Una lettura sul lungo periodo come quella imposta dalla scansione stessa di Medioevo è un esercizio quanto mai utile a cogliere i caratteri originali e gli snodi del filo rosso tra passato e presente che si rivela per molti tratti ancora ben leggibile in quella pluralità de I paesaggi dell’Italia medievale raccontati oggi dallo storico Riccardo Rao in una sintesi che mancava. Dove convergono studi settoriali e diversi approcci disciplinari, dall’Ecologia storica alla Nuova geografia culturale, all’indagine archeologica, contemperando suggestioni e metodologie e attualizzando gli esiti interpretativi del più recente dibattito storiografico (Carocci editore, pp. 274, € 22). E dove poi come chiave di lettura sottesa all’analisi dei paesaggi della penisola se ne identifica – certo con le differenti modalità che ne caratterizzano gli sviluppi al Centro Nord e nel Sud – la matrice “collettiva”, agita specialmente su base “locale”. Da collocarsi sotto il segno di un incessante dinamismo e di una fluidità che continuamente riconfigurano ruoli, contorni e fasi della dialettica tra modelli insediativi, con la forte compenetrazione di spazi coltivati e costruiti; dinamiche di utilizzo delle risorse; protagonismi dei soggetti sociali, urbani e rurali, nel loro declinarsi sia in termini di rapporti di forza, che di ragioni e rappresentazioni mentali.
Paesaggi della paura, del legno e del bosco, quelli che con la crisi delle strutture di inquadramento romane e il declino degli abitati sparsi vedono il graduale definirsi su base locale di nuovi elementi di coordinamento del territorio: castelli e specialmente villaggi (spesso in altura o in prossimità dei fiumi per compensare la crisi dei sistemi stradali, spesso in divenire serrato di conferme e abbandoni). Elementi in reciproca dialettica attrazione (e senza dimenticare la presenza delle reti delle parrocchie) che, accentuando la dimensione accentrata delle comunità, favoriscono anche prime forme di condivisione collettiva di risorse: che siano riserve di incolti dei fluidi paesaggi fluviali, o quel bosco sempre più “abitato” nel suo articolarsi di selva fruttifera, pascolo, ceduo, che, con il rilievo economico delle attività silvo-pastorali, va assumendo un’inedita dimensione positiva anche nell’immaginario (basti pensare al ruolo degli alberi nella definizione dei confini e nelle mappe mentali, che presuppone una cultura botanica diffusa).
Specialmente nelle età della crescita, tra condivisione di boschi allevati e risorse in forme d’uso comune, vieppiù regolate e organizzate, e incedere di nuovi dissodamenti (non ultimi i paesaggi monastici che, pur fuor di cliché, riferiscono del ruolo di quei grandi innovatori nella gestione pianificata dei patrimoni) e ancora in relazione stretta con lo svilupparsi dell’allevamento, con il ri-dislocarsi di colture specialistiche come la vite e l’olivo, con le fasi di avanzata e arretramento del castagno (con la sua valenza di indicatore della crescita e di diversificazione alimentare di resistenza), svetta sempre sullo sfondo il ruolo delle città comunali, nella loro dimensione segnatamente collettiva – quantomeno a livello di autorappresentazione –, nel succedersi delle loro fasi, fin poi verso gli esiti delle signorie territoriali.
Così i diversi paesaggi urbani, variamente di torri, chiese, mercati, palazzi pubblici e poi residenze signorili, porte che affacciano sul territorio; così, il loro proiettarsi sulle campagne modellandole in un “laboratorio di forme paesaggistiche” pronte a diffondersi sui territori più lontani, in un rapporto osmotico che tende poi però a scardinare equilibri di consolidati sistemi territoriali locali; fino a municipalizzare e a privatizzare i beni comuni, fino a farne beni dell’esclusione, riservandoli soltanto ad alcuni membri.
La crisi degli insediamenti accentrati, in particolare del villaggio, nonché il moltiplicarsi degli abitati sparsi, leggibili ancora oggi nel pulviscolo di borghi e frazioni e nella presenza di edifici isolati nei campi, sono – al passo con il ripiegamento dell’economia di fine 200 che anticipa il crollo demografico della peste nera e poi con la nuova espansione a metà 400 – tra gli elementi che più fortemente segneranno l’impronta del paesaggio che a conclusione del Medioevo porterà ancora gli uomini a risiedere in prossimità dei campi che lavorano.
Assieme alla rete di cappelle campestri (punti di riferimento non solo ideali, come prima lo erano gli elementi naturali) e ai castelli dei paesaggi della guerra, tesi però sempre più verso funzioni residenziali e di prestigio, l’abitato sparso nelle forme di cascine, poderi, masserie è il precipitato di una nuova geografia sociale e di un’economia dove gli interessi della grande proprietà, sostenendo logiche produttive funzionali alla commercializzazione dei prodotti, determinano sempre più spesso nel corso del 300-400 una serie di paesaggi della specializzazione, dalla praticoltura alla viticoltura, mentre gli interventi a vantaggio delle prerogative demaniali operati dai poteri principeschi (nelle diverse declinazioni locali qui in una sorta di riallineamento nord-sud) si riverberano anche sul paesaggio indebolendo ulteriormente le strutture comunitarie di gestione collettiva del territorio.
Nel complesso, allentando le maglie di quella dimensione collettiva e locale delle tante tipologie di interazione uomo-ambiente indagate con le lenti della storia sociale in quel lunghissimo, stratificato e dinamico Medioevo dove, tra continuità e accelerazioni, e ancora in un generale equilibrio di uomini e risorse, si fondano molte delle caratteristiche del nostro attuale paesaggio.
Riccardo Rao, I paesaggi dell’Italia medievale, Carocci editore, pp. 274, € 22, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica VI, 12, Supplemento de Il Manifesto del 20 marzo 2016