La rosa di Morley, incroci biologici e sogni culturali di purezza

Da sempre al centro di una serie di reciproche attenzioni e convenienze, l’affascinante e complessa vicenda coevolutiva delle relazioni variamente intrecciate tra uomini e rose non può certo prescindere dalla condizione duplice di queste ultime. In quanto soggetto vegetale e assieme icona culturale.

Difficile spesso districare questa dualità. Che individua le rose come emblema di bellezza, dalla purezza di quelle bianche scaturite dalle onde alla nascita di Afrodite alla pericolosa seduzione di quelle evocate nell’Inghilterra vittoriana de La leggenda della Rosaspina del preraffaelita Edward Burne-Jones (1885-1890). Fiori capaci di farsi tramite con il divino per via di offerte e ghirlande, come nei Rosaria, celebrati dai Romani in primavera con gran dispendio di rose appositamente coltivate e commercializzate, e di reinventarsi, nei passaggi tra religioni, alla maniera della poi tradizionale pioggia di petali lasciati cadere sui fedeli riuniti per la messa dall’oculus del Pantheon, oramai consacrato chiesa dei martiri. Rosa pre-monoteistica che nel credo islamico diviene modello botanico del divino e che, per quanto assente nella Bibbia, anche se autoctona del Medio Oriente, finirà poi per essere emblema della conversione dei pagani al cristianesimo. Dove, se la rosa rossa indica il sacrificio e l’espiazione di Cristo – la croce stessa è di legno di rosa – quella bianca, emblema di purezza, rosa senza spine, sarà centrale nella devozione mariana.

Riferimento già di aspirazioni mistiche, percorsi iniziatici, tradizioni esoteriche, alchemiche e veicolo di messaggi in letteratura, dalla Persia classica alla Grecia, a Roma, al mondo cristiano, a quello islamico e infine alla cultura occidentale moderna, in una compresenza di condizioni che la vede associata all’amore fin nel linguaggio, dalla nascente tradizione dell’amore cortese, con il Roman de la Rose (1230), alla florigrafia d’inizio 800 – che a ogni emozione faceva corrispondere un fiore –; oggetto di attenzione estetica e volta a volta, espressione del sentimentalismo romantico, della trascendenza simbolista; simbolo di vita ma anche indicatore decadente di un erotismo trasgressivo e morboso (nell’immaginario gotico vittoriano), presagio di falsità e delusione dietro la splendida apparenza, come pure, invece, rara forma tangibile capace di comunicare, oltre l’analisi razionale, l’ineffabile del processo creativo, di emozioni ed esperienze interiori (Rainer Maria Rilke).

Casa degli Affreschi di Cnosso, 1600-1500 a.C., Museo Archeologico di Heraklion, Creta

E, ancora, pianta per ricreare mondi da coltivare nei giardini, come pure protagonista e indicatore dell’evoluzione del gusto in pittura – basti percorrere a tema una qualsiasi pinacoteca – nel suo pervasivo diffondersi, nel suo riapparire tra momentanee sparizioni e mutamenti di senso, scivolando nel decorativismo e in perdite di credibilità simbolica.

Ma, pur nel variare e succedersi di funzioni e significati accumulati in differenti contesti e culture, questa pluralità di segni e interpretazioni, la polisemia dove ambivalenze e dualità coesistono nella rosa, deve fare i conti con alcune importanti scansioni che riguardano la sua specificità ecologica e biologica in quanto pianta.

È da questo assunto che muove la rilettura particolare dedicata a questo fiore da Simon Morley nel suo volume Non solo rose. Storia culturale di un fiore, traduzione di Luca Bernardi, Solferino, pp. 352, € 21,00.

In realtà, le rose del nostro più diffuso immaginario, quelle che oggi abitualmente riconosciamo come tali, la maggior parte delle varietà coltivate e praticamente tutte quelle da taglio che impieghiamo nei mazzi – quelle caratterizzate cioè da grandi infiorescenze, fioriture ripetute, dalla forma del bocciolo densa di petali a spirale, turbinati, dagli steli dritti, di aspetto perlopiù ordinato, spesso quasi prive di spine, dai colori sgargianti e il profumo lieve o inesistente – risultano perlopiù esteticamente ben diverse da quelle conosciute dall’antichità fino a inizio Novecento in Europa.

Con alcune, poche eccezioni – tra cui la Rosa moschata, in fiore tra fine estate e inizio autunno e la damascena, o rosa delle quattro stagioni – prima della seconda metà dell’Ottocento difatti la maggior parte delle rose europee, come gran parte delle altre piante, fiorivano brevemente, soltanto per qualche settimana tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate; avevano corolle più semplici, meno globose, si aprivano in maniera più appiattita, lasciando in evidenza lo stame centrale, spesso profumate, erano caratterizzate specialmente da colori tenui.

Di questo tipo dovevano esser, pertanto, i referenti vegetali evocati da Anacreonte nelle sue Odi, o da Shakespeare in Giulietta e Romeo.

Paolo Uccello, Battaglia San Romano, Niccolò da Tolentino alla testa dei fiorentini, c. 1438, Londra, National Gallery

Mentre, le rose tenute in mano dal giovinetto che nell’Allegoria di Venere e Cupido di Agnolo Bronzino simboleggia il Piacere e che sta per inondare la coppia di petali mentre sembra non accorgersi della spina che gli trafigge il piede destro (c. 1545, Londra, National Gallery), difficilmente possono essere associate a un gruppo di rose cinesi attestato in Europa soltanto a fine Settecento. In un improbabile attribuzione che quindi scardinerebbe datazioni consolidate in rodologia, dato che è soltanto nel corso dell’800 che, a opera specialmente degli inglesi, si compie la rilevante migrazione delle rose dell’Estremo Oriente verso Ovest – assieme alla pratica di ribattezzarle all’occidentale, spia ulteriore della pervasiva attitudine imperialista del tempo.

Agnolo Bronzino, Allegoria di Venere e Cupido, c. 1545, Londra, National Gallery

È con l’arrivo in Occidente delle rose cinesi che si introduce qui in maniera massiccia anche il tratto distintivo della rimontanza, ovvero della loro capacità di fiorire ripetutamente per un lungo periodo. E che, più in generale, per via di ibridazioni e incroci con esemplari europei e mediorientali, si determina un’importante rivoluzione nei tratti del corredo genetico della rosa, nel suo aspetto e nelle caratteristiche complessive. In un più ampio processo di esperimenti sistematici e piani di coltura, guidati questa volta da una Francia presto all’avanguardia nella coltivazione delle rose a partire dall’impulso datole a cavallo tra Sette e Ottocento da Joséphine de Beauharnais, moglie di Napoleone Bonaparte e imperatrice, con la sua collezione nella tenuta di Malmaison, e dalla scoperta delle leggi dell’ereditarietà biologica.

Si affermano così le rose moderne che discendono perlopiù da questi incroci, dalle famiglie degli ibridi di tea – boccioli lunghi e snelli, retti singolarmente da fusti verticali che conferiscono alla pianta la sua forma – poi, con gli anni 50 del 900, delle floribunda – un arbusto molto alto, con fiori compatti a grappolo.

