Alla Reggia di Caserta la grande mostra sui giardini. Frammenti di Paradiso

Jakob Philipp Hackert, Paesaggio con il Palazzo di Caserta e il Vesuvio, 1793, Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid

Ancora, finalmente, una mostra sui giardini. Non che di recente non vi siano stati importanti episodi in tal senso. A Torino, alla Venaria reale, nel 2019 una grande esposizione assumeva il tema cosmopolita delle relazioni come innesco narrativo per proporre un Viaggio nei giardini d’Europa. Da Le Nôtre a Henry James.

Ora, in una contingenza particolarmente felice – e fortemente perseguita – che vede protagonisti il parco e la reggia di Caserta, un’operazione a tutto campo intitolata Frammenti di Paradiso. Giardini nel tempo alla Reggia di Caserta, a cura di Alberta Campitelli, Alessandro Cremona e Tiziana Maffei, propositiva  direttrice della Reggia, propone una lettura fortemente dialogica e accessibile della storia del giardino attraverso il prisma della loro rappresentazione (fino al 16 ottobre 2022, ma con in animo una proroga più che probabile).

Un ulteriore, non piccolo passo di un progredire, ancora a tratti a fatica, di attenzione – anche a livello istituzionale – per i giardini come snodo centrale dell’evoluzione del gusto.

Pur nel privilegiare il punto di osservazione e messa a fuoco costituito dai giardini del Parco reale della Reggia di Caserta, in particolare cioè nell’epoca e tramite gli stili del suo apogeo, tra il 700 e primo 800 delle corti, la formula scelta dai curatori mobilita l’intera messa a sistema della più recente ricerca degli studi sulla storia del giardino attorno all’evidenza di molti dei momenti e degli episodi salienti della sua vicenda – ruoli, simbologie, fasi e episodi, storie e protagonisti –, italiana e non soltanto (catalogo Colonnese editore, pp. 398, € 49, con saggi di bilancio ripensati perlopiù in stretta sinergia con le scelte espositive, ma che avrebbe meritato migliore qualità di stampa, evitando pagine raddoppiate e inversioni di immagini).

Spaziando così, a tratti ben oltre la penisola, si procede per via di collegamenti, digressioni e andirivieni, che ricomprendono precedenti, da metà 500, e sviluppi successivi, nella focalizzazione di temi e nell’individuazione delle testimonianze elette per illustrarli, coniugando notorietà dei prestiti con una ricca dotazione di oltre 150 opere tra dipinti, sculture, arazzi, oggetti d’arte, progetti, vedute, modellini, erbari, incisioni. A partire dalle diverse fisionomie dei giardini delle residenze borboniche illustrate nella prima sezione della mostra per il tramite di una ricca serie di progetti e vedute. Alcune, espressamente commissionate, talvolta previo approvazione reale del bozzetto – il caso del napoletano Salvatore Fergola, che nel 1827 ritrae la reggia restituendo rilievo al panorama, sullo sfondo del Vesuvio da San Leucio – altre raccolte a raggera, incastonate in miniature su avori, sul coevo tavolino meccanico di mogano, “alla foggia ercolanese”.

Centralità e rilievo della committenza della famiglia Borbone sono evidenziate, Carlo in primis – con le sue predilezioni botaniche, ritratto da Jean Ranc, raffigurato in apertura di mostra giovanetto nel suo studiolo, con in mano un gelsomino. Sempre in dialogo con la cultura giardiniera del tempo interpretata dal progettista Luigi Vanvitelli (poi dal figlio Carlo) nel suo ispirarsi alla precettistica più autorevole e affermata (Andrè Mollet, Antoine Joseph Dézallier d’Argenville) e ai diversi modelli dei giardini di rappresentanza, specialmente francesi. Poi, Ferdinando IV e Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, nella fase che vedrà la realizzazione nel parco della reggia del Giardino inglese, progettato a partire dal 1786 con John Andrew Graefer. Espressione di una nuova sensibilità e della moda per l’informalità ricostruita del paesaggio. Peraltro presto divenuto anche luogo di acclimatazione per piante esotiche nonché di sperimentazione botanica, e ripetutamente ritratto e quasi all’origine dell’invenzione di un nuovo genere, come testimonia Jakob Philipp Hackert che più volte mette insieme nelle sue vedute motivi provenienti da lì con elementi di fantasia.

Se nel disteso processo di sviluppo dei giardini della reggia di Caserta vanno esprimendosi e convivono diversi elementi e tipologie, con l’imprescindibile riferimento ai modelli francesi e poi l’innesto dello spirito del giardino paesaggistico inglese, il retaggio di quelli della tradizione italiana meritava d’esser ripercorso nei suoi principali snodi, fin dalla metà del 500.

È quanto, sul crinale di un dialogo serrato con i suoi paesaggi propone la sezione dedicata a presentare Il giardino in Italia. A partire da quelli delle proprietà medicee elette a presidiare immaginari e territori, raffigurati nelle celebri lunette attribuite a Giusto Utens, come poi, a testimone dell’evoluzione del giardino barocco, con la Veduta di Villa Cetinale presso Siena di Monsù Giacomo.

Giusto Utens, Villa La Petraia, 1599 – 1603, Villa La Petraia, Firenze

Oltre a quelli delle maggiori dinastie della penisola, dai della Rovere ai Savoia, figurano gli episodi salienti della civiltà delle ville venete, con il giardino come elemento di mediazione con le ragioni del territorio, e una ricca, riepilogativa, ricognizione di testimonianze emblematiche di ambito romano tra secondo 500 e 800, dalla Veduta del Belvedere e dei Giardini Vaticani, del 1589 per i pennelli di Hendrick III van Cleve, a quella di Villa Mattei, dal monte Celio con rovine di Roma antica, del 1625 e attribuita a Joseph Heintz il Giovane, fino al quella del giardino della Villa una volta dei Cesi, nell’area degli Orti Sallustiani, in prossimità di Villa Ludovisi, ormai di impianto paesistico, secondo la moda, con piante esotiche rifacimenti di un tempietto in stile, raffigurata da anonimo di tardo 800.

Joseph Heintz il giovane, Veduta di Villa d’Este a Tivoli, 1625, Villa La Pietra, Firenze

Sempre romana, la Veduta del Tevere dal “porto della legna”, di Ripetta di Vanvitelli del 1685, con sullo sfondo della sponda animata, tra verde e ruderi, le icone di San Pietro e Castel Sant’Angelo e il portale monumentale del casino della cinquecentesca Villa Altoviti: una delle proposte più interessanti, nella mirabile sezione dedicata – tra fontane, canali, peschiere e orizzonti – alle molteplici relazioni tra acqua e giardino in quelli della penisola, tema tutto nelle corde della curatrice princeps Alberta Campitelli, anche per il rilievo che merita qui nelle molteplici sue declinazioni nei giardini della reggia.

