Rivisitazione attualizzante di una manualistica di tradizione anglosassone del Landscaping fai da te, Il giardino urbano di Joe Swift (Logos 2010, pp. 176) disvela tra le pagine come nel corso degli ultimi anni siano cambiati modi di utilizzo e rappresentazione proposta del giardino privato “di ciascuno”. In città e campagne urbane sempre più uniformate alle logiche abitative dettate dalle immobiliari, si tratta qui di un giardino inteso come oggetto di investimento, al tempo stesso strumento di rappresentanza, rivelatore sociale, testimone del gusto. Esperto conduttore di un format televisivo sulla BBC dedicato alla messa in forma di piccoli giardini, (ma protagonista anche di un divertente gioco sul riconoscimento delle piante), Swift evidenzia bene la specificità di lavorare in spazi esigui e come l’esigenza di sfruttarli al massimo tenda a privilegiare le aree pavimentate rispetto a quelle destinate al verde. Dirimente nell’identità del giardino “chiuso tra le case” diventa allora la scelta dei materiali di rivestimento e degli arredi. Mentre dapprima ad essi si chiedeva soltanto di essere resistenti, ora nuove regole del gioco vengono dettate da inediti protagonisti, sintetici o naturali, ma rivisitati tecnologicamente; da oggetti polivalenti, modulari, trasformabili. La dimensione design si afferma in giardino secondo modelli mutuati dalle indicazioni di un’industria dell’outdoor sviluppatasi repentinamente (fiere, riviste di settore dedicate alla nuova arte di vivere “fuori della porta”), con relativa ascesa piramidale dei prezzi. Il rischio di appiattimento su un’estensione tale quale della logica dell’arredo di interni – da giardinieri paesaggisti a “architetti … di esterni” – tramortisce in giardino per prime proprio antiche esigenze compositivo prospettiche e linguistiche, di un forte collegamento visivo, di armoniose relazioni di stile tra esterni e interni. Politicamente corretto, Swift invita all’uso di materiali locali, da accordare con il paesaggio circostante e ci conferma che seppure è la loro scelta a “determinare lo stile generale [del giardino], saranno le piante a infondergli vita”(!). Un verde inteso e usato con la consueta competenza e sensibilità anglosassone, ma anche con richiami – prospetticamente fecondi anche sul piano progettuale – al ruolo svolto dai piccoli giardini cittadini nell’ecosistema urbano dove, “caratterizzati da una maggiore biodiversità rispetto agli ambienti rurali, [essi] hanno funzione di corridoio naturale, che rende più facile lo spostamento di insetti, uccelli, mammiferi”. Quanto agli altri abitanti del giardino – noi – e al nostro agirvi, il rischio, viste le premesse, di ritrovarci spettatori consumatori di giardini museo, vetrine da esposizione, sembra evitato soltanto dal pragmatico approccio interlocutorio di un autore abituato a rivolgersi a un pubblico (per quanto televisivo) e alle sue esigenze (per quanto indotte da modelli imposti). Questo almeno nella costruzione dei testi. Quanto alle foto (dove soltanto nei crediti dei fotografi risultano anche i nomi dei progettisti), troppo spesso esse tradiscono lo smarrimento di un senso delle proporzioni (in tutti i sensi inteso) unificante, in una uniformante patina calligrafica e nell’effetto di mancato amalgama dei troppi elementi fuoriscala. Con l’invariabile impressione di sfogliare infinite variazioni di un unico giardino, se non proprio quello “spolverato” – della famiglia Arpel protagonista di Mon oncle di Jacques Tati – certo un suo epigono, appena passato dal manicure.
Joe Swift, Il giardino urbano, Logos 2010, pp. 176, € 14,95, recensito da Andrea Di Salvo su Alias 38 – Supplemento de Il Manifesto 25 settembre 2010