Jan Davidsz De Heem, Vanità di natura morta con teschio, libro e rose, c. 1630, Stoccolma, National Museum

Fisionomie quindi con fattezze tutte ben distanti, per dirne una, dall’esemplare di gallica semidoppia legata a un sostegno sul quale si poggia un usignolo negli affreschi di epoca romana della Casa del bracciale d’oro di Pompei, o da quelle della siepe che spartisce la scena della Battaglia di San Romano di Paolo Uccello (Londra, National Gallery, 1438 c). O ancora da quelle intese come memento della caducità della vita nel seicentesco dipinto di Jan Davidsz De Heem, Vanità di natura morta con teschio, libro e rose (Stoccolma, National museum 1630 c.), o altrimenti oggetto d’attenzione scientifica, negli stilemi del genere del disegno botanico, come nell’imponente corpo di fedeli riproduzioni naturalistiche all’acquarello che Pierre-Joseph Redouté, il cosiddetto Raffaello dei fiori, realizza dal vero proprio a partire dalle piante fisicamente raccolte nel parco della Malmaison. Finché, alla fine dell’Ottocento, di pari passo con il loro declinare come riferimenti simbolici immediati, queste protagoniste vegetali risulteranno piuttosto occasione per impressioniste sperimentazioni cromatiche, dov’è difficile, nello specifico, individuare quali siano le rose raffigurate. Per quanto nel Cesto di rose di Henri Fantin-Latour (1890) Morley suggerisca di riconoscere “delle centifolie, delle tea, delle Noisette e quello che parrebbe un ibrido perpetuo o un ibrido di tea”.

Pierre-Joseph Redouté, Rosa centifolia
Henri Fantin-Latour, Cesto di rose, c. 1890, Londra, National Gallery

Allevate per assecondare un gusto che predilige ormai i colori chiari e accesi di una modernità che impone anche a loro il passo continuo dell’innovazione, le nuove rose si affermano nel quadro di un sistema socioeconomico dove, tra fiere di floricultura e competizioni tra coltivatori, nella loro diffusione e commercializzazione entrano in gioco anche il marketing – con episodi di svolta come il successo decretato dall’intitolazione, nel 1945, a «Peace» di una rosa immessa sul mercato distribuendone una piantina a tutti i delegati della sessione inaugurale delle Nazioni Unite –, il diritto d’autore e le leggi sui brevetti (il primo su un vegetale, dell’agosto 1931, riguarda proprio una rosa ibridata), con relativi obblighi legali sugli impieghi onomastici. Che comunque riflettendo il sentire comune, in un processo di democratizzazione anche onomastica, dal riecheggiare titoli e cognomi nobiliari trascorre verso nomi che riecheggiano il glamour del cinema e la cultura pop. Dove la rosa è protagonista costante, dalla canzone alla letteratura di intrattenimento.

A complicare le cose, nel gioco incrociato delle tendenze e delle mode, mentre cresce il successo per le rose moderne di cui si è detto, si assiste però di converso a una minoritaria ma qualificata reazione contro l’estetica tutta formale di queste nuove varietà. Anche in relazione all’eccesso di segni, interpretazioni, significati di cui le rose si sono andate caricando nel tempo, si sostiene che occorre invece tornare alla pianta in sé. Non a caso, nel dopoguerra si torna a parlare di rose selvatiche, rose «classiche» da giardino, di vecchie rose, per come erano fino all’avvento degli ibridi di tea: spesso più adatte alla coltivazione, oltre che più resistenti e più longeve, con profumi più forti e differenti tra loro, come pure ricche in varietà di forme, per quanto limitate nella gamma di colori tenui, epperò ben più raffinati rispetto a quelli chiassosi, innaturali, delle moderne.

A sua volta, la moda delle vecchie rose produce, a partire dagli anni Ottanta, l’aspirazione per «nuove» rose che mantenessero però anche alcune delle migliori caratteristiche delle vecchie varietà da giardino: vere e proprie “varietà storicizzate o postmoderne”, dette rose inglesi, che, stilisticamente, hanno significativamente corretto la nostra concezione delle rose odierne.

Elemento vivo, che accompagna nascite, corteggiamenti, matrimoni e anniversari, fino ai riti funerari, la rosa è una pianta che con tutto il suo portato culturale si è fatta e si fa presenza comune nella nostra vita. Farmaco, distillato per oli e profumi, ingrediente culinario, accessorio per abiti femminili o da appuntare all’occhiello, fiore da taglio diffuso a livello globale (250 milioni sono le rose vendute soltanto negli Stati Uniti, nel 2018, per San Valentino, nonostante la festa cada nel freddo febbraio), emblema nazionale o eponimo al punto di individuare in molte lingue un colore, strumento, perfino, di espansionismo (assieme al modello con cui si identifica), è il fiore più amato al mondo, almeno in Occidente, e oggi il più coltivato anche in Cina dove pure per secoli non ha certo ricevuto le attenzioni riservate a peonie, crisantemi e bambù.

La moltiplicazione e il diversificarsi nei secoli delle varietà delle rose in quanto soggetti vegetali e la pluralità di usi e funzioni che noi abbiamo assegnato loro, anche in quanto catalizzatori di senso, sono state e sono volta a volta esito di prolungati, reciproci interessi incrociati. Quello umano nei confronti della natura delle rose, che, inducendo e cogliendone le mutazioni, ne valorizza caratteri estetici come la rifiorenza, ma anche fisiologici, di robustezza e capacità adattativa a condizioni difficili e perfino all’incuria, contro la presunzione della fragilità che sotto il loro aspetto raffinato le rose lasciano ingannevolmente supporre; e viceversa, quello della rosa, con le sue importanti trasformazioni morfologiche adottate per andare incontro a gusti e disponibilità dei nuovi interlocutori umani, in modo da suscitarne e mantenerne l’attenzione, per poterla poi sfruttare nella logica della selezione naturale.

Che la si indossi come gioiello floreale, sia colta per decorare le case o significare messaggi religiosi, valori o sentimenti, che sia raffigurata in dipinti, oggetti d’arredo, carte da parati o che si affolli a crescere nei grandi e piccoli giardini, anche quelli suburbani o delle villette per nuovi appassionati di giardinaggio, per la rosa, essere ritenuta bella è un vantaggio evolutivo che ne aumenta e garantisce la diffusione.

Cy Twombly, The Rose, I, 2008,

A partire dai primi anni Novanta, anche alla luce dell’aggravarsi delle problematiche ambientali e nel quadro di un complessivo, paradigmatico ripensamento critico dei comportamenti dell’uomo nei confronti del vivente, si è andata affermando un’attitudine neonaturalista che, privilegiando attenzione e valorizzazione anche nell’estetica del giardino ai processi spontanei e associativi in natura, sembrerebbe per alcuni versi minacciare il ruolo della rosa, e la sua postura, molto artificiale.