Benedetto Caliari, Scena di approdo di un giardino di villa veneta, 1555 – 1575, Accademia Carrara, Bergamo

Oltre quella dell’acqua, che peraltro si ritrova in molte sale della mostra, si rivelano ricche di spunti e all’incrocio di fitte implicazioni molte delle scelte raccolte in quella dei Giardini come scenografia.

Dagli elementi del lessico che compongono e variano i giardini per tipologie, alle funzioni e occupazioni che diversamente li animano. Parterres, piattebande, palizzate, fontane, elementi topiati, gruppi scultorei, cedraie, portali, grotte, “cerchiate”, porticati di verzura, veri e propri “appartamenti verdi”, come nell’incisione acquerellata della Veduta della Palazzina di caccia di Stupinigi di Ignazio Sclopis, e ancora eremi, tempietti e varie fabbriche da giardino, come il Caffeaus del pontificio giardino al Quirinale di Francesco Panini, del 1785.

Giovanni Francesco Mingucci (attr.), Veduta di Villa Caprile, 1630-1640, Musei Civici – Palazzo Mazzolari Mosca, Pesaro

Scenografie, appunto per convivialità, feste, conviti, concerti, giochi, ritualità, tornei, festeggiamenti e nozze. Ma anche veri e propri palcoscenici per recite e spettacoli. E poi teatri d’acqua, di rovine, di verzura, come quello illustrato dal settecentesco Modello ligneo dell’anfiteatro di verzura e di fiori di Villa Bernardini presso Lucca, ma, anche, trasposizioni di giardini al chiuso: in un gioco di reciprocità fino a trasformate in “camere di verzura” sale dipinte a giardino”, com’è raffigurato nello spaccato prospettico di un disegno in mostra, relativo all’allestimento spettacolare di un banchetto in forma di giardino, probabilmente del Castello del Catajo.

Matthias Withoos (attr.), Villa Aldobrandini, 1648 – 1659, Museo di Roma, Roma

Ambientazioni effimere, allegoriche, mitografiche, in notturno. E immaginifici giardini d’invenzione. Come nel caso delle tre Vedute di fantasia con villa del primo Seicento attribuite a Francesco Mingucci, in particolare quella con padiglione di verzura sul poggetto; e, di Sebastian Vrancx, la Veduta fantastica con Villa Medici (1615) – luogo che avrebbe ispirato anche Claude Lorrain per una sua Veduta ideata di un porto con Villa Medici, sempre in mostra, nella sezione del giardino e l’acqua – o, ancora, il Capriccio con fontana di Nettuno in un parco, in risonanza, si propone, con l’istituzione di quello di Caserta (1756-1759), ad opera di Antonio Joli, capo scenografo e architetto del Teatro di San Carlo nel 1762.

Ludovico Pozzoserrato, Concerto in villa, 1690 – 1700, Museo di Santa Caterina, Treviso

Meno convincente il panorama restituito da alcune sezioni, come quella dedicata a Il giardino e il selvatico, dov’è quasi ridotto a spettacolo venatorio, teatro di caccia (bosco, barco venatorio, ragnaia), piuttosto che non al ben più complesso tema delle amministrate relazioni con il selvatico cui è intitolato. O alle proposte – malgrado la indubbia bellezza di alcune opere, come la serie di arazzi ricondotti alla manifattura di Cornelius Mattens intitolata ai Giardini raffiguranti episodi tratti dalle Metamorfosi di Ovidio – che orbitano attorno all’immenso, scivoloso, soggetto dei Giardini e rappresentazione simbolica. Idealizzati, sempre evocati per forza di allegorie, tra virtù, significati religiosi e letture profane, del giardino d’amore, iniziatico, astrologico, scientifiche, risultando sempre troppo connessi alle diverse temperie culturali per poter viaggiare senza agganci ai contesti, assoluti.

Hackert, Veduta di Villa Albani nel paesaggio della campagna fuori Porta Pia,1779, Anhaltische Gemäldegalerie, Dessau-Roßlau

Infine, con oculatezza la sezione su Giardini e botanicarestituisce le varie forme di considerazione per il soggetto vegetale riflesse nel crescente interesse per le piante, tra disposizione artistica e nuova attenzione analitica. Dalle testimonianze di una nuova sensibilità naturalistica e relativi stilemi veicolata da importanti committenze e apparati iconografici della trattatistica, resa in mostra con il Narciso giallo e mantide religiosa di Jacopo Ligozzi, alle trasposizioni nelle allegorie dipinte delle stagioni con ghirlande e festoni di Pier Francesco Cittadini e, anche in scultura, con le statue di Primavera e Estate di Gian Lorenzo Bernini e figlio; fino alla tipologia floreale delle nature morte di impronte diverse, dalla connotativa relazione con il gusto per l’antico all’ibridazione con il contemporaneo genere dei capricci.

Pierfrancesco Cittadini, Allegoria della Primavera, 1650 – 1655, Galleria Estense, Modena

Così, complici anche la diffusione delle nuove conoscenze botaniche e la disponibilità di nuove specie esotiche, le mode floreali finiscono per riflettersi persino negli arredi – qui, la coppia di lampade di manifattura campana a forma di ananas, in bronzo dorato e cristallo molato –, mentre nel periodo barocco e rococò grande fortuna continua ad arridere alla floromania, con le nature morte di Gasparo Lopez, detto dei Fiori, come altre, fin nel titolo, ambientate in un giardino – e lo stesso vale per il Trionfo di fiori in un giardino di Michele Antonio Rapous, della seconda metà del XVIII secolo.

Malgrado questa spesso evocata restituzione di piante e fiori in contesto, cioè a dire nei giardini, e per quanto sia considerazione diffusa che essi siano testimoni dell’evoluzione del gusto, nel ripercorrere filologicamente letture e gusti coevi, è raro – e scarsamente indagato – il protagonismo dell’elemento vegetale in atto, dall’estetica di figurazioni e accostamenti alle pratiche, ai saperi, alle strumentazioni connesse alla coltivazione, al loro dialogo con gli altri soggetti e interpreti del giardino. Certo anche per l’approssimazione delle rappresentazioni, spesso stilizzate, e spia di una diversa considerazione, ancillare del rilevo del ruolo vegetale…. Che non è ormai più, però, quella della nostra attenzione d’oggi. Ma questa è tutta un’altra mostra a sé.

