L’incantamento per un luogo può passare per un’epifania. Un istantaneo senso di reciproca appartenenza tanto più avvolgente quando quel luogo lo si incontra distante da noi, estraneo fin lì al nostro orizzonte. Può accadere allora, come a Umberto Pasti venti anni fa, dinanzi a una pietraia riarsa sulle colline della costa atlantica del vecchio Marocco spagnolo, a due giorni di cammino da Tangeri, là dove sopravvivono soltanto poche piante indigeste alle capre, di antivedere come quel posto “sarà” (come è sempre stato): el gharsa, il giardino di Rohuna, villaggio di cinquanta case da cui contemplare la vallata e il mare. Può accadergli perciò di “diventare giardino”.
“Il mio corpo è diventato questo posto, questo posto è sempre stato un giardino”. Perduto in paradiso è il romanzo di questo suo farsi centro del mondo, della realizzazione di un giardino remoto dove negli anni ha raccolto molte delle specie selvatiche del Nord del Marocco, mettendole in salvo fino a farne meta di botanici, che lo scrittore Umberto Pasti intesse nell’ultimo suo libro, Perduto in paradiso (pp. 284, Bompiani, € 18). Dilettante dai molti interessi, botanico autodidatta ossessionato dagli iris e perlustratore instancabile dei sentieri delle fioriture del Marocco, Pasti orchestra diversità e protagonisti in una vivida, coinvolgente eppure delicata tessitura.
Nello scenario di quel cantiere infinito che è un giardino si risvegliano antiche faide familiari, si accendono danze tumultuose, crepitano rancori, credenze, ostinazioni, guarigioni.Le peripezie del recupero delle piante, spesso sottratte in extremis dai cigli di strade sventrate da nuovi enormi cantieri e trapiantate di notte al lume di torcia, le vicende della costruzione di aiuole e giardini, esedre, muretti e terrazzamenti, ma anche, cisterne e fontanili, sei chilometri di pista realizzata “a mano”, della casa, tirata su secondo le tecniche costruttive tradizionali, con tutti i connessi problemi burocratici, si intrecciano con i turbamenti e le ansie delle anime che ha avuto in sorte di incontrare in un Marocco agreste che si svuota incalzato dall’idrovora dell’omologante modernizzazione, sullo sfondo di commerci di hascisc quando non di “clandestini. Un coro di capicantiere, pastori, donne, pirati e spiritelli, intere famiglie del villaggio di Rohuna, come quella dei Bando “contraddistinta da un’incuria fiabesca, una pigrizia da fumatori di oppio incrinata da accessi di attività parossistica”. E sopra tutti i giardinieri cresciuti con il giardino, senza i quali il giardino non esisterebbe, …il quattordicenne Rachid, di una delle più povere famiglie del villaggio, faccia scavata, occhi scurissimi, per anni schiavo di una coppia senza figli o Mustafa, col suo colbacco di pelliccia, dai baffetti biondi e gli occhi azzurri di tanti berberi del Nord.
Oltre quel “paesaggio solenne come l’apparire di un dio”, tra l’antico aranceto inselvatichito e prati interamente ricoperti di narcisi, fino alla foresta di sughere e lecci dell’Honsar popolata di tassi e grandi istrici, il giardino è un castello di carte in balia dell’assenza di acqua, del fango dell’autunno, il ghaiss, e dei venti distruttori dell’inverno.
È un progetto senza disegno, che asseconda le pieghe del paesaggio e dello spazio interiore del suo autore, articolato in giardini intitolati a personaggi nati nella sua mente: il Giardino dell’Italiano , quello dell’Egiziano, quello, delle specie forestiere esotiche, del Portoghese.
Ma specialmente è un giardino abitato da piante amate. Cisti, eliantemi, mirti, timi, carrubi, corbezzoli, ma anche alberi da frutta, peschi, albicocchi, peri, melocotogni, melograni, fichi, e ancora euforbie, convolvoli, scabiose e tutte le bulbose, in particolare quelle delle dune minacciate da cave di sabbia, rave party, progetti miliardari per club di polo, ville, hotel, contro i quali Pasti si batte con lettere, petizioni, articoli, processi.
Endemismi, incroci, forme inclassificate, ma anche molti regali offerti dai locali: talee e rizomi dei loro cortili o del cimitero, piantine di oleandro prese sul greto del fiume, grossi bulbi, semi, pratoline, scille portate in dono dai bambini
Per un paradiso dove perdersi sotto la guida degli spiritelli, jennun. Dove sentirsi assieme intimamente parte – lui, el nazrani di el nuar, il cristiano dei fiori – e assieme rassegnarsi alle tantissime cose che mai saprà. “Di questo luogo “arcaico e solenne dove scambi i cani per unicorni e le vacche che rientrano al tramonto, se non fai attenzione, si trasformano in minotauri. Uno strano posto, dove le specie si confondono tra loro, e i regni sconfinano uno nell’altro generando ibridi, ragazzi-sardina, uomini-ulivo, donne-ossidiana e donne-gabbiano, e vecchi pastori fatti di radici e licheni”.
Umberto Pasti, Perduto in paradiso, pp. 284, Bompiani, € 18.00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica VIII, 9, Supplemento de Il Manifesto del 4 marzo 2018