Una messa in crisi dell’estetica e del valore attribuito al ruolo simbolico tradizionale della rosa che l’arte contemporanea testimonia con l’insistenza sulla sua continua metamorfosi, anche di significati. Nelle opere di Cy Twombly (Analysis of the Rose as Sentimental Despair,1985, con citazioni poetiche, e la serie di enormi quadri intitolata semplicemente La rosa, 2008), nelle rose di legno policromo del Grande vaso di fiori (1991) di Jeff Koons o in quelle gigantesche (alcune addirittura alte otto metri) disposte da Will Ryman nel 2011 lungo dieci isolati di Park Avenue a New York.

Ispirazioni per una re-invenzione della rosa al futuro, da restituirsi magari invece al suo carattere più spontaneo e disordinato.
Quello delle varietà più irregolari, di rovi rampicanti o copri suolo

Simon Morley, Non solo rose. Storia culturale di un fiore, traduzione di Luca Bernardi, Solferino, pp. 352, € 21,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 4, Supplemento de Il Manifesto del 29 gennaio 2023

Will Ryman, The roses, 2011, New York

I molti strati di vita dell’isola nell’isola

Quando nel 1967, Josephine Johnson inizia a lavorare a L’isola nell’isola – resoconto di un anno dal suo ritiro tra le colline del nativo Ohio sud-occidentale che, stagione per stagione, si squaderna in un brulicare condiviso di esperienze nel paesaggio e relazioni con protagonisti e compagni di vita, perlopiù piante e animali, pochi gli umani  –, a muoverla è assieme l’urgenza dichiarata di registrare tutto quanto tien caro tra quel che in natura la incanta e per converso l’incapacità di separare il senso di tanta bellezza dall’incipiente, drammatica consapevolezza della distruzione che se ne andava facendo.

Sempre soltanto evocate restano qui le correlazioni tra povertà, guerre, costrizioni, disuguaglianze, in primis il razzismo, e sfruttamento sconsiderato delle risorse e dell’ambiente, che la avevano vista promuovere antesignana diverse campagne a livello locale e comunitario e che nel 1969, anno della pubblicazione del volume – ora riproposto da Bompiani nella sua nuova collana Gaia, pp. 253, € 18, traduzione di Beatrice Masini e illustrazioni di Chiara Palillo – la Johnson evidenzierà esplicitamente in un editoriale sul New York Times. Tematiche in qualche modo già incrociate nel suo primo romanzo Ora in novembre – con sullo sfondo le difficoltà innescate dalla dust bowl, la serie di tempeste di sabbia che negli anni Trenta colpirono le grandi pianure degli Stati Uniti – romanzo che nel 1935 la aveva reso la più giovane vincitrice del Premio Pulitzer per la narrativa, a 24 anni, per quanto sarebbe poi rimasta autrice per molti versi dimenticata.

Osservatrice curiosissima di ogni fremito del vivente, incantata dalle creature compagne (e specialmente dagli uccelli), senz’esserne – dichiara – una fanatica, attorno a quel luogo amato che si fa snodo identitario e innesco creativo, ci fa partecipi di un presente che dal tempo fulminato nel gelo d’inizio d’anno alla luce vetrificata del febbraio che lo segue, sfoglia le stagioni, magari in compresenza sui versanti differenti di due colline vicine, fino agli incantesimi agostani del nero occhieggiare di semi dell’aglio selvatico, passando per l’aprile, con quel troppo di tutto,

Mentre si arrampica sulla collina delle lumache, o passa a trovare le tre grandi pietre o, ancora, in cerca di un nido, attraversa il boschetto dei noci e la piccola forra della marmotta, dismesse le cesoie e “la passione bizzarra di tutto riordinare”, confessa che il desiderio d’essere una grande scrittrice a tutti i costi è passato. Ho capito, confida: “non posso rinunciare a tutto il resto di me, al mio affollato me”. Ma i protagonisti del suo narrare sono felci enormi che tengono insieme i fianchi della collina, scarabei smeraldini che lampeggiano sulle pietre, la tartaruga con la sua la sua antica testa di serpente, lo spiritello allegro, contro ogni vulgata, del gufo e le famigliole di procioni e opossum che mangiano insieme dalle ciotole che lascia loro attorno a casa. Ancora, le alte, delicate guglie del giacinto selvatico, le api che sciamano nella menta, come pure l’ancestrale masso consunto con cui fermarsi a discorrere.

Tra predilezioni e antipatie – le scintillanti coccinelle a puntini amate dai giardinieri e la marea dei bruchi che procede ingobbita a ondate distruttrici – in una scrittura serrata, di frasi brevi, ritmate a restituire l’incalzare molteplice di compresenti visioni incrociate, la presa diretta è sempre in equilibrio tra una resa evocativa, fortemente sensoriale, impressionista e la precisazione scientifica, entomologica, ornitologica, che si consente perfino vere digressioni botaniche.

Abile nel restituire i molti strati di vita dei luoghi, come per il mondo magico racchiuso nella pozza sotto il ghiaccio o nelle fenditure sui tronchi ripiene di funghi come ostriche, o anche per il sentiero di trillium bianchi che si buttan giù dalla china verso il torrente dove quell’enorme albero si protende come un ponte di muschio, … fino ai territori invisibili che i corvi volando separano in cielo, o a quelli disegnati dai percorsi tra i rami dallo scoiattolo che, voltandosi, balza, corre, salta, la Johnson trascorre con disinvoltura dalla scala ravvicinata degli interpreti della vita minuta a quella distante, d’insieme, dei loro orizzonti ecologici. Accordandosi a ritmi, suoni, colori e profumi dell’incedere naturale.

Josephine Johnson, L’isola nell’isola, Bompiani Gaia, pp. 253, € 18, traduzione di Beatrice Masini e illustrazioni di Chiara Palillo, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 2, Supplemento de Il Manifesto del 15 gennaio 2023

illustrazioni dal volume di Chiara Palillo

Vegetali psicotropi

L’essere immersi nel flusso costante di relazioni del vivente che chiamiamo natura, ci invita a riflettere su un inedito incrocio di pratiche e saperi – necessariamente, assieme scientifici e umanistici – in una consapevolezza nuova che si accompagna a una diversa attenzione al paesaggio animale e alle società dei vegetali, e specialmente – inevitabilmente – all’evidenza dell’interdipendenza nelle relazioni che con essi intratteniamo. E che, assumendo la vertigine di una reciprocità che riconsidera la tradizionale distinzione tra soggetto e oggetto, ci invita ad analizzare i modi in cui questi altri mondi ci orientano e ci condizionano sui più diversi piani.

Da sempre attento ai temi che indagano le nostre reciproche relazioni con le piante – come le usiamo e come ci usano – è il percorso del giornalista Michael Pollan, autore di diversi libri di successo, da Il dilemma dell’onnivoro, sul rapporto tra cibi naturali, industriali e salute, a La botanica del desiderio dove, a partire dalla premessa che i desideri umani (come il nettare) facciano parte della storia naturale, incrocia botanica, letteratura, storia sociale e la poco convenzionale prospettiva dell’assunzione del punto di vista delle piante, indagando i modi in cui le specie domesticate hanno impiegato gli ultimi diecimila anni a escogitare modi per nutrirci, guarirci, vestirci … impressionarci. Com’è certo il caso di quelle considerate nel suo ultimo testo, Piante che cambiano la mente, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, Adelphi,pp. 293, € 20,00.