Jan Wildens, Attività in un giardino, 1614, Musei di Strada Nuova, Genova

Nel gioco di relazioni tra rappresentazioni del giardino e giardino reale, tra quell’artificio vivente e la sua trasposizione per via d’altri linguaggi artistici, procedere così per Frammenti di Paradiso evoca ad ogni passo un colloquio fatto di scambi, slittamenti, reciprocità, transfert che, in questo contesto espositivo, intrinsecamente legato al suo giardino e nella sobria eleganza del percorso espositivo ospitato in alcune sale di rappresentanza dell’appartamento della regina, di recente recuperate al suo Museo, si amplifica e si moltiplica, ogni volta che la ricchezza di impianto delle scelte in mostra entra in risonanza con la potente suggestione della prossimità, fuori dalle pareti, del Parco reale e, traverso gli affacci, della diretta relazione visiva con la sua scenografica Via d’Acqua.

Frammenti di Paradiso. Giardini nel tempo alla Reggia di Caserta, Mostra a cura di Alberta Campitelli, Alessandro Cremona e Tiziana Maffei presso la Reggia di Caserta, 1° luglio – 16 ottobre 2022, recensita da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 39, Supplemento de Il Manifesto del 2 ottobre 2022

Giardini riflessi sull’acqua

In una penisola tutta impressa di luce come l’Italia, il tema dei giardini riflessi sull’acqua si conferma centrale. Diffusi in grande varietà di tipologie, pur nel loro diseguale articolarsi per fasi storiche e territori, sono giardini dei paesaggi sopra il mare, dei golfi e delle riviere, giardini belvedere, terrazzati, o che pure direttamente approdano alla riva, con darsena o su un podio da un’altura, o che nel primo entroterra, comunque si confrontano con una prevalente dimensione condizionata, dal punto di vista estetico ma anche climatico, dalla dominante del riverbero del mare. Giardini di piccole e grandi ville o parchi dove acclimatare collezioni di piante esotiche.

Con piglio leggiadro e iI doppio sguardo che li incrocia per via di terra, tanto come in navigazione di prossimità, ne ripercorre ora settanta, storici e più recenti, Nicoletta Campanella in una guida dedicata: I giardini sottocosta. Una rotta blu per itinerari verdi, ciascuno descritto ed illustrato in schede che li raccontano, con indirizzi, indicazioni pratiche di contatti e approdi da mare (Nicla edizioni, pp. 451, € 20,00).

Sono giardini profumati anche d’inverno, nella Liguria dell’invenzione della villeggiatura e del Mediterraneo delle colonie di facoltosi stranieri, specie a partire dalla seconda metà dell’80– quelli della Mortola a Ventimiglia dove tra agrumi e pineta si acclimatano piante portate da ogni dove; il Pallanza a Bordighera, tra terrazze spioventi di piante esotiche; quello di villa Durazzo Pallavicini a Genova Pegli con il suo percorso scenografico in più atti –, come pure parchi naturali e orti botanici – dal giardino dell’Ottone all’Elba, con la palma blu osservata già lì da Paul Klee nel suo soggiorno nel 1926 agli all’ecosistema di habitat diversi della penisola di Caleri, dove nel punto in cui il mare si separa dalla laguna.

Il parco del castello di Miramare in una stampa di fine 800

Si procede lungo l’intera penisola incrociandone innumerevoli, dai giardini conchiusi e stretti di Venezia a quelli delle isole, maggiori e minori – Villa Niscemi a Palermo e il suo pittoresco con grotte, come pure i Rosmarini nell’sola giardino di Pantelleria. E se a Ravello il giardino di Villa Cimbrone sta sulla costiera come affacciato a picco sul balcone naturale e quello della Mortella discende ricalcando il profilo delle tormentate rocce d’Ischia fino alla valle di subtropicali felci arboree, a Trieste, tra effetti scenografici ed evocazioni di paesaggi d’altrove per via di curiosità botaniche, il parco di Miramare traguarda il mare nel rimpallo tra bosco e parterre.

Nicoletta Campanella, I giardini sottocosta. Una rotta blu per itinerari verdi, Nicla edizioni, pp. 451, € 20,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 37, Supplemento de Il Manifesto dell’18 settembre 2022

Dove la natura si impiglia nel riflesso del nostro guardarla

Nei suoi Voli vespertini e altri saggi su ciò che la natura ci insegna la poetessa e scrittrice inglese Helen Macdonald, che fin dall’infanzia si vuole assieme naturalista – per anni allevatrice e studiosa di falchi nel Galles – svisa sovente tra intuizioni, emozioni primigenie e quel metodo di osservazione di animali e piante che le consente di intercettare, per frammenti, segmenti, macchie intraviste e quindi raccontare quegli incontri reali, eppur sempre emblematici di storie e associazioni attribuite, dove la scienza nulla riesce a sottrarre al mistero e alla bellezza (Einaudi, pp. 312, € 20,00).

Come in una di quelle evocate guide naturalistiche, dove tra illustrazioni, tabelle, disegni al tratto lo sguardo si fa acuto e familiare nell’esperienza sul campo e tra tecniche di riconoscimento rapido degli uccelli in volo,  la fredda luminescenza delle lucciole, la magia delle lepri, messaggere della fine dell’inverno, il volo alternato dei rondoni, che per anni non si posano mai a terra, con quei loro voli vespertini – improvvise, crepuscolari, a lungo misteriose ascensioni fino a 2500 metri per riorientarsi –, ma anche la soggezione delle eclissi solari o la fascinazione dei nidi e il parlare attraverso un guscio, il battezzare quegli alberi che ospitando intere comunità di viventi danno forma ai paesaggi, fin nel rilucere delle bacche del sorbo o nei cespi di vischio, son tutte occasioni per incrociare temi che ci interpellano, individualità, diversità, selvaticità di una natura dove sempre s’impiglia il riflesso del nostro guardarla.

Giacomo Balla, Volo di rondini, 1913

Tra essenziali passeggiate nei boschi invernali dalle compresenti temporalità, o sopresi in riserve ungheresi dall’illusione ottica di stormi d’ali battenti di gru cinerine, condotti per pellegrinaggi naturalistici, tanto in oasi remote come sulla cima dell’Empire State Building dove osservare da un diverso punto di vista il volo notturno del transito stagionale di uccelli migratori sopra la città, sempre siamo avvertiti del rischio che la vertiginosa accelerazione delle conseguenze dei cambiamenti climatici in termini di distruzione degli ecosistemi finisca per diventar parte di una narrazione sulla natura che ci rende assuefatti all’idea della normalità di una continua riduzione, perdita, scomparsa.

