Passeggiare in un irrequieto giardino, lungo binari dismessi riconquistati da una spettinata prateria fiorita, a dieci metri di altezza dal piano strada tra i palazzi del distretto sud ovest di Manhattan, con nella coda dell’occhio lo scintillio del fiume Hudson, oltre che un piacevole abituale modo di passare il tempo per molte di newyorkesi, ha tutti i tratti di un’esperienza estetica. Un flusso di percezioni del bello che si riconfigura con il nostro muoversi in uno spazio ricco di storie e segni assunti e metabolizzati nel progetto; un consistere di sensazioni come esperienza unitaria del piacere estetico, confluire di saperi tecnici sull’asse dell’intenzionalità artistica. Siamo sulla High Line: una linea ferroviaria soprelevata adibita al trasporto merci dagli anni Trenta fino al 1980, poi abbandonata e sottratta alla demolizione dall’attivismo comunitario degli abitanti della zona costituitisi nel 1999 in associazione senza fini di lucro, i Friends of the High Line; quindi acquisita dal comune e divenuta parco: un anno fa l’inaugurazione del primo terzo del percorso; l’apertura del secondo è previsto per la primavera ventura. Corridoio verde, pensilina sulla città e il paesaggio circostante, recuperato spazio all’aperto per i cittadini, occasione di socialità, prosecuzione espositiva per la Public Art di West Celsea uno dei distretti che attraversa e sede della “maggiore concentrazione al mondo di gallerie d’arte”: siamo sulla High Line. Siamo nel paesaggio che la compone, la incornicia e la contiene. La capacità dei giardini – in genere gli spazi del verde – di restituirci prospettive inedite della città, non ha qui tanto a che fare con i luoghi spesso fuori mano che ospitano orti botanici o sistemi interstiziali dove sorgono espressioni temporanee, o le periferie di ex cementifici (il Concrete Park da poco inaugurato a bonificare una delle aree maggiormente inquinate di Nord Bronx), o l’atelier giardino sul lungofiume industriale lato Queens dello Scultur park che ci offre una vista d’insieme di Manhattan quasi tattile per il restringersi prospettico degli spazi oltre Roosevelt Island. Qui la visione insolita della città e del paesaggio – in piena Manhattan – è indotta dalla quota di 10 metri alla quale ci troviamo e ci spostiamo esplorando lo spazio. Dalla separatezza con la fonosfera della metropoli che questa salita determina: un effetto di vuoto eguale e opposto al troppo pieno dei giardini “tascabili” di Midtown Manhattan: Paley Park e, ancor più Greenacre Park: minuscole oasi incastonate tra i grattacieli degli uffici, separati dal putiferio stradale da un invisibile cancello sonoro attivato dal rumore di sculture-cascate e pareti d’acqua (Sul verde a New York è appena uscita in agosto la nuova edizione del volume di Nancy Berner e Susan Lowry, Garden Guide: New York City, W.W. Norton & Company, New York London, 2010, pp. 424).
La sospensione sonora del ritmo urbano amplifica l’esperienza estetica che sulla High Line si gioca su un doppio registro visivo: continuamente, una duplice profondità di campo induce l’andirivieni di messa a fuoco sinottica tra quel che vediamo oltre (il continuum dello skyline della città; la visione per prospettive lunghe – rare in città – sottolineate dalla linearità dei binari; gli improvvisi corridoi visivi laterali che si aprono tra blocchi di palazzi in corrispondenza degli incroci tra le strade libere dagli edifici; il piano ravvicinato dei palazzi adiacenti) e quel che vediamo a portata di piede (è pur sempre un’opera che si fruisce guardando anche dove si mettono i piedi): la struttura, larga appena 12 metri, della High Line. Una struttura che se pure incornicia ogni visione di quell’oltre appena detto – cornice in movimento che ci porta – è appunto essa stessa progetto, opera, giardino. Come rovina del paesaggio postindustriale, la struttura della High Line è stata intenzionalmente recuperata (ripristino delle paratie Art Decò) e valorizzata (ad esempio nell’esperienza degli accessi con scale che la tagliano per abitarla). Ma anche nel modo in cui essa è stata resa giardino si è inteso mantenere lo spirito selvatico ispirato dallo strato di vegetazione spontanea che negli anni dell’abbandono si era formato, non visto e inaccessibile, tra i binari. Per far ciò, la scelta di James Corner di Field Operations e Diller Scofidio + Renfro, vincitori del concorso Designig the High Line, è stata quella di usare un unico sistema di pavimentazione, basato su moduli prefabbricati con giunti aperti che consentissero l’affiorare del verde “come nelle crepe del marciapiede”. Si produce così una superficie abitata, ondivago ibridarsi di percorsi e vegetazioni, caratterizzata, nei diversi tratti del percorso, da specifici episodi: biotopi di paesaggio e spazi d’azione frutto del variare delle percentuali nella relazione vegetazione/minerale calpestabile. Il carattere dinamico del sito, l’ispirazione selvatica trovano conferma nella scelta delle piante. Ne è interprete e sigillo lo stile naturalistico