In questo volume Pollan si concentra su tre di quelle che si rivelano produttrici di sostanze che, se dal loro punto di vista nascono perlopiù come strumento di difesa o di conferma, noi umani utilizziamo invece normalmente per modificare la nostra coscienza: calmare, manipolare o alterare, stimolare.

Sostanze psicoattive fortemente presenti nella nostra storia, impiegate per usi rituali e cerimoniali, o per stimolare il nostro metabolismo e entrate talmente ormai nel quotidiano da aver smarrito la percezione del loro potere alterante. Come la caffeina – contenuta, oltre che nel caffè, anche nel tè, e in misura minore in diverse altre essenze, tra cui il cacao – che, assieme alla morfina, derivata dal papavero da oppio (Papaverum somniferum), e alla mescalina (ricavata dal cactus Lophophora williamsii, noto come peyote e da quello detto di San Pedro-Trichocereus macrogonus var. pachanoi), vengono raccontate con uno stile affabulatorio che mira a coinvolgere, tra domande condivise e l’irrompere di spiazzanti provocazioni, allineando dati puntuali di ricerche, interviste a testimoni e variamente esperti – di orticoltura, giurisprudenza, nomenclatura chimica, venditori di sementi, esponenti del dipartimento antidroga e della controcultura, botanici e etnobotanici, indigeni portatori di medicina –, esperienze ed esperimenti, anche su di sé, e verifiche dirette nel proprio giardino.

Il resoconto delle sperimentazioni giardiniere, estetiche e farmacologie sui papaveri effettuate da Pollan nel contesto della guerra alla droga del 1996-97, viene così riproposto in una versione integrale, allora autocensurata. Dalla semina allo sfrontato fiorire, alla descrizione funzionale della serica friabilità dei petali di quei fiori così spesso soggetto prediletto da tanti pittori, all’incisione delle capsule incoronate da cui trarre l’amara linfa lattiginosa da essiccare. Tra riletture delle Confessioni di un mangiatore d’oppio di De Quiencey e le descrizioni dei sogni avuti da Coleridge sotto il suo effetto, nonché la sottolineatura dell’importanza nella medicina fin dalla sua versione ottocentesca, sotto forma di laudano, si evidenzia il paradosso per cui acquistare semi e coltivare papaveri, non di per sé illegale, lo diventava quando il coltivatore sa come ricavare l’oppio.

Emil Nolde, Große Mohnblumen, acquarello su carta, 1920

Alla narrazione de Le porte della percezione di Aldous Huxley si richiama poi l’esperienza della partecipazione a una cerimonia di condivisione della mescalina tratta dal cactus peyote – pianta condannata già nel 1620 dall’inquisizione messicana – che, rimuovendo il filtro della coscienza che normalmente modula le enormi quantità di informazioni di cui siamo inondati, induce una radicale immersione della mente in un presente dalla vastità inestinguibile, sensorialmente dilatato, con la capacità di percepire centinaia di sfumature di colore.

Apprezzata invece da Antonin Artaud per cui aveva il “potere di re-incantare un mondo che gli dei avevano lasciato”, ma adoperata da almeno 6000 anni dalle popolazioni dell’America del nord, viene abbracciata come religione negli anni 80 dell’800 dagli indiani nativi confinati nelle riserve, che, secondo una legge del 1994 son gli unici ad avere il diritto di consumare il peyote.

Nel caso della caffeina, ricavata invece perlopiù a partire dalle piante di Coffea e, per il tè, di Camellia sinensis, che nel corso della loro evoluzione hanno imparato a produrla per dissuadere gli animali dal mangiarle, disorientandoli o rendendoli inappetenti, o per amplificare la memoria di impollinatori resi così più affidabili nel tornare sui fiori, l’esperimento di Pollan è quello di smettere di assumerla. Rinunciando all’incremento che anche in noi umani induce nella capacità di attenzione e concentrazione, memoria, prontezza, vigilanza.

Valutando così per sottrazione gli effetti di alterazione di stato, che sembra tuttavia normale proprio perché così diffuso e condiviso, in una forma di dipendenza regolare che coinvolge il 90% delle persone di tutto il mondo. Anche se, in realtà non ci dà nuova energia, mentre non fa che nascondere o procrastinare l’assalto della stanchezza. Magari fino al prossimo caffè. Quella tazza di “sole concentrato”, come lo definiva il naturalista Alexander von Humboldt.

Ludwig Passini, Artisti al Caffé Greco, 1856

L’incontro tutto sommato recente delle piante che producono caffeina con l’Occidente data intorno alla prima metà del 600, quando, sul modello delle città arabe le prime botteghe di caffè (solo a Costantinopoli se ne contano 600 nel 1570, dove esso costituisce per il mondo islamico una valida alternativa all’alcol) si diffondono a Venezia (1629) e poi in Inghilterra (1650, Oxford). E lo stesso per il tè dall’oriente, ricco di rituali e accessori, per quanto associato specialmente alla vita domestica. Per i Caffè, si tratta spesso di luoghi distinti in base alle diverse tipologie dei frequentatori – scienziati, assicuratori, mercanti, cerchie letterarie – e non sarà un caso se una delle prime riviste inglesi, The Tatler (1709), definirà le diverse rubriche in cui articola, proprio con i nomi dei vari Caffè, volta a volta identificando il tema in base all’interesse dei suoi habitué. 

Paul Signc, La salle à manger, 1886

Per quanto Alexander Pope nel Ratto del ricciolo renda omaggio al potere dell’infuso “che lo statista rende saggio”, oltre a somministrare bevande, i nuovi spazi pubblici, sono occasione di scambio d’informazioni e opinioni tanto da meritare, seppur inutili, molti tentativi di chiusura come focolai di dissenso. Con Defoe, Swift, Sterne si sostiene addirittura che la cultura dei Caffè abbia modificato il tono formale della prosa inglese nel segno dell’introduzione del parlato. Ma in ogni caso, certo un po’ estensivamente, si sostiene che “la caffeina ha influenzato l’illuminismo, l’esplosione della scienza e il razionalismo … ha contribuito alla rivoluzione scientifica e quella industriale”. Tra i suoi fans, ferventi sostenitori della bevanda, Voltaire, Diderot e Michelet, per il quale “accresce la purezza e la lucidità … illumina in un istante la realtà delle cose con il lampo della verità”, nonché il consumatore di impensabili dosi di caffè Honoré de Balzac (che suggerisce anche una ricetta di somministrazione “a secco”, in un resoconto su come ci si sente quando si consuma troppa caffeina).

Con la caffeina e il diffondersi di un nuovo tipo di pensiero, piuttosto lineare e astratto, si innesca una serie di effetti trasformativi su economia, vita quotidiana, sviluppo della scienza, stili di vita (non ultimo il valore aggiunto in termini di salute pubblica di bevande che prevedevano la bollitura, con l’acqua, dei microbi).