Helen Macdonald, Voli vespertini e altri saggi su ciò che la natura ci insegna, Einaudi, pp. 312, € 20,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 36, Supplemento de Il Manifesto dell’11 settembre 2022

Varietà botaniche dal mondo arabo

Corredato di contributi che ne attualizzano i riscontri nel successivo dibattito storiografico, viene oggi riproposto lo studio dedicato alla metà degli anni Settanta da Andrew M. Watson a La rivoluzione agricola araba e la sua diffusione, 700-1100. Con uno sguardo attento alle significative ricadute di lunga durata sulla composizione del paniere delle biodiversità agricole nella storia della nostra alimentazione (sottotitolo dell’edizione per Slow Food, alle radici di ciò che mangiamo oggi, con saggi di Bevilacqua, Squatriti, Biasillo (pp. 149, € 16,50).

Con l’estensione per secoli del dominio arabo a una vasta area del mondo, in un ininterrotto trasmigrare di uomini, tecniche e saperi si trasferirono anche piante originarie delle terre di quel vastissimo impero, dall’estremo oriente del califfato, in India, per via di Persia, Iraq, Siria, Egitto, fino a Marocco, Sicilia e Spagna. Alberi, ortaggi, cereali, legumi si acclimatarono così in tre continenti, assicurando la diffusione, tra gli altri, di riso, sorgo, grano duro, canna da zucchero, melanzane, cotone, agrumi, banani, piante da cocco, in un elenco di varietà botaniche che da tempo ci suonano familiari.

dal Libro dell’Agricoltura di Ibn al-Awwam, agronomo vissuto a Siviglia tra XI e XII sec.

Associati alla disponibilità di nuove piante, una serie fattori concorsero a una complessiva rivoluzione tecnico produttiva, dalle profonde ricadute sociali. Il sapiente uso dell’acqua, le conoscenze botaniche e il sapere tecnico delle pratiche di coltivazione – dall’associazione delle piante all’incremento nell’uso dei fertilizzanti, ai sistemi di rotazione che, introducendo colture estive, moltiplicavano le stagionalità delle coltivazioni, assicurando continuità e aumento delle rese –, determinarono cambiamenti del paesaggio, si pensi a quello degli agrumi, e – riflessi nel lessico – entrarono nella farmacopea, nell’alimentazione e in cucina, arricchendo e orientando il gusto (la pasticceria).

Almeno fino alla regressione – che ancora ci interroga – da un così rilevante grado di civiltà agricola.

Andrew M. Watson, La rivoluzione agricola araba e la sua diffusione, 700-1100, con saggi di Bevilacqua, Squatriti, Biasillo, Slow Food editore, pp. 149, € 16,50, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 35, Supplemento de Il Manifesto del 4 settembre 2022

Paesaggi terapeutici. o della biofilia dei luoghi

Poste a fondamento di immaginari e cosmogonie, le relazioni che intrecciamo con la natura permeano lingue, convinzioni, fedi, e, a partire dalle molte loro tracce in miti e leggende delle culture più diverse, è evidente anche l’idea diffusa che la natura abbia virtù curative per la mente e per lo spirito.

L’ipotesi di un amore innato che ad essa ci lega, di un irrefrenabile impulso ad entrare in connessione – l’ipotesi della biofilia dell’americano Edward O. Wilson – ha trovato nel tempo una serie di conferme nell’analisi della capacità dei luoghi naturali di attenuare lo stress, ripristinare l’attenzione, abbassare la pressione e migliorare il nostro umore.

Con l’indicazione metodologica che anche l’apprezzamento di natura e paesaggio cambiano nel corso del tempo e con il bagaglio di docente di «letteratura della crisi climatica» specializzata nel legame tra natura e salute mentale, tra Coleridge e Wordsworth, la poesia della contemporanea ElizabethJane Burnett, Margaret Atwood e le sperimentazioni della scrittrice rifugiata Bessie Head, Samantha Walton, ci conduce così alla volta di una serie di Luoghi per guarire (sottotitolo, Il potere curativo della natura, Ponte alle Grazie. pp. 368, € 20, 00).

Paesaggi terapeutici, come giardini, parchi – a lungo intesi come macchine per il benessere –, ma anche foreste, montagne, e perfino luoghi ormai perduti e ambienti naturali virtuali, ricreati artificialmente a uso medico e nell’industria del benessere.

Con un taglio critico, si evidenzia come spesso una costruzione estetizzata della natura – che ad esempio si incarna nel parco paesaggistico, a lungo modello dominante – abbia un forte, negativo impatto ecologico.

Robert Burton, Anatomy of Melancholy, 1626, IIa edizione, dettaglio sullo sfondo un giardino

Mentre, nella convinzione dell’inscindibilità della salute di natura, individuo e società, una vera ricerca del ripristino dell’equilibro comporti, oltre la bellezza, un potenziale radicale. Che se da un lato i benefici psichici dell’accesso alla natura sembrano perlopiù riservati, in una sorta di gentrificazione ecologica, a chi può permetterseli, indiscriminato appare di fronte al disastro della catastrofe ambientale il senso di prostrazione, «eco-ansia», inadeguatezza e muta disperazione.

Samantha Walton, Luoghi per guarire. Il potere curativo della natura, Ponte alle Grazie. pp. 368, € 20,00,  recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 31, Supplemento de Il Manifesto del 31 luglio 2022

Sementi di diversità. Agricoltura, cibo e emergenza climatica

Se, nella straordinaria molteplicità di forme della sua biologia, il seme contiene l’intero programma di sviluppo della pianta, c’è una più vasta dimensione culturale, quella della semente, che è definita dalle conoscenze che l’accompagnano nel suo contesto storico, scientifico, socio-economico e politico.

Connotata storicamente, in forza di un modo di pensare il vivente come risorsa da sfruttare e di un sapere scientifico ad esso sotteso, è stata a lungo – e in gran parte è ancora – intesa alla ricerca dell’uniformità, della standardizzazione. Verso una stabilizzazione indotta da un’agricoltura che considera le sementi (e quindi i nostri alimenti) come “risorse genetiche”, regolate da requisiti, leggi e normative, sistemi di proprietà intellettuale, in vista dell’industrializzazione e commercializzazione del prodotto e con le evidenti conseguenze di perdita di diversità determinate negli agroecosistemi in termini di resilienza, salute e qualità delle piante.

altrimondinews

Ma tratta di una omogeneizzazione imposta perché invece il vivente è in perpetua, interconnessa evoluzione proprio grazie alla sua diversità.

E da questo cambio di paradigma orientato in direzione del recupero di sementi diversificate, adattate localmente, e quindi di un rapporto altro che nella produzione del cibo rispetti la naturalità del vivente, muove la ricognizione di Véronique Chable e Gauthier Chapelle, Dal seme alla tavola. Le sementi e le pratiche agricole per la nostra salute e quella del pianeta, Terra Nuova, pp. 224, € 20,00, volta a descrivere l’emergere critico dell’agricoltura biologica e dell’agroecologia basata su un’etica forte.