dell’olandese Piet Oudolf tessitore di paesaggi in movimento dai toni discreti, ma dalla ricca tavolozza, dalle associazioni di una bellezza verosimile di graminacee e erbacee perenni (e che ha realizzato anche i giardini a The Battery sulla punta di Manhattan). Nel disegno del giardino, accanto alle specie orticole, Oudolf ha rintracciato un gran numero di specie native, risalendo alle selvatiche e quindi a bassa manutenzione; ottenendo serrati cambi di fioriture, varietà di forme, altezze, colori e caratterizzando così le diverse stazioni della High Line: dalla piantumazione densa del Grasenvoort Woodland, alle Washington e Chelsea Grassland; al futuro Woodland Flyover, cavalcavia di metallo ulteriormente sollevato rispetto al livello della High Line in una zona dove il microclima creato dai palazzi adiacenti consente crescita di piante anche più alte, tra le cui chiome potranno così passeggiare i visitatori. Soluzioni integrate di verde e pavimentazione, ma anche, a dire dell’importanza degli usi e delle attività previste in uno spazio pubblico di socializzazione, coordinati piani di arredo e illuminazione. Panche Peel-up, che sembrano emergere direttamente tra le maglie della superficie come le piante e i vecchi binari sui quali sono pure montate alcune sdraio “panoramiche”; luci a LED nascoste per non disturbare la vista dello scenario della città. Il tutto in un continuum abitato di soggetti e attività multiformi, immediatamente sintetizzato nella pagina del volume che racconta il progetto dell’opera (Designing the High line. Gansevoort Street to 30th Street, 2008, Friend of the High Line, New York 2008, pp. 160) dove si affiancano il diagramma di diversificazione nel tempo delle forme di coevoluzione tra vita delle piante, uccelli e insetti e quello della diversificazione possibile delle attività praticate (danza e film festival, librerie all’aperto, concerti, festeggiamenti, shopping, stazioni di fitness, estemporanee di pittura, visite dei giardini con astronomi al chiaro di luna, festival dei fiori di primavera, reading di poesia, mercatino delle pulci, tornei di scacchi, bagni di sole, lezioni passeggiate con giardinieri ,…). La complessa programmazione delle attività ricade tra gli impegni dell’associazione degli Amici della High Line a ricordarci che “c’è anche una dimensione politica sociale ed economica che riguarda la natura di High Line come spazio pubblico e per la sua riuscita”. Che, se nella fase istruttoria e poi di recupero fondi, il modello partecipativo, a suo modo variazione sul tema dell’esperienza dei community garden, dei Friends of the High Line ha funzionato anche perché ha dimostrato che l’operazione sarebbe stata economicamente vantaggiosa per la città; oggi la prosecuzione del lavoro nelle altre sezioni è collegato al successo della manutenzione, alla valorizzazione e gestione dell’esistente. Ad animare la vita della High Line, icona della mutevole storia dei luoghi traversati (da distretto della lavorazione delle carni e stoccaggio delle derrate in stretta relazione con il porto, a luogo ad alta concentrazione di gallerie d’arte), ci sono programmi per attività di svago, formative per scuole e famiglie e in particolare legate all’arte contemporanea “di ogni genere, che utilizzi qualsiasi medium”. C’è un programma di finanziamento di opere e attività realizzate su commissione; un modello di collaborazione in partnership con organizzazioni per progetti da realizzare “sopra, nella, sotto e intorno” la High Line; programmi educativi in diversi formati comprese letture, discussioni peripatetiche, workshop, e visite alle gallerie dei dintorni. Ogni angolo è buono ma esistono poi luoghi deputati: tra gli altri, l’anfiteatro di legno di 10th Avenue Square, ritagliato nella struttura dove, oltre il fondale di vetro, va in scena senza posa lo scorrere del traffico della sottostante Decima Avenue, e il Chelsea Market Passage (la High Line attraversando gli edifici, ricava spazi coperti da utilizzare per presentazioni, letture, incontri) dove il primo lavoro del Public Art Program è stato sostenuto dal Rockfeller Foundation’s New York City Cultural Innovation Fund. Senza contare che al “capolinea” sud della High Line sorgerà il nuovo Whitney Museum of American Art facility. Fino allo Street Viewing Spur: la piattaforma dove i visitatori della High Line, inquadrati nella cornice di quelli che un tempo erano i tabelloni per affissioni che le si addossavano, si affacciano ad osservare viste della città, mentre dal piano strada – in un gioco di schermi, cornici e rimandi – diventano essi stessi promozione di un altro modo di abitare lo spazio. Un modo dove la fruizione condivisa, riflessa e amplificata nello sguardo altrui, continuamente ritorna in un circolo virtuoso a dirci come, secondo Kandisky ad avvio del suo Lo spirituale nell’arte: “ogni opera d’arte è figlia del suo tempo, e spesso – certo in questo caso – è madre dei nostri sentimenti”.
Andrea Di Salvo, da Alias 36 – Supplemento de Il Manifesto 11 settembre 2010