Rimpiazzando almeno parzialmente l’uso dell’alcol, caffè e tè aumentano la resistenza e la memoria, incoraggiano la concentrazione, esaltando lucidità e potenziamento cognitivo, ideali nel passaggio dal lavoro fisico dei campi a quello di precisione del tenere registri e manovrare macchinari

Nuovi rituali scandiscono la giornata – se Thomas Stearns Eliot farà dire a un suo personaggio “Ho misurato la mia vita con cucchiaini da caffè” (J. Alfred Prufrock, ne Il canto dell’amore) – assieme a una nuova disciplina temporale del lavoro che induce l’aumento della produzione, e il lavoro notturno, consentito dal mantenersi svegli e vigili di là dai ritmi del sole. Mentre spiccano episodi come l’affermarsi a metà anni 50 del 900 del moderno concetto di pausa caffè (a lungo in dubbio se da retribuirsi per l’aumento indotto della produttività).

Fino a far della caffeina un nuovo bene di lusso quotidiano, ancora oggi, specialmente per quanto riguarda il caffè, in gran parte stretto dentro una filiera fondata su un piccolo numero di multinazionali in un regime di sfruttamento economico – “droga perfetta … anche per l’ascesa del capitalismo”.

Resta da dire dei molti temi via via incrociati in un racconto a prospettive multiple, con letture storiche, antropologiche, biochimiche e botaniche che variamenti interloquisce con esperti. Della natura bifronte di sostanze considerate in diversi periodi e orizzonti, volta a volta tossiche e illegali, strumento per pratiche spirituali, mercanzia; dei diversi significati che a queste piante psicoattive attribuiamo spesso piuttosto in forza del contesto culturale di partenza che delle loro qualità intrinseche; del vantaggio di una loro felice strategia evolutiva che, utilizzando la specie umana come vettore in ragione della nostra predilezione per gli effetti psicoattivi delle sostanze da loro offerte ha consentito loro – una volta sottratto agli arabi il monopolio del commercio di caffè, da allora coltivato dapprima a Giava, dalla Compagnia olandese delle indie orientalie dai francesi alla Martinica – di accrescersi mirabilmente in termini di numeri e habitat conquistati.

Dalle tutto sommato ristrette zone di origine in quasi 11 milioni di ettari per il caffè e più di 4 per il tè. E ciò, malgrado l’esigente necessità di particolari condizioni di crescita – molta pioggia in altitudine – peraltro sempre più insidiate dal cambiamento climatico.

Michael Pollan, Piante che cambiano la mente, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, Adelphi,pp. 293, € 20,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 47, Supplemento de Il Manifesto del 4 dicembre 2022

Giacomo Balla, auto caffè, 1928

Piante mediatrici. In rassegna

Discrete e pressoché onnipresenti, per quanto diverse per fasi e culture, le tracce dei nostri rapporti con il mondo vegetale si possono inseguire su vari fronti.

Che siano le raffigurazioni degli iris sulle pareti del palazzo di Cnosso o dell’oleandro su quelle delle ville pompeiane, il nome della centaura – o fiordaliso – da quello del centauro Chirone che con questa pianta si sarebbe curato, o del classico narciso, citato già da Omero, Virgilio e Ovidio, che dal Mediterraneo, percorrendo al contrario la Via della seta, arriva a figurare nei capodanni cinesi, propagandosi naturalmente lungo il percorso. O, come pure, che si tratti del diffondersi in Europa della Malvarosa, o Alcea rosea, riportata probabilmente dai crociati, o dell’Anemone, fiore spettacolare, che i pellegrini, ritenendolo miracoloso, sparpagliano al ritorno in patria mentre gli ottomani lo selezionano coltivandolo nei loro giardini.

Fiori mediatori, chiamati, come il gelsomino, a inghirlandare nell’India induista le statue degli dèi, o la calendula, impiegata nei templi latini prima d’essere consacrata alla Vergine Maria o, ancora, la calla, nativa del Sudafrica ma arrivata poi ovunque, fin tra le comunità indigene del Messico, che la utilizzano nelle cerimonie religiose.

Iris, illustrazione Charlotte Day

Fiori eletti a emblemi, come ai tempi della monarchia francese di Clodoveo avviene per gli iris, che finiscono anche sugli stemmi dei samurai, mentre, sempre in Giappone, dal XIII secolo è il crisantemo a diventare simbolo della famiglia reale. E una Fritillaria meleagris, con la sua sorprendente variegatura a scacchi, sarebbe tra gli elementi per identificare il presunto, unico ritratto realizzato in vita di un William Shakespeare che la tiene in mano sul frontespizio dell’Erbario del contemporaneo botanico inglese John Gerard.

E non si tratta qui che di alcuni soltanto dei riflessi della pervasiva presenza delle piante nella nostra vita che, in quanto alimenti, farmaci, decorazioni, coloranti, tramite simbolico e strumenti rituali, Noel Kingsbury ci racconta ne La storia dei fiori e di come ci hanno cambiato la vita in un intricato susseguirsi di alterne vicende, funzioni e proiezioni, mode e interessi (con le illustrazioni di Charlotte Day, L’ippocampo, pp. 216, € 19,90).

Analizzate per fasi storiche, la popolarità e le mode dei fiori vengono evidenziate, specialmente in giardino. Sottolineando il fondamentale discrimine dell’avvio dei grandi viaggi di esplorazione del Nuovo mondo – e relativi vegetali al seguito, dal girasole del Nord America sbarcato in Spagna con il ritorno dei conquistadores per diffondersi in breve nel resto d’Europa, all’inizio soltanto come pianta ornamentale.

Così, mentre nell’Inghilterra elisabettiana la lavanda veniva offerta a mazzetti, associata all’amore, come oggi usa fare con quelli di rose, e nel 600 il caprifoglio dal profumo dolce e il fusto contorto veniva fatto crescere attorno a un palo e non, come adesso, in forma rampicante, già nel secondo 700 la coltura del giacinto si era talmente diffusa nei Paesi Bassi (nel 1767 ne esistevano circa 590 varietà) da scalzare il predominio di tulipani, rose e narcisi e, solo allora, il sambuco, fin lì disprezzato probabilmente per l’essere associato con il mondo pagano, diventava pianta decorativa con l’affermarsi in Inghilterra dello stile del giardino paesaggistico.

Papavero, illustrazione Charlotte Day

La diffusione sistematica dei fiori si avrà però a partire dall’800. Con la coltura selettiva e gli incroci delle rose, le dalie introdotte in Europa dal Messico nel 1803. Poi con le camelie, assieme all’intensificarsi dei contatti tra Oriente e Occidente (di metà secolo è il romanzo di Alexandre Dumas figlio La signora delle camelie, adattato ne La traviata da Giuseppe Verdi) e, da fine 800, con le sudafricane fresie.

In parallelo con l’espansione di serre, piante in vaso e un mercato botanico di massa, anche il 900 avrà poi le sue mode e infatuazioni.

Il lupino degli anni 60 e, negli anni 90, le infiorescenze sferiche o a ombrello degli agli ornamentali.