Una riappropriazione di saperi da parte di contadini, giardinieri e cittadini che passa anche per l’organizzazione collettiva delle reti di sementi locali e comunitarie, la conservazione delle sementi nei loro giardini e campi biologici, prendendosi cura delle varietà in pericolo. Con la creazione delle Case delle Sementi dove – diversamente dalle banche genetiche – la conservazione “in situ” consente alle popolazioni di piante di continuare a diversificarsi in relazione al proprio ambiente, mantenendo il loro carattere adattivo

E nella consapevolezza che se per le popolazioni vegetali, la diversità è condizione fondamentale per adattarsi al cambiamento climatico, essa è anche alla base della resilienza dei nostri sistemi alimentari. La storia di ciò che mangiano, la scelta del nostro cibo, è anche la storia del nostro stare al mondo sulla Terra, dalle sementi che sono alla base dei prodotti che lo compongono alle implicazioni di una giustizia ambientale che, oltre la dimensione redistributiva, nella nozione di giustizia ecologica implichi anche il non umano.

Véronique Chable e Gauthier Chapelle, Dal seme alla tavola. Le sementi e le pratiche agricole per la nostra salute e quella del pianeta, Terra Nuova, pp. 224, € 20,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 29, Supplemento de Il Manifesto del 17 luglio 2022

seedfreedom.info

Le lezioni del clima

Sempre più negli ultimi vent’anni si è andati riconoscendo al clima e ai suoi cambiamenti uno ruolo rilevante nel dibattito storiografico. Anche alla luce dei progressi della paleoclimatologia, delle sue scoperte più recenti, dei nuovi metodi dell’indagine archeologica, del concorso di antropologia, ecologia e storia dell’ambiente nello studio del clima del passato. E, proprio sul presupposto che la conoscenza dei mutamenti climatici contenga una lezione da trasmettere al nostro mondo industrializzato, si fonda il volume di Brian Fagan e Nadia Durrani dedicato alla Storia dei cambiamenti climatici. Lezioni di sopravvivenza dai nostri antenati, Il Saggiatore, pp. 383, € 27,00. Che – restituendo un quadro complessivo del dispiegarsi del fenomeno – si interroga soprattutto su quali forme di adattamento e quali strategie siano state elaborate e messe in atto dal genere umano per sopravvivere a mutamenti e sconvolgimenti del clima nel corso degli ultimi 30.000 anni?

Per lo studio delle antiche variazioni climatiche – per tutto quel che precede la disponibilità di misurazioni strumentali in serie, effettuate solo a partire da metà 800 –, si ricorre all’incrocio di una grande varietà di fonti e di metodi indiretti. Analisi di sedimenti marini, carote di ghiaccio, depositi di loess, stalattiti e stalagmiti e, per gli anni più recenti (gli ultimi 15.000), granelli fossili di pollini delle paludi, conteggio degli anelli degli alberi, sia vivi, sia prelevati da edifici e scavi, e poi ancora, resoconti storiografici e documenti, fino ai registri che riportano le date di fioritura dei ciliegi in Giappone nel corso degli ultimi 600 anni o alla ritrattistica di paesaggio del 900, con cieli meno azzurri e atmosfere più fosche, considerata – al netto delle convenzioni artistiche – come spia del susseguirsi di eventi vulcanici.

Jacob Grimmer, Le quattro stagioni. Inverno, 1577, Budapest, Museum of Fine Art

L’invito è a distinguere tra perturbazioni di breve durata, episodi catastrofici – gli anni senza estate conseguenti alle eruzioni, come nel 536 o nel 1815 – e, invece, sconvolgimenti di lungo periodo, come quelli caratterizzati da un significativo abbassamento delle temperature, da cicli aridi plurisecolari, fino a siccità di lunga durata come quella che tra 2200 e 1900 a.C. colpì il Mediterraneo orientale e l’Asia meridionale. E, ancora, a considerare i fenomeni ricorrenti, come le variazioni delle radiazioni solari, le glaciazioni, i cicli di attività vulcanica, il sistema monsonico asiatico, El Niño e La Niña, le modificazioni della Corrente del golfo, nonché le lunghe fasi convenzionalmente indicate come l’optimum climaticum romano (dal 200 a.C. al 150 d.C.), il periodo caldo medievale (800-1300), la piccola era glaciale (1300-1850).

Così, nelle diverse situazioni, ere e latitudini analizzate, nel concorso tra dinamiche ecologiche, economiche, politiche, se non son certo le variazioni climatiche a provocare la caduta delle civiltà antiche, in mancanza di adattamenti e risposte efficaci – prima tra tutte, dispersione e mobilità –, spesso ne accentuano però la vulnerabilità.

Nell’analisi dei processi ricorrono come elementi critici il peso dell’indiscriminata deforestazione di aree boschive, dello sfruttamento del suolo con l’aumento dell’impermeabilizzazione che fa il paio con urbanizzazioni estese e la sempre maggiore domanda di cibo, la messa a coltura di terre marginali, il loro uso intensivo e l’incremento della salinità. In questo senso, si evidenzia come nella necessità di continuamente adattarsi al mutare delle variabili del clima, un ruolo centrale giocano la sapienza ambientale, la conoscenza di habitat e ricorsività climatiche, la reciprocità nella gestione dei rischi, lo scambio di informazioni, la capacità di previsione e progettazione a lungo termine.

Nella consapevolezza che se fin qui l’adattamento climatico è avvenuto principalmente su scala locale per risolvere problematiche specifiche di un particolare territorio, oggi la questione non può che essere, assieme, di portata locale e globale.

Brian Fagan e Nadia Durrani, Storia dei cambiamenti climatici. Lezioni di sopravvivenza dai nostri antenati, Il Saggiatore, pp. 383, € 27,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 28, Supplemento de Il Manifesto del 10 luglio 2022

Jules Tavernier, Sunrise over Diamond Head, 1888, Honolulu Academy of Arts

Finzioni? La variabile eccentrica del “giardino storico”

Nel dibattito più recente attorno al tema del “giardino storico”, inteso in prevalenza a sviscerare le problematiche relative alla dialettica tra conoscenza, conservazione e filologica possibilità e opportunità di interventi e ripristini, irrompe la variabile eccentrica – ma dal significativo rilievo storiografico – delle finzioni nei giardini: cioè a dire dei molti ritorni di stili ed esplicite riletture di modelli del passato che con minore o maggior grado di intenzionalità, o magari programmaticamente, si sono susseguiti, e specialmente nel corso del primo 900. In corrispondenza con il precisarsi dello statuto disciplinare di una storia del giardino ancora in corso di definizione, quando si era andata affermando un’estetica che associava il prevalere di ogni stile, nelle diverse epoche, a un diverso paese, territorio, cultura. Così, nel medioevo il giardino non poteva che essere italiano, mentre si sarebbe poi trasferito in Francia con il 600 per farsi quindi, nei secoli successivi, all’inglese, seppur con molte varianti.

