Un avvio fulminante, dove come in presa diretta si racconta la tempesta che al volgere del millennio – il 26 dicembre 1999 –, oltre a segnare buona parte della fisionomia arborea della Francia centrale, sfigura il parco della reggia di Versailles. Vento oltre i 160 km orari, per ore, rumore assordante e poi il silenzio irreale, cozzare di tronchi e colline di terra sollevate in aria al venir via delle radici e al loro posto profondi crateri. Più di 18.000 alberi distrutti o divelti, la conta dei patriarchi sradicati e di quelli sopravvissuti, i viali di fronte alla reggia scompaginati. Intorno, le strade interrotte, gli animali fuggiti. Impossibile riconoscere il disegno di quello che siamo abituati a considerare come un modello di ordine e armonia, geometrica proporzione e simmetria. Anche per chi in quel parco vive e lavora da oltre vent’anni, oramai come capo giardiniere, e di fronte alle perdite irrecuperabili, alla prospettiva di un giardino impraticabile per chissà quanto tempo, alla difficoltà di reperire le risorse per avviare il restauro, all’arrivo degli elicotteri dell’esercito in soccorso, prima di riprendere in mano organizzativamente la situazione, vince la sua abituale timidezza e, oltre la sua indole riservata e le lacrime, racconta con passione i danni della tormenta davanti ai media accorsi a constatare il disastro, innescando così una solidale reazione collettiva con conseguenti donazioni e sostegni al ripristino.
Ecco l’innesco del racconto del «suo» parco da parte di Alain Baraton, Il giardiniere di Versailles, Skira, pp. 214, € 17.00, che ripercorre le sue personali memorie di vita in questo luogo, intercalandole con la rievocazione e la lettura di episodi storici, aneddoti e ritratti dei protagonisti della vicenda dei giardini della reggia.
Quel giardino che da bosco di caccia si fa con i grandi lavori di Luigi XIV sotto la direzione di Le Nôtre strumento di espressione del potere, fin sugli elementi della natura – la Versailles barocca del Grand Canal e delle scenografie dei grandi assi e delle sorprese del mondo dei boschetti, popolata dalle statue di Le Brun –, poi quella classica, rettilinea e razionale, ma anche nuovamente intima con l’appassionato di giardini Luigi XV e, ancora, primo-romantica con il Borgo, il tempio dedicato all’amore e la Grotta fatta costruire nel giardino anglocinese del Trianon per Maria Antonietta. Una Versailles sopravvissuta poi alla Rivoluzione, sottolinea Baraton, per l’intuizione del giardiniere Antoine Richard, che propone di far passare le terre del parco nelle mani della Convenzione e mettere a disposizione del popolo i raccolti dell’orto reale.
Tra le sue predilezioni (il giardiniere erudito e uomo di lettere, appassionato di Plinio e fondatore dell’orto del re, Jean Baptiste de La Quintinie, rispetto al sempre condiscendente Le Nôtre, che “disegna lo spazio piuttosto che coltivarlo”) e notazioni emozionate (il ritrovamento dei graffiti dei comunardi rinchiusi nella grande Aranciera trasformata in prigione), Baraton evoca in una sua visita ideale, distribuiti nel parco e nei secoli, incontri, concerti, danze, caroselli. Come nel testo di Luigi XIV sulla Maniera di mostrare i giardini di Versailles, dove il sovrano prescrive oltre al tracciato della visita, l’ora da praticare, in ragione delle ombre, le tappe e anche le pause da rispettare.
Per il giardiniere Baraton, l’esperienza diretta del parco prende avvio quando, dopo un’infanzia stentata e malinconica, senza vocazione per quella che diverrà solo con Versailles la sua grande passione – complice, per via indiretta il giardino dell’amato nonno, capostipite figura gentile del giardiniere ideale –, Alain comincia a lavorare, nel 1976, dapprima come cassiere addetto a raccogliere il pedaggio dalle automobili che allora avevano diritto a circolare liberamente nel parco, poi come aiuto tirocinante, giardiniere mosaicista, vicecapo e, dal 1982, capo giardiniere del parco. Il suo racconto illumina il dietro le quinte di un universo speciale dove il capo giardiniere vive nel cuore del parco, nelle ex scuderie che furono la casa di Molière, prendendosi cura di centinaia di migliaia di alberi, predisponendo il calendario delle fioriture e il susseguirsi dei cantieri di restauro, coordinando il lavoro di 100 persone su 850 ettari. In un elogio del mestiere che tenta di rinnovarsi, fatto fin qui anche di ritmo e pause in coreografia, di osservazione e apprendistato, di una manualità affidata a una strumentazione sentimentale che prevede “finezza e minuzia”, di conoscenza che si fa e si misura con la regola del clima e delle stagioni, che interagisce con qualcosa di vivo, Baraton recensisce i rapidi cambiamenti, l’impennarsi degli impegni burocratici, lo sfarinarsi nel lavoro delle pratiche sociali, l’urgenza senza ragione imputata al cambiamento tecnologico. Ma anche l’aspirazione a fare dei giardini un luogo vivo, senza ridurli a appendice sottovetro del museo. Rispettandone l’autenticità, cercando di render loro i colori storici, non le solite begonie, salvia e verbena (fonte preziosa, i dipinti della galleria di Cotelle), con la ripresa della pratica delle piante in vaso (non più diffusa dai tempi di Luigi XVI se non per gli aranci), l’apertura dei prati intorno al Trianon, …
Certo, la Versailles di oggi del giardiniere Baraton non è più il parco dei suoi inizi, otre trenta anni fa, con alberi maestosi, alti, antichi. Cupo, buio perfino, ma pieno di fascino.
Quel fascino che ancora manca al giovane, grazioso giardino adolescente figlio della tempesta.
Alain Baraton, Il giardiniere di Versailles, Skira, pp. 214, € 17.00 , recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica V, 22, Supplemento de Il Manifesto del 31maggio 2015