Fino alla produzione in scala industriale – con l’orchidea falena, la Phalaenopsis, che facilmente condivide le condizioni di vita delle nostre abitazioni – di una pianta un tempo riservata a pochi ricchi e, a fine secolo, con l’affermazione di rudbeckie e echinacee, ispirandosi alle praterie nordamericane e nel quadro di una nuova attenzione ecologica anche in giardino al rispetto degli habitat e al ruolo degli impollinatori. In un corto circuito che vede oggi il ricorso a una pianta meravigliosa dalla storia antichissima e presente in tanti giardini e tradizioni religiose e filosofiche orientali come il loto, impiegata anche per filtrare le acque e ridurre l’inquinamento.

Nuove estetiche, etiche, e mode. Certo, come sempre ricordando che, anche per queste ultime, tutto è relativo. Come nel caso dell’oleandro giunto nel 500 in Inghilterra e, per il suo inedito per quelle latitudini esser sempreverde, accolto nelle dimore più benestanti, come pianta esotica per i giardini d’inverno.

Noel Kingsbury, La storia dei fiori e di come ci hanno cambiato la vita, illustrazioni di Charlotte Day, L’ippocampo, pp. 216, € 19,90, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 46, Supplemento de Il Manifesto del 27 novembre 2022

Ibiscus, illustrazione Charlotte Day
Loto, illustrazione Charlotte Day

Metamorfosi. Dai diversi punti di vista

Se, in un dibattito che opportunamente si fa via via più trasversale, viene evidenziata ormai anche da parte dei filosofi la pervasiva centralità euristica delle metamorfosi nella lettura del continuo rimescolarsi e trasferirsi di sempre inattuali appartenenze (si veda per tutti, Emanuele Coccia, Metamorfosi. Siamo un’unica, sola vita, Einaudi 2022), è nell’ambito delle scienze naturali che questo divenire trasformativo si rivela come costitutivo della vita. Specialmente evidente in quelle animali dov’è presente praticamente in tutti i gruppi, con l’eccezione della componente – decisamente minoritaria – di rettili, uccelli e mammiferi.

Ce lo racconta, presentandocene una serie esemplificativa per varietà e tipologie e, come anticipato, provando a veder le cose dai diversi punti di vista che quelle trasformazioni via via introducono, il biologo Marco Di Domenico nel suo Taccuino delle metamorfosi, Codice edizioni, pp. 291, € 21,00.

Marco Di Domenico, Polipi o meduse

Con un’avvincente capacità descrittiva – che si avvale anche delle espressive illustrazioni in bianco e nero dell’autore che inframezzano le pagine – e uno stile di scrittura che svelto ci accompagna con mano lieve nell’impervia terminologia tecnica, si procede per via di metamorfosi sulla scia dell’evoluzione, dalle inafferrabili spugne alle meduse, agli animali-muschio, da sogliole e molluschi a farfalle e coleotteri, fino a rane, salamandre, tritoni. Spesso davvero sorpresi di scoprire nella libellula alata e nella sua ninfa acquatica tre volte più piccola lo stesso animale, o nella lunga, silenziosa vita sotterranea della ninfa della cicala (fino a17 anni) la premessa perché, da adulta, possa completare, cantando per poche settimane, la sua esistenza e il ciclo riproduttivo.

In un testo capace di associare puntualità d’informazione ad una resa pressoché visiva dei processi che si dispiegano sotto i nostri occhi profani. E al tempo stesso di disseminare gli snodi di domande più ampie, di rilancio di questioni ulteriori. Fino alle ulteriori evoluzioni della metamorfosi.

Marco Di Domenico nel suo Taccuino delle metamorfosi, Codice edizioni, pp. 291, € 21,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 45, Supplemento de Il Manifesto del 20 novembre 2022

L’intimità dell’arrampicarsi sugli alberi

La mia vita con gli alberi di Karine Marsilly si muove con efficacia secondo il modulo narrativo del racconto autobiografico di un saper fare che, oltre la maestria del mestiere, finisce per riverberarsi in una complessiva visione del mondo.

Un modo di operare che si fa orizzonte di pensiero, filosofia di vita, dove quei saperi e quelle pratiche s’incarnano tra predilezioni, scelte di vita, incontri più o meno fortuiti e fortunati (Einaudi, pp 171, € 18,50, con illustrazioni di Anna Regge).

Con un calco linguistico di cui non si sentiva il bisogno abbinato a un’espressione che genericamente rinvia all’arrampicarsi sugli alberi, il sottotitolo recita Come si diventa un’arborista tree-climber, tentando, non a caso a fatica,  di definire un ambito d’intervento in effetti sospeso. Tra il paradosso che in molti casi vede la cura degli alberi affidata a potature – magari chirurgiche – e abbattimenti, e la particolarità di un intervento da presso, che si fa quasi intimo in ragione di quell’arrampicarvisi per via di corde e moschetti.

Così, anche il racconto delle tecnicalità di una professione riconosciuta, dove lo è, soltanto da una ventina di anni – e in particolare tramite la voce di una delle ancora rare donne in un ambiente perlopiù, anche culturalmente, maschile – introduce all’etica di una cura-potatura al servizio del benessere della pianta, che si rifiuta di abbattere un albero senza un motivo valido e, nel caso, senza mutilarlo, rispettando anzi e valorizzandone la personalità, tenendo conto di architetture, tendenze di crescita, forme di invecchiamento, della natura del suolo e delle relazioni che la parte sotterranea, di volume pari o oltre quello della superficie aerea, intrattiene con quest’ultima.

Esser meticolosi, affinare tecniche di spostamento in chioma, salita veloce su corda, associando intuizioni e abilità, darsi tempo, conoscere e saper attendere il momento adatto per intervenire, calcolando traiettorie, cambio dei venti, va insieme, presuppone e incentiva una sensibilità aumentata a dismisura, più attenta, fatta della capacità di guardare i paesaggi da altri punti di vista, della gioia dell’arrampicare, del legame anche olfattivo con gli alberi, dagli aromi agrumati della tuia, al profumo sottile di miele e vaniglia del viburno tino. E sostenuta dalla scelta controcorrente, che non è un vezzo, di utilizzare al posto della motosega che lacera i tronchi, le varie dentature del taglio a mano di una chirurgica sega giapponese che trancia, senza scalfitture da rimarginare, nel silenzio concentrato, attento, ricettivo ad ogni sensazione, scricchiolio.

Tutto si tiene nella vicenda narrata da Karine, dalle vacanze con il nonno tra gli abeti nella valle di Chamonix, alla strada che per andare a scuola attraversava la foresta, fino poi anche all’apprendistato della vita in città, dove conoscere gli alberi per nome e capire la loro importanza nel contesto urbano “fa parte delle conoscenze da acquisire come le lingue straniere e la storia”.