Una visione dove riletture critiche e uso della storia si confondono. Tanto più quanto l’approccio al passato sovrapponeva con la stessa legittimità l’idea del restauro dell’esistente e la reinvenzione tramite nuovi interventi progettuali – anche sulla base delle controspinte della modernità e delle innovazioni proposte dalle avanguardie. Una visione dai tratti nazionalistici, che assortendo elementi distanti, finisce anche per implicare interpretazioni erronee e manipolazioni identitarie.

Indagare, in particolare da allora, la storicità dei molti tentativi di recupero di giardini – e quindi di reinterpretazione dei loro modelli – che nel tempo avevano modificato la propria fisionomia, per forza di abbandoni o sovrapporsi di usi e letture diversi dagli originari, è l’intento delle ricerche promosse dalla Fondazione Benetton e raccolte a cura di Monique Mosser, José Tito Rojo e Simonetta Zanon nel volume Giardini storici, verità e finzione. Letture critiche dei modelli storici nel paesaggio dei secoli XX e XXI (pp. 316, € 30,00).

Nel succedersi e incrociarsi di imitazioni, copie, varianti e interpretazioni di modelli storici, con tributi, mode, influenze, fantasie e restauri più o meno immaginifici, emergono diverse letture, tipologie e funzioni.

Esser fonte di ispirazione, come quella che ritrovamenti e scavi dei giardini di Pompei esercitano in varie fasi a cavallo fra 800 e 900, tra evocazione romantica e attenzione filologica – i Römischen Bäder di Potsdam, progettati da Karl Friedrich Schinkel nel 1829, dove nella relazione interno esterno dei peristili risuona l’eco del succedersi di pergole, oppure, in Costa Azzurra, la Villa Kerylos con viridario realizzata a inizio 900 da Emmanuel Pontremoli per l’archeologo e grecista Théodore Reinach – e fino alle più recenti sperimentazioni nella progettazione dei giardini in relazione all’evolversi delle tecniche di scavo stratigrafico, come evidenziato nella lettura di Luigi Gallo e Chiara Comegna.


Jakob Philipp Hackert, Veduta delle rovine dell’antico teatro di Pompei, 1792-3, gouache su cartone, Klassik Stiftung Weimar

Come pure essere oggetto di un sovrapporsi in crescendo di meraviglia di interpretazioni, a partire magari da un’iniziale percezione fondata su scarsi elementi di conoscenza, com’è il caso paradigmatico dei giardini islamici dell’Alhambra medievale che José Tito Rojo sfoglia a ritroso, disvelando stereotipi e luoghi comuni, e purtuttavia insistendo su quanto esse finiscano in definitiva per esser parte integrante della storicità di quei luoghi. Esiti incrociati dell’immaginario dei viaggiatori romantici e già della pittura orientalista, tra fine 700 e inizio 800, delle letture della Mille e una notte, come poi, innesco di ritorno di leggende sulla creazione dell’Alcázar che ispira sia composizioni di Debussy, poesie di Louis Aragon e opere teatrali, sia, nei mass media, film, fumetti, prodotti di consumo; fantasie ideologiche che si rifanno al mito “di un al-Andalus politicamente corretto, delicato nelle sue manifestazioni, trascendente ed ecologico nei suoi giardini”.


David Roberts, Courts of lion, Alhambra, Granada, in Jennings‘ Landscape Annual for 1835: The Tourist in Spain, Londra 1835

O ancora, come nel caso deigiardini di ispirazione storicista della California meridionale a cavallo tra 800 e 900 indagati da Franco Panzini, farsi elemento per immaginare una nuova identità regionale e inventare in un ambiente semiarido una sorta di Mediterraneo americano sul Pacifico.

Tra sviluppo della coltivazione degli agrumi, affermarsi del turismo di alta classe e dell’industria cinematografica – che spesso ai giardini si ispira – uno scanzonato eclettismo ibrida qui idiomi e stili per mano di una nuova generazione di paesaggisti, autodidatti o provenienti dal mondo delle arti o dei vivai, come pure da importanti prestigiose università con corsi dedicati.

Scena dal film Romeo and Juliet diretto da George Cukor, 1936. Il set, raffigurante il giardino dei Capuleti, fu ideato da Florence Yoch (Everett Collection)

Da un’iniziale combinazione di architetture e stili diversi che si ispirano da un lato alle missioni dei conventi francescani del 700 come ai revival Spanish di sapore coloniale e, dall’altro, a presunte tradizioni locali di uno stile indigeno della California meridionale, prevalgono invece con inizio 900 giardini formali di impianto spagnolo-moresco, islamico o che, ancor più, si richiamano ai modelli italiani, specialmente del rinascimento. Un’onda lunga, fatta anche di riprese come poi negli anni 70 per il Getty museum, pensato con i suoi grandi giardini e ispirato alla Villa dei papiri di Ercolano.

Villa Las Tejas, Montecito, California­, foto di Frances Bejamin Johnston 1923, lastra colorata a mano

Particolare attenzione merita la fortuna del giardino italiano, dove, tra rinascita di interesse per il tema delle grotte (Villa Borzino a Busalla, in Liguria), riprogettazione di labirinti (Villa Pisani a Stra), giardini pensili (Palazzo ducale a Urbino) e ripristini in stile (Palazzo Piccolomini a Pienza), Vincenzo Cazzato ci conduce in un viaggio ideale tra quelli ispirati a riprese di modelli e temi del passato, sullo sfondo e a contrappunto degli assunti fissati nella Mostra del giardino italiano tenutasi a Firenze nel 1931, che nei dieci modelli in scala esposti nel salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio, riunendo elementi da diversi giardini reali, intende proporre gli idealtipi delle dieci età del “nostro” giardino, da quello dei romani a quello romantico, riconducendo ciascuno a una dominante regionale.

Plastico riproducente il giardino fiorentino del ‘400 esposto alla “Mostra del Giardino” tenutasi nel 1931 a Firenze in Palazzo Vecchio (Lusini)

Una fortuna indagata anche in diversa scala, da casi specifici come il parco di Miramare a Trieste da Annachiara Vendramin, fino all’eredità italiana nei giardini americani di Filadelfia nel 900, da Raffaella Fabiani Giannetto.

