazzati, e non fuori luogo.
biennale architettura Venezia 2021, How we live together, a cura di Hashim Sarkis
Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice.Ok