Così, le esperienze nei progetti di conservazione ecologica, la mediazione tra interessi e punti di vista, l’insegnamento della potatura con attenzione ai cicli della linfa, in relazione con quelli della luna, il lavorare in proprio fino a essere ammessa nella cerchia dell’élite del mestiere, vanno insieme a conferenze, passeggiate esplorative, dimostrazioni di arrampicata, di potature di fruttiferi, all’impegno con associazioni civiche di protezione di tigli secolari, o delle siepi di alberi tipiche di alcuni paesaggi, contro incompetenza, perizie disinvolte, potature eccessive, alla realizzazione del suo parco alberato di liriodendri, salici piangenti, sommaci e sequoie, terreno di studio per verificare convivenze e incompatibilità di carattere, al salvataggio nel cortile di una scuola di una antica per quanto possibile in Europa sequoia gigante della California  (tra quelle arrivate qui soltanto a partire dal 1853, ma che nella originaria Sierra Nevada vivono ormai da oltre tremila anni). Ma anche al raccogliere a 60 mt di altezza nella foresta Nera gli strobili di alcuni esemplari unici di abeti di Douglas, da preservare riproducendoli, o allo spettacolo ideato nel 2005 per il Festival musicale nel parco di Vallon de la Dollée, con musicisti che si rimpallano note e canti su piattaforme tra gli alberi. Ancora, sempre alberi, con il loro universo di animali, uccelli, funghi. Alberi che raramente sfuggono al fatto d’essere considerati come il resto prodotti di consumo, percepiti nell’immaginario collettivo, volta a volta come presenze fedeli, date per scontate o minaccia, disturbo. Alberi che, quando malati, sono in realtà perlopiù maltrattati, disturbati nella loro architettura, nel loro habitus. E che vanno invece lasciati crescere, magari protetti e riconosciuti nei loro diritti in legislazione.

Karine Marsilly, La mia vita con gli alberi. Come si diventa un’arborista tree-climber, illustrazioni di Anna Regge, pp 171, € 18,50, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 44, Supplemento de Il Manifesto del 13 novembre 2022

L’inesausta immaginazione inventiva delle piante

Il volumetto che il drammaturgo, poeta e saggista belga Maurice Maeterlinck dedica a L’intelligenza dei fiori nel 1907 – quattro anni prima di ricevere il premio Nobel per la letteratura … per la ricchezza d’immaginazione e la poetica fantastica … della sua produzione – risulta a tratti di un’inaspettata attualità (ora da Elliot, a cura di Giuseppe Grattacaso, pp. 105, €14,50).

Noto in particolare per le sue opere teatrali, specialmente nella prima fase di stampo simbolista, come Pelléas et Mélisande (1892) – musicata poi per la scena da Gabriel Fauré nel 1898, e alla base di un’opera lirica di Claude Debussy (1902), di un poema sinfonico di Schönberg  nel 1903, nonché di una suite orchestrale di Sibelius nel 1905 – o l’Oiseau bleu, messo in scena a Mosca nel 1908 da Stanislavskij (e in Italia da Luca Ronconi nel 1979), fu parallelamente naturalista autore di diversi saggi di successo come quelli su api, formiche e termiti. Botanico appassionato e sperimentatore in giardino, con un linguaggio a un tempo rigoroso e immaginifico, empaticamente partecipe nel suo esser tecnicamente descrittivo, inanella le prove di un’intelligenza avveduta e vivace del mondo vegetale che si caratterizza per ingegnosità e lungimiranza.

Georges Jules Victor Clairin, Sarah Bernhardt come Mélisande

Concentrando l’analisi sui temi della fecondazione incrociata e dei sistemi di disseminazione, evidenzia sulla base delle conoscenze del tempo l’immaginazione inventiva, ad esempio, della mimosa pudica o della ginestra, dell’acquatica vallisneria, ma anche del filo d’erba qualsiasi, la sua “piccola intelligenza, indipendente, instancabile, inaspettata”. Si enumera così la ricchezza di espedienti messi in atto da un’intelligenza all’opera, ch’è d’ispirazione – in una sorta di biomimetismo – per scienze come meccanica, balistica, navigazione aerea, ma che è anche all’origine di quei “motivi architettonici e musicali presi direttamente in prestito dalla natura”. Ne emerge il continuo lavorio d’invenzione di un processo creativo che procede per via di varianti, ritocchi, semplificazioni e quindi perfezionamenti. Mai fissato, sempre in divenire, al di là dei nomi con cui tentiamo di stabilizzare tipi immaginari.

Per quanto parte di una ricerca fluttuante tra pensiero poetico, metafisico e misticismo, alla ricerca delle manifestazioni  di una sorta di diffusa intelligenza generale, anima del mondo, genio universale che penetra gli organismi nella varietà delle sue forme, quest’attenzione per l’intelligenza animale e vegetale, per i tempi senz’altro anticipatrice, riconduce l’umano all’interno di un macrocosmo, in continuità con la natura, evidenziandone la vanità puerile di credersi al di fuori e al centro dell’universo.

Maurice Maeterlinck, L’intelligenza dei fiori, Elliot, a cura di Giuseppe Grattacaso, ed. or 1907, pp. 105, €14,50, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 43, Supplemento de Il Manifesto del 6 novembre 2022

Giardini in rassegna d’ispirazione massonica

Le tracce in giardino di un’ispirazione esoterica e massonica si moltiplicano, a cavallo tra 700 e 800, in parallelo e talvolta in relazione diretta con il diffondersi anche in Italia del modello del giardino paesaggistico all’inglese che, reagendo alle precedenti impostazioni formali e geometriche, propone invece un rapporto privilegiato con la natura, per quanto tutta accortamente ricostruita e pervasa di testimonianze della storia.

Assieme a elementi ripresi dalla tradizione alchemica, astrologica, cabalistica e rosacrociana si ritrovano così nei giardini simbologie legate agli strumenti della lezione muratoria, come squadre e compassi, elementi architettonici, scultorei, disegni ornamentali di chiara ispirazione massonica, come coppie di colonne, mentre obelischi, piramidi e sfingi rinviano all’antica sapienza egizia. Sacrari, tempietti, labirinti, son dedicati all’Amicizia, alla Saggezza, alla Virtù, torri, cippi, urne funerarie, presentano iscrizioni, magari scolpite in un contesto di rovine.

Elementi tutti – dalla composizione del disegno degli spazi alla valenza simbolica della scelta delle piante – intesi a costruire il tratto comune di un percorso iniziatico che abbina la scoperta di significati riposti e una forma di ricerca e rigenerazione interiore che trascorre per ombre e lumi.

Un corposo volume a cura di Giovanni Greco e Marco Rocchi ripercorre ora i Segreti massonici italiani. Sottotitolo Giardini, simboli e luoghi d’ispirazione esoterica (Mimesis editore, pp. 409, € 35,00). Certo con mano larga, per quanto si consideri come il sincretismo e la complessa stratificazione di ritualità e simbolismi renda labili i confini della tradizione muratoria.