Mentre nelle ricostruzioni delle varie fasi dell’andirivieni di reciproche influenze tra “giardino all’italiana” e “giardino all’inglese” Filippo Pizzoni invita a distinguere tra momenti propositivi, capaci di trasferire e far intendere valori e simboli anche in contesti diversi, e fasi in cui la stanca ripetizione di modelli ha perduto la capacità di comprenderne il sottotesto: dalle trasposizioni del gusto italiano nel definirsi del giardino naturale inglese, per serie di scene ed epigrafi, da parte del pittore, poi progettista, William Kent, al diffondersi a metà 800 dello stile, piuttosto superficialmente formale, dell’italianate garden, alle realizzazioni, con il primo 900, ad opera di un’élite di inglesi in Italia, di giardini sospesi tra restauro e reinterpretazione.

Non mancano infine esempi di riletture del giardino storico nel progetto contemporaneo, come quello cinese indagato da Bianca Maria Rinaldi che, se al di fuori della Cina perlopiù divulga elementi e moduli consueti nelle forme note, in patria, a partire da questi, sperimenta nuovi codici espressivi. Come nel caso dei giardini classici ambientati a Pechino nel contesto dell’aeroporto internazionale di Daxing.

Giardini storici, verità e finzione. Letture critiche dei modelli storici nel paesaggio dei secoli XX e XXI, a cura di Monique Mosser, José Tito Rojo e Simonetta Zanon; Fondazione Benetton, pp. 316, € 30,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 27, Supplemento de Il Manifesto del 3 luglio 202

Ida Tonini e il giardino ritornante

Mirabili storie si dispiegano in un avvincente gioco di raddoppiamenti e inarcature in questo Rondò per giardini, luminescente volumetto dove, fin dal titolo, s’intravede come l’ispirazione dell’autrice, Ida Tonini, sia tutta accordata con diletto attorno al tema del giardino come chiave privilegiata di accesso al mondo (Il formichiere, pp. 117, € 10).

Da quelli recintati di alte mura ai tempi della Repubblica di Venezia, dove piante, bulbi, semi e specie esotiche arrivavano da ogni dove, collezionate come pellegrine al giardino dei suoi degli anni giovanili a San Giobbe, vicino all’ex giardino botanico istituito da Napoleone, dall’infanzia con cinque fratelli e un’altana sui tetti di Venezia in un palazzo settecentesco sul canal grande dei Volpi proprietari oltreché dell’orto giardino di Ca’ del Leon sulla Giudecca – vicino a quello novecentesco anglo veneziano dei coniugi Eden –, della palladiana per antonomasia Villa Barbato a Maser, che nel 1719 aveva ospitato quel Lord Burlington, autore poi con William Kent del parco di Chiswich, e all’origine della diffusione dell’architettura palladiana oltremanica e del giardino paesaggistico. Per passare ai giardini che il patrizio e umanista veneto Andrea Navagero, sodale del Bembo, raccomanderà durante la sua assenza alla cura dell’amico Giambattista Ramusio, che nello stile di Plinio a sua volta racconterà i giardini dell’Alhambra dopo la reconquista. Da annoverare tra i più amati, con quelli moreschi, magari anche nelle reinvenzioni di Jean-Claude Nicolas Forestier. E via così.

Benedetto Caliari, Villa veneta con figure, Bergamo, Accademia Carrara_1570-1580

La sensazione è quella, privilegiata, d’esser messi a parte d’una conoscenza distillata in una vita sul doppio registro intrecciato del lavoro di scavo documentario di una protagonista irregolare avanti nello studio delle forme del giardino e della sua personale memoria familiare e orticola – esclusiva per frequentazioni e opportunità inventate. Ma soprattutto, avvinti al tema ritornante del giardino, d’esser condotti a frequentare, per associazioni e analogie, congreghe e contesti inesplorati, parentele intellettuali e converger d’intelligenze, sensibilità. Intravedendo, quantomeno, l’aura di quei luoghi d’artificio d’elezione.

Ida Tonini, Rondò per giardini. Storie di giardini e altre storie, Il formichiere, pp. 117, 10,00, recensito  da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 23, Supplemento de Il Manifesto del 5 giugno 2022

Chelsea Flower Show 2022. A Londra, giardini fra il mimetico e il concettuale

Sarah Eberle, Building the Future

È tutto un fiorire di approcci e tematiche nuove, in parte inedite in questo contesto, anche se già nell’aria, quello che pervade, specialmente nelle intenzioni, i trentanove giardini attorno a cui per cinque giorni si sono davvero affollati gli oltre 140.000 visitatori del Chelsea Flower Show. Una tra le maggiori mostre dedicate al mondo delle piante e del giardino, che dal 1913 si tiene ogni anno alla fine di maggio in pieno centro di Londra, nel parco del Royal Hospital a Chelsea, a segnare l’avvio della stagione mondana e quella del giardino (spesso un tutt’uno), nonché delle sue tendenze. Quindi, una certa discontinuità, nell’edizione appena conclusa, rispetto al tradizionale assetto formale, negli anni precedenti tutto progettato e profilato nel senso del contemporaneo allinearsi al design di arredi da un lato e dall’altro della vivace ma posata tradizione orticola anglosassone.

Quest’anno i giardini si propongono invece perlopiù come veicolo di messaggi vitali, di bellezza ma specialmente interesse per il ruolo che le loro piante possono svolgere nel contrasto al cambiamento climatico, rivelandosi occasione di rinaturalizzazione di paesaggi, accordandosi alla natura per costruire – come mediatori – mondi futuri o anche soltanto ripristinare suoli degradati come pure intere aree industriali dismesse.

Così, ispirato alla vegetazione del limitare della foresta, il giardino di Sarah Eberle combina il meticciato di flore native ed esotiche, achitettonici farfugium in delicato contrasto con piante per ambienti umidi, sullo sfondo di una cascata dove però a mimare la roccia vengono impiegate – in una ridondante lettura del giusto tema del riciclo – strisce di legno ricomposto. Mentre, Rewilding Britain landscape evidenzia e ricostruisce la ricchezza anche compositiva di un habitat per come muta dopo la reintroduzione di una specie chiave autoctona, come il castoro.

Passando dall’ispirazione mimetica ad un approccio concettuale, il giardino dell’etnobotanica Jennifer Hirsch definisce attraverso il ritmo alternato di una serie di archi di acciaio corten la progressione di piante pioniere che rianimano un suolo bruciato da un incendio in un’esplosione di vita vegetale, dagli eucaliptus ai geum. E oltre questo giardino-scultura, The plantman’s ice garden è un’istallazione che vede nelle giornate della mostra il disciogliersi di un monolite di ghiaccio di 15 tonnellate a significare l’urgenza del rischio del riscaldamento climatico che incombe e al tempo stesso la ricchezza botanica degli excerpta vegetali che in prospettiva quel ghiaccio conserva. Per l’intanto, il Brewin Dolphin garden (dal nome dello sponsor, una delle più grandi società britanniche di gestione patrimoniale) progettato da Paul Hervey-Brookes propone invece come accompagnare le metamorfosi di aree industriali dismesse dove le piante prescelte, dalle betulle alle persicarie, dai carex ai viburni, contribuiscono a ripulire suoli contaminati.

