Una certa attenzione al paesaggio, variamente abitato e bistrattato, lega nel tempo, tra versi e pittura, la coppia Prévert−Ribemont-Dessaignes. Paesaggio Paesaggio/ è così che ti voglio/ paese folle degli alberi saggi/ paese saggio d’erbe folli. Così scrive Prévert in Itinéraire de Ribemont sul cartoncino d’invito al vernissage di una mostra dell’amico nel 1951. Pochi anni dopo, Georges Ribemont-Dessaignes disegna una serie di Alberi presentata nel dicembre 1955 alla galleria Mirador da versi di Prévert. Testi poi ampliati e variamente confluiti nel volume ora ristampato Jacques Prévert, Alberi, incisioni originali di Georges Ribemont-Dessaignes, testo originale a fronte, Guanda 2010. Disegnatore/ cacciatore di gioia, come lo definisce Prévert in apertura del poema, Ribemont-Dessaignes incide qui in una tavolozza di toni scuri i suoi modelli spinti avanti dal biancocarta di terre e cieli. Presenze individue anche là dove si affollano nel serrato sovrapporsi di piani. Alberi maestosi, spesso contorti, caduti, sradicati, “segati”; inerpicati su terreni impervi, dove traccia residua di un qualche addomesticamento è un sopravvissuto muro a secco o la quinta di un pagliaio sullo sfondo di una malmessa casa rurale. Pur nell’irriducibilità della multiforme produzione di Prévert, in Alberi si è letto l’affacciarsi di una spiazzante coscienza ambientalista ante-litteram. Sicuramente, nel suo dar voce ad una programmatica protesta che fa collages di parole della vita quotidiana in gioco di libera associazione surrealista, Prévert antivede, individua nel disprezzo per gli alberi (accomunato a quello per le donne) un nodo simbolico degli “anni penombra” trascorsi nell’andar “veloce da nessuna parte”. Se già altrove nella sua opera era emersa una protoconsapevolezza ecologista (fanno la guerra alla natura/ io che davo del tu al sole/ non oso più guardarlo in faccia), come pure – d’altro canto – l’irriverente distinguo di Tante foreste sacrificate per fornire la carta/ai miliardi di giornali che ogni anno attirano l’attenzione dei lettori sui rischi del disboscamento, in Alberi, correggendo in parte un antropocentrismo che tutto riduce a oggetti, Prévert costruisce un albero di parole, dando la parola agli alberi stessi. E la lingua degli alberi è lingua primordiale, gergo più antico di quello degli uomini, chiaro ai bambini che, divenendo adulti, non sanno però più intenderlo: gli alberi parlano albero/come i bambini parlano bambino (e non a caso, è ai bambini che Munari – come un grimaldello per intendere la vita – insegnava a Disegnare un albero). Crescendo, il bimbo parla arboricoltura …/ più non intende la voce degli alberi. E allora, direttamente, parla nei versi una cosmogonia arborescente che richiama un tempo remoto, dove gli alberi … erano persone come noi// ma più solidi/ più felici/ più innamorati forse/ più saggi // tutto qui. La comunanza tra alberi, animali, uomini procede in un’analogia di rispettive cicatrici: graffiti come tatuaggi, vivaisti come vivisettori, potatori come chirurghi estetici … Ma Prévert denuncia come l’uomo prepotente abbia passato il segno e il regno vegetale si sia rivoltato. Lo apprendiamo da un frammento de La speranza verde, romanzo d’anticipazione arborescente, come recita una sezione di Alberi. Qui, alberi prigionieri che alzavano fitte barricate, accompagneranno i loro piccoli a vedere gli umani dietro i cancelli nel giardino degli Uomini a Parigi e le balie racconteranno loro storie di orchi vegetariani. Protagonisti della coreografia arborea sono allora il cipresso “incorruttibile” signore del luogo doloroso; il faggio Essere, che nel gioco linguistico del nome francese che suona come il verbo dichiara la propria identità; il gran Bagolaro nell’ospizio dei vecchi di Antibes, albero millenario con cui si misura – con invidia e ammirazione – un ospite apprendista centenario; o ancora Un ulivo tutto solo/ getta disperatamente/ verso il cielo bruciato/ due braccia di carbone/ come un negro linciato. Scenario che evoca attualissimi interventi della polizia geologica mentre prende le impronte alle felci, o la dissacrante risata della foresta alla richiesta di documenti: on demande ses papiers proprio a chi dal proprio corpo fornisce la carta per la stampa, anche dei documenti. La nostra carta… d’identità. Sfilano poi olmi, cedri, carpini e, con loro, i loro usi e destini: strumenti per musica più vera; complementi fondamentali come manici d’attrezzo o cornici per quadri; steccati appena a fianco di alberi della Libertà; ma anche, ultime ruote del carro o tavole della buca del suggeritore a teatro. O ancora, alberi della cuccagna, aste di bandiera, patibolo, ceppo, forca; Legno d’albero/della conoscenza del bene e del male/ detto anche albero di trasmissione/dei cattivi pensieri. Fuor di cosmogonia, destini degli alberi tutti, e nostri con loro, sordi – ricordava già Prévert – al ringhio sempre attuale della sega dentata, che sparge sull’erba la segatura/ come fosse sangue.
Jacques Prévert, Alberi, incisioni originali di Georges Ribemont-Dessaignes, testo originale a fronte, Guanda 2010, pp. 99, € 8,00 recensito da Andrea Di Salvo su Alias 31 – Supplemento de Il Manifesto 31 luglio 2010