Assimilando, in una sorta di rassegna di episodi diversi, precedenti e sviluppi. Precedenti – come il cinquecentesco giardino romano di Agostino Chigi (noto poi come villa Farnesina), luogo di tradizione umanistica e sperimentazione, deputato alla conoscenza dei segreti del mondo naturale, per una cerchia ristretta, o il seicentesco Giardino di Villa Barbarigo Pizzoni Ardemani a Valsanzibio, sui primi Colli Euganei (tra il 1665 e il 1696) dal salvifico percorso – e opere ispirate allo spirito massonico, come il Giardino inglese della reggia di Caserta o quello, ricco di allusioni e moduli del pensiero muratorio che il patrizio veneto Angelo Querini disegnò di persona ad Altichiero. E, con l’800, gli interventi del massone Giuseppe Jappelli, specialmente il giardino di Villa Cittadella Vigodarzere Valmarana, di Saonara, o quelli di Ignazio Alessandro Pallavicini e dello scenografo Michele Canzio, concepiti a Villa Durazzo Pallavicini a Pegli, come una rappresentazione in più atti.

Ciucioi a Lavis, in val di Cembra

Ancora, il percorso iniziatico del parco Stibbert a Firenze e quello massonico dei Ciucioi a Lavis, in val di Cembra, un giardino merlato, addossato per via di terrazzamenti, guglie, rampe, e fin la facciata di una chiesa gotica, disposti sulle pendici del colle del Paion. Una sorta di tempio dai percorsi simbolici realizzati da Tommaso Bortolotti fra il 1840 e il 1860 con serre di rare piante esotiche, limonaie, aranceti, balconi pensili.

Perché nell’universo massonico anche molte piante comportano riferimenti simbolici, dalla melagrana all’alloro, dalla rosa, fiore del segreto, all’ulivo, fino all’acacia che rinvia al rituale di elevazione.

Giovanni Greco e Marco Rocchi, Segreti massonici italiani. Giardini, simboli e luoghi d’ispirazione esoterica, Mimesis editore, pp. 409, € 35,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 42, Supplemento de Il Manifesto del 30 ottobre 2022

Villa Durazzo-Pallavicini a Genova Pegli

Dalla parte degli ecosistemi

L’analisi della complessità della rete di ecosistemi in cui siamo immersi, cui fa però subito seguito l’indicazione dell’urgente, necessaria revisione delle pratiche per viverci in equilibrio, proposte per Slow Food da Francesco Sottile, esperto di biodiversità negli agrosistemi, inizia e finisce con un accorato invito a cambiare radicalmente postura.

A cercar di guardar le cose dal punto di vista del suolo, degli organismi vegetali, della flora spontanea e coltivata, degli organismi animali, della fauna selvatica e allevata, di risorse quali luce e acqua. Insomma, Dalla parte della natura, come recita il titolo del volume, a Capire gli ecosistemi per salvare il nostro futuro (Slow Food Editore, pp. 171, € 14,50).

Smettendo di pretendere di governare la natura, destagionalizzando, omolo­gando produzioni e annullando diversità e, secondo un modello che, con la cosiddetta Rivoluzione verde, ma poi ancora oggi con le politiche europee per l’agricoltura, privilegia l’agroindustria delle monocolture e della creazione di nuove varietà. Quelle che riducono la biodiversità senza tener conto delle relazioni con i territori e della salute degli ecosistemi.

Coltivazioni nella piana di Castelluccio

Si evidenziano così le correlazioni di questo modello con la crisi climatica in atto, dal ricorso massiccio a fertiliz­zanti e pesticidi, necessari per sostenere le varietà “migliorate”, all’insostenibilità – in termini di costi ambientali – dell’allevamento intensivo. Con ricadute sociali a scapito di un’agricoltura familiare, di piccola scala, multifunzionale, e relativa perdita di sovranità sulle varietà tradizionali nella produzione del seme.

Mentre invece, in forza di un legame virtuoso tra vocazione ambientale dei territori e comunità, un’attenta gestione orga­nica del suolo e la conservazione delle risorse, una diversifica­zione delle colture nel senso del mantenimento della diversità gene­tica locale, indicano nella biodiversità dell’agroecologia – con il concorso dell’interazione tra sistema produttivo policolturale, multi­funzionale e risorse naturali, tra protagonisti vegetali e animali – uno strumento per restituire equilibrio all’ecosistema. E, assieme, un paradigma di convivenza naturale dove ogni elemento ha un ruolo e il cibo, come nutrimento e strumento di sviluppo, recupera la propria centralità.

Francesco Sottile, Dalla parte della natura. Capire gli ecosistemi per salvare il nostro futuro, Slow Food Editore, pp. 171, € 14,50, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 41, Supplemento de Il Manifesto del 16 ottobre 2022

Nature urbane berlinesi. Premio Scarpa per il giardino, Fondazione Benetton

L’attualità e urgenza del tema delle nature in città, in quelle città dove sempre più si concentra la nostra presenza, hanno un’importante, peculiare, storica manifestazione vivente nella vicenda del berlinese Natur Park Schöneberger.

Con i suoi quasi due chilometri di lunghezza, il parco sorge sui terreni dell’ex scalo merci del Südgelände, abbandonati per molti decenni, dal dopoguerra e poi, con una lunga mobilitazione a partire dagli anni 80, sottratti al progetto di una nuova stazione ferroviaria dall’azione di attivisti e ecologisti. Finché, al volgere del millennio, non si arriva all’apertura al pubblico di un parco naturale, esito dell’incrocio di esigenze di abitanti, pratiche sociali e interventi artistici – del gruppo ODIOUS, insediato nel parco – nel dispiegarsi condiviso di una nuova attenzione per i processi naturali intervenuti nei decenni in quei “vuoti”, nelle zone abbandonate della citta – dalla conservazione della biodiversità alla valorizzazione della crescita spontanea della vegetazione tra strutture ferroviarie – all’interno di un processo di ridefinizione della cultura contemporanea dello spazio pubblico.

Vicenda emblematica, pur nella sua irriducibilità. Anche per l’appartenenza del Natur Park Schöneberger a una serie cittadina di parchi che a partire dalla Berlino di spazi “vuoti” e rovine del dopoguerra, del muro e post, costituisce la sua vocazione paesaggistica.

NaturPark Berlino, foto Marco Zanin

È in questa sua veste plurale e con il corollario di alcune specifiche caratteristiche storiche – il rilievo della “scuola di ecologia urbana” nella costruzione di una coscienza diffusa del paesaggio, la storia del sistema degli spazi aperti della città –, ma al tempo stesso in forza del suo valore, attuale in termini di indirizzo progettuale che il Natur Park Schöneberger Südgelände e la natura urbana berlinese han meritato per la sua 32a edizione il Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino, che la Fondazione Benetton conferisce ogni anno dal 1990 proprio a un luogo particolarmente significativo (ed. a cura di Patrizia Boschiero, Thilo Folkerts e Luigi Latini, Antiga, pp. 244, € 20). In forma di ricerca collettiva, con indagini, viaggio di studio, incontri, interviste; connessa campagna fotografica e mostra documentaria.
In una sorta di ulteriore passeggiata epistemologica e esperienziale.

NaturPark Berlino, foto Marco Zanin

Natur Park Schöneberger Südgelände e la natura urbana berlinese, a cura di Patrizia Boschiero, Thilo Folkerts e Luigi Latini, edizioni Antiga, pp. 244, € 20 (32a edizione del Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino della Fondazione Benetton), recensita da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 40, Supplemento de Il Manifesto del 9 ottobre 2022

NaturPark Berlino, foto Marco Zanin