Andy Sturgeon, The Mind Garden

Ma, oltre l’immediato benessere dell’esperienza dell’immersione nel verde, anche, trasversalmente, molti dei giardini proposti sono pensati per attivarsi come elemento rigeneratore di equilibri interiori, a supporto, volta a volta, di ragazzi con disagi, malati oncologici, senzatetto, detenuti – certo, nella logica compensatoria della tradizione anglosassone delle organizzazioni caritatevoli, alle cui attività spesso i singoli giardini sono associati e ispirati e cui finiranno poi per essere assegnati e lì ricomposti dopo il loro transitare in mostra.

Giardini dunque come elemento di connessione con noi stessi e sempre più declinati nella dimensione comunitaria, a cavallo tra inclusione e rivendicazioni sociali.

Così, tra muretti tondi disposti come petali che separano e uniscono, si stringono o dilatano, tra panche e piante discrete che invitano alla condivisione, The mind garden di Andy Sturgeon è uno spazio per relazionarsi, destinato, dopo la mostra, a essere ricostruito presso l’istituto (che lo intitola), di supporto al disagio mentale. Mentre, tra i giardini della categoria All about plant, ancora un passaggio dalla depressione alla speranza vien simboleggiato nel variare delle tonalità delle piante nel giardino Mothers for mothers, dal nome dell’associazione di supporto alle donne colpite dalla depressione post parto.

Putting down roots (Mettendo radici) è un progetto pensato per uno spazio pubblico urbano a supporto dei senzatetto e con il loro coinvolgimento, con l’idea di proporre anche nuove competenze. Al riparo dei fogliami di aceri, sorbi e biancospini, l’impianto si concentra su comunità vegetali con fogliami di diverse tonalità e texture in dialogo con i colori vivaci degli arredi ricavati con materiali di recupero. E, ancora destinato a esser trasferito nella comunità di Notting Hill è il giardino Hands off mangrove (Giù le mani dalla mangrovia), firmato dall’attivista Tayshan Hayden-Smith e da Danny Clarke, simbolo di coesistenza ecologica e sociale che associa piante adatte ai paesaggi dei centri urbani, tetrapanax, cardi, barbabietole e insalate, con una scultura alta 4 metri di nude radici di acciaio, richiamando la distruzione di fondamentali ecosistemi e un episodio di protesta antirazziale nella Londra degli anni 70, chiamato ad attualizzare il tema degli impatti combinati di ingiustizie razziali e ambientali.

Ruth Willmott, Morris & Co. Garden

Certo non mancano approcci più consueti, più consoni all’aplomb dell’organizzatrice Royal Horticultural Society, che dichiara però di ispirare d’ora in poi la manifestazione a una nuova strategia di sostenibilità (prevede il riciclo di materiali e il reimpiego di piante). A partire dallo stile quintessenziale, seppur reinterpretato, del cottage garden ispirato all’artista imprenditore Arts and Crafts e amante di giardini William Morris, con elementi metallici tagliati a laser sulla base dei modelli a traliccio delle sue floreali carte da parati e una scelta di piante sui toni pastello, tra biancospini, iris e rose rampicanti. Fino alla reinterpretazione in chiave comunitaria del tema classico del front-garden, il tipico giardino unifamiliare. E ancora, con un doppio salto metaforico, nel giardino sponsorizzato dal metaverso di Mark Zuckerberg e suggerito dalle relazioni sotterranee tra funghi e radici degli alberi, Joe Perkins evidenzia le connessioni – cui ispirarsi – che permeano ogni ecosistema. Un prato di fiori selvatici nelle tonalità del rosa, del blu delle centaure e del bianco delle achillee, con sullo sfondo il web.

Distribuiti nelle differenti categorie – i maggiori 14, non a caso nominati Garden Show, di 22 metri per 10 aperti su due lati, assieme ai 12 minori della nuova, piuttosto indecisa, categoria Sanctuary e, a partire dalla scorsa edizione autunnale, post covid dopo la pausa del 2020, i giardini urbani per piccoli spazi, fin anche balconi (decisamente i meno riusciti) – i giardini competono sulla base di rigorosi criteri di giudizio (originalità del disegno, scelta di materiali e associazioni di piante, impatto sensoriale, realizzazione e dettagli costruttivi), forti anche del riverbero di una tappezzante copertura mediatica assicurata tra l’altro da ben tre collegamenti giornalieri della BBC.

Al centro della manifestazione, a orientare sempre gli spettatori persi nel gorgo della folla che si muove tra i giardini, l’enorme padiglione coperto dove, oltre a un corredo di interventi imperniati sull’innovazione scientifica in tema vegetale e sorprendenti esplorazioni didattiche, viene ospitato il distillato della ricerca orticola – e la selezione delle piante dell’anno – di specialisti monomaniaci, coltivatori di hosta, digitali, felci e graminacee, collezioni di elegantissime alstroemerie in bidoni del petrolio colorati a spruzzo, bulbi di camassie e ornitogalli, profusione di lupini e una serie di bellissimi equiseti dal nome incantato Elegia.

Insomma, nel gioco di contraddizioni tra un sistema di sponsor caritatevoli che in tempi di crisi economica con il progetto Giving Back – nomen omen – sostiene la realizzazione di ben 12 giardini in questa edizione e l’inevitabile selezione di pubblico pagante un biglietto d’ingresso giornaliero tra le 70 e 90 sterline, questi “giardini per buone cause” condividono pressoché tutti, oltreché una diffusa sensibilità ecologica e aspirazioni etiche e sociali, un aspetto scapigliato che dal punto di vista estetico paga pegno alle mode del giardino naturale ispirato alle fioriture dei prati e accoglie la lezione degli accostamenti superbi che gli habitat ci suggeriscono, più attento alle esigenze delle piante che non a quelle compositive del nostro occhio.

Senza prendersi troppo sul serio. E ricordandosi che, soprattutto, si tratta di uno show, dove anche l’affollato, caotico, intrecciarsi delle piante è pianificato fin nei dettagli, uno show dedicato ai giardini, ma ancor più a celebrare il multiforme potere dei loro protagonisti primi, le piante. E, con la tirannia della stagione, particolarmente di quelle cui tocca in sorte d’essere in fiore proprio in queste settimane.

Londra, Chelsea Flower Show, da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 23, Supplemento de Il Manifesto del 